Ancora una volta Herdonia fu
abbandonata.
Ora il sole
la brucia, il vento la sferza, la pioggia la infanga.
E lincuria
delluomo la copre di vergogna.
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La descrizione è realistica e nello stesso tempo intrigante.
È il 13 novembre 1995, al Porto franco di Ginevra. Un maresciallo
dei carabinieri non crede ai suoi occhi: in cinque locali sono ammassati
3.800 reperti archeologici, con pezzi anche imponenti,
con decine di immensi vasi etruschi, apuli e attici in ottime condizioni,
con una trentina di altri oggetti che i periti di lì a poco
avrebbero definito «rarissimi», con altri due considerati
«unici», con affreschi pompeiani di dimensioni gigantesche,
di oltre duemila anni fa, fra cui tre pareti, probabilmente una
stanza di una villa sepolta dalleruzione del 79 d.C., di cui
non è dato conoscere lesatta ubicazione né il
numero e la disposizione delle stanze che la componevano: le tre
pareti avevano ridotto tutto in un monolocale.
È il destino che capita a tutti i reperti avulsi dal loro
contesto, a meno che non si tratti di furti di opere già
note e catalogate. Come accadde per venti piatti attici a figure
rosse, di venti centimetri di diametro, di 2500 anni fa (490-480
a.C.), dipinti con figure di danzatrici e servi. Si conoscevano
altri rari piatti, provenienti quasi tutti dallEtruria: da
Chiusi i 12 del pittore Lydos, e 5 su 8 di quelli opera di Peseas;
da Vulci, 7 sui 12 noti, dipinti da Epiktetos, uno dei più
abili disegnatori del V secolo prima di Cristo. Mai ci si era trovati
al cospetto di 20 piatti eseguiti dalla stessa mano, portati in
valigia, ma rotti, poi sequestrati e restaurati alla perfezione.
Il mercato clandestino è sterminato e i prezzi in alcuni
casi sono da capogiro. La Venere di Morgantina era giunta
al Getty Museum dopo un pagamento, nel 1987, di 20 milioni di dollari,
così come un milione di dollari era stata valutata la Maschera
davorio, poi restituita allItalia. Nei depositi
di Ginevra, ma anche di Londra e di New York, unorganizzazione
criminale custodiva 17 mila pezzi, in buona parte di provenienza
italiana: valore stimato, 125 milioni di sterline, circa 360 miliardi
di lire. Non per niente Carlo Giulio Argan aveva scritto che distruggere
larte è un tal peccato che, se si riscrivessero le
Tavole della Legge, «di certo dovrebbe esservi ricompreso».

LItalia è senza dubbio un marchio che
tira per bellezze e città darte. Abbiamo un patrimonio
unico al mondo, eppure non siamo riusciti a farlo diventare il detonatore
di un grande sviluppo, in modo particolare nel Sud. Deteniamo il
quinto posto per afflussi turistici internazionali e il 5 per cento
di quota nel mercato mondiale: cioè, siamo ben al di sotto
delle possibilità di un Paese come il nostro, che fino a
questo momento ospita oltre 40 degli 800 siti dichiarati dallUnesco
patrimonio dellumanità. Da noi il turismo è
un settore con 2 milioni di addetti, che contribuisce alleconomia
nazionale per il 12 per cento del Prodotto interno lordo, che diventa
il 20 se si include lindotto, piazzandosi così fra
le principali voci attive della bilancia commerciale.
I punti deboli della nostra offerta sono molti, ma spicca fra tutti
il livello dei prezzi dei servizi turistici, più alto rispetto
a quello dei maggiori concorrenti europei, Spagna e Francia. In
ogni caso, le previsioni per questanno sono in rialzo, come
indica una ricerca di Unioncamere. Secondo il 72 per cento degli
operatori, il maggior flusso verrà dagli Stati Uniti. Seguono
i Paesi scandinavi, il Belgio e i Paesi Bassi. Hanno già
programmato una vacanza in Italia 8,2 milioni di tedeschi (l11,7
per cento della popolazione). Per il 18,7 per cento di loro vince
lappeal di città darte, Sud e isole.
Per il Sud continentale e insulare, dunque, è necessario
un new deal della bellezza, come è stato scritto, con investimenti
in un settore che nessuna Cina e nessuna India potrà mai
sottrarci. Si deve investire per valorizzare, per rendere il turismo
darte una carta vincente. E si devono tutelare tutti i giacimenti
storici e darte del Paese e del Mezzogiorno: aree archeologiche,
musei, chiese, tebaidi dogni epoca, castelli e palazzi, centri
storici e paesaggistici, grandi collezioni private ufficiali, persino,
da mettere a servizio di un progetto complessivo destinato ad attrarre
un numero crescente di visitatori e a creare impieghi e ricchezza.

Ma non vanno abbandonate a se stesse neanche le ricchezze che ancora
oggi giacciono sottoterra, e che sempre più spesso sono oggetto
di scavi clandestini che ci sottraggono opere darte anche
di valore inestimabile, alimentando la filosofia cialtronesca di
chi trova costruttivo il fatto che possiamo permetterci il lusso
di distribuire bellezza nel mondo.
Qualche esempio che ci riguarda da vicino. Le greggi pascolano fra
mosaici e rovine affioranti là dove un giorno sorgeva Herdonia,
la città oscura, della quale non si era conosciuto
il vero nome fino alla seconda metà dellOttocento,
quando i soliti archeologi tedeschi scoprirono che il nome completo
ed esatto della città centro della civiltà
dauna nel VII secolo prima di Cristo, e molto prima ancora insediamento
neolitico compariva per la prima volta allepoca della
seconda guerra punica: quella che ebbe inizio nel 218 e finì
nel 201 a.C., con Annibale che punì lambiguità
della città, (prima alleata dei Romani, poi dei Cartaginesi,
poi di nuovo dei Romani), incendiandola e deportando a Metaponto
tutti i suoi abitanti.
Obscura la città è ancora oggi. Il professor
Charles Verlinden, presidente dellAccademia Bellica di Roma
negli anni Sessanta, poco prima che una missione archeologica mossa
da Bruxelles approdasse nella provincia di Foggia, aveva detto che
Herdonia rappresentava la migliore possibilità di studiare
i periodi, appunto, oscuri tardoromano e medioevale,
perché «è una città che è stata
abbandonata nel Cinquecento e successivamente mai più rioccupata».
E aveva aggiunto: «Il suo abbandono è stato in un certo
senso la nostra fortuna. È loccasione unica per indagare
non più solo sui monumenti e il materiale archeologico, ma
su una città intera».
Lunedì 26 novembre 1962 una squadra belga, guidata da Josenio
Mertens, docente alluniversità di Lovanio, cominciò
a scavare, e proseguì per trentotto anni, riportando alla
luce quattro ettari su venti, sufficienti ad offrire lo spettacolo
di una delle città romane più complete dellintera
Italia meridionale. Quando poi, nel 1993, a Mertens si associò
anche il Dipartimento di studi classici e cristiani delluniversità
di Bari, il cantiere prese a brulicare di centinaia di studenti
italiani e stranieri: il sogno di far diventare Herdonia un parco
archeologico vivo sembrò essere finalmente a
portata di mano.
Giuliano Volpe, che partecipava ai lavori, e che in seguito avrebbe
insegnato Archeologia medioevale e tecnica della prospezione archeologica
alluniversità foggiana, ricorda che tutti vivevano
«dentro una bolla di entusiasmo continuo», davanti al
tempio italico del II secolo a.C. e ai magazzini sotterranei per
la conservazione del grano, e poi alle botteghe del macellum,
e alla piazza forense, alla palestra, alla basilica civile, alle
terme e ai mosaici e alle basole così ben conservate della
via Traiana, che consentì a Herdonia di diventare lo snodo
principale per chiunque attraversasse il Tavoliere; e poi ancora
davanti alla via Herdoniatana, iniziata da Adriano e terminata da
Antonino Pio, che collegò la via Traiana alla via regina,
lAppia

Si scavava, si scopriva, si catalogava. E si fantasticava. Ma nel
2000 tutti furono costretti a smettere. Di botto. Molti monumenti
dovettero essere addirittura sepolti di nuovo e in fretta, dal momento
che non se ne potevano garantire il restauro e la conservazione.
Ma molto era ormai emerso. E tuttavia ancora una volta Herdonia
doveva essere abbandonata. Ora il sole la brucia, il vento la sferza,
la pioggia la infanga. E lincuria delluomo la copre
di vergogna.
Vi erano state riportate alla luce così tante cose, che ad
un certo punto la Soprintendenza dei beni culturali di Puglia deve
essersi spaventata. Spiccava, fra gli altri reperti più unici
che rari, un prezioso esemplare di meridiana sferica acentrica:
un orologio greco-romano tagliato nella pietra, che adottava la
suddivisione del giorno in due parti (una di luce e laltra
di tenebre), ciascuna delle quali composta sempre di dodici ore.
Quelle diurne risultavano quindi più lunghe destate
e più brevi dinverno. Linverso quelle notturne.
È stato scritto che i proprietari dellarea, la famiglia
dei conti Cacciaguerra, fervidi sostenitori della spedizione Mertens,
a norma di legge avevano diritto a un premio di rinvenimento pari
al 20 per cento del valore stimato degli oggetti ritrovati. E poiché
non si trova un accordo con lo Stato sul prezzo dellesproprio,
il premio è reclamato per vie legali. Quando si fanno un
po di conti, vien fuori una cifra ritenuta troppo alta. E
allora, sebbene fino al 1993 la missione sia stata finanziata solo
da Bruxelles, la decisione di non rinnovare la concessione di scavo.
Tutti a casa, docenti, studenti e operai. E via i paletti dalla
successiva area di scavo, la basilica paleocristiana del V-VI secolo
dopo Cristo. Sipario calato sul sogno del parco archeologico. Fine
delle illusioni degli abitanti della moderna Ordona. Caduta verticale
delle speranze di Mertens, che si è pentito di non aver ricoperto
lintera area per salvare il sito. Nessuna delle pubbliche
istituzioni è riuscita a guardare al di là del proprio
naso. Perché Herdonia è al centro di unarea
di grandissimo interesse storico, artistico e archeologico.
Sulla costa adriatica, ad esempio, a poca distanza da Sipontum,
(la città delle seppie, secondo letimologia più
diffusa; ma più probabilmente, la città costruita
sugli scogli sforacchiati dai datteri di mare), a Manfredonia, nel
castello svevo-angioino, cè il museo nel quale sono
state raccolte le celeberrime Stele daunie, duemila
documenti di pietra, interi o in frammenti, grazie ai quali la storia
è narrata una volta tanto non dai vincitori,
ma dai vinti, gli esuli troiani giunti su questi lidi e rimasti
al riparo allombra dellascella garganica: grazie ad
esse, conosciamo abbigliamento, anche militare, e armi e gioielli
e persino le fisionomie degli esponenti della nuova civiltà,
lì giunta (come leggenda vuole) insieme con Diomede, con
Calcante e con Cassandra.
E a sud del Gargano, a venti miglia dal mare, sorgeva Arpi, una
città che, se scavata nella sua interezza, sembra superi
in grandezza e in bellezza di reperti, secondo coloro i quali lamentano
che Winckelmann e tutta la banda neoclassica abbiano
messo in ombra Dauni e Messapi, per celebrare i fasti di Magna Grecia,
(DAndria), la stessa Pompei.
Per i poeti (Eneide, XI) si chiamò Argirippa e si ritenne
fondata da Diomede. Il nome risulterebbe composto da Argos, in memoria
della patria lontana, e da Hippium, per qualificare leccellenza
del luogo adatto per lallevamento dei cavalli. Il nome Arpi,
invece, derivando dal greco arpe, significherebbe falce;
ma potrebbe derivare anche da arpane, come venivano
chiamati gli armenti dei buoi allevati nellarea. Questa versione
potrebbe essere la più verosimile in quanto Arpi, presumibilmente,
ha avuto per stemmi il delfino, il cavallo, il cinghiale e il bue.
Fu città ricca e popolata, dedita al commercio (Siponto fu
il suo porto), fu con Roma contro i Greci stanziati in Campania,
e nel corso della seconda guerra sannitica, quella delle Forche
Caudine. Dopo la battaglia di Canne, stanca delle imposizioni romane,
passò con Annibale. Conquistata da Roma, ebbe tolta la libertà,
abbattute le mura, negato lapprodo marittimo a Siponto, vietata
la coniazione di proprie monete.
Eppure, aveva formato una vera e propria classe aristocratica, col
prestigio fondato sulla ricchezza della cerealicoltura. Le case
nobili e le tombe a camera dellepoca lo attestano ampiamente.
Tra le meraviglie della cultura dauna, la casa del mosaico, dei
griffi e delle pantere, lipogeo della medusa e quello di Ganimede.
La casa del mosaico ha ambienti con mosaici, pitture e un impianto
termale provvisto di un bagno: di evidente stile greco, è
una delle testimonianze abitative più significative del rapporto
tra mondo ellenico e mondo italico nel periodo compreso tra il IV
e il III secolo prima di Cristo.
Le ipotesi sulla distruzione di questo altro immenso scrigno di
tesori darte sepolti sono varie: Arpi potrebbe essere stata
distrutta da Silla nell83 o nell82 a.C. a scopo di ignobile
vendetta; oppure da Totila, re dei Goti, che, dopo aver raso al
suolo Benevento nel 545 d.C., continuò le sue devastazioni
anche in territorio dauno; o ancora, come sostengono alcuni, verso
il 630-650 d.C. Costante II, con il pretesto di scacciare i Longobardi
invasori, mise a ferro e a fuoco numerose città, e Arpi fra
queste; infine altri sono certi che la città venne distrutta
dai Longobardi e dai Saraceni, gli uni e gli altri impegnati a fronteggiare
i Bizantini. Sta di fatto che, col tempo, si ridusse ad un miserabile
cascinale utilizzato per il cambio cavalli delle corriere che percorrevano
le strade di quello che oggi è il parco archeologico (ancora
quasi del tutto sconosciuto) di Passo di Corvo.
Eppure, con gli altri siti di Monte Saraceno-Punta Rossa, sulla
costa che digrada da Monte SantAngelo; di Merinum, a metà
strada tra Vieste e Rodi; di Torre Mozza, al di là del Fortore;
di Chiesa Civitate e di Torrione, appena al di qua dello stesso
corso dacqua; della celeberrima Grotta Paglicci, a sud di
Rignano e della Grotta Smeralda, dalle parti del monte Barone, la
Capitanata è una continua scoperta per chiunque ami arte,
preistoria e storia, e voglia conoscere i segreti della civiltà
garganica e del Tavoliere dallalba del mondo ai nostri giorni.
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