Settembre 2006

Papa Ratzinger e Oriana Fallaci, cinque anni dopo le Twin Towers

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Strappi di settembre
Aldo Bello  
 
 

Il Papa non ha
nulla di cui doversi scusare, perché
non ha attaccato
l’Islam, ma ha
parlato dell’Islam, del Cristianesimo
e dell’Ebraismo e lo ha fatto in nome del libero pensiero.

 

Certe volte si deve scrivere come in apnea. Ed è questo un caso: non solo per le straordinarie coincidenze che hanno caratterizzato le prime settimane di settembre, ma anche perché alcune vicende sono ancora “in progress”: sappiamo quando, dove e come sono incominciate, non ci è dato precisare quando, dove e come andranno a finire. Dunque, è necessario attenersi ai fatti (certi o accertati) e su quelli soltanto ragionare, mettendo da parte ipotesi e interpretazioni su futuri sviluppi che le cronache potrebbero smentire nello spazio d’un mattino.
Primo dato reale: la Storia ha cambiato corso l’11 settembre di cinque anni fa, nel 2001, con le stragi alle Twin Towers, al Pentagono e nel cielo americano (un aereo precipitato forse per la reazione dei passeggeri; vettore diretto con tutta probabilità verso la Casa Bianca), consumate dai razzisti fondamentalisti musulmani. All’epoca, tutti gridarono di “essere americani”, compresi quei tristi figuri che immediatamente dopo, al cospetto delle decisioni statunitensi di reagire e di attaccare il terrorismo islamico a livello planetario, voltarono velocemente gabbana, rientrando nell’ovile materialista che nega qualsiasi uscita di sicurezza; e compresi quei personaggi ambivalenti, figli dell’opulenza occidentale e delle garanzie di libertà assicurate dalla civiltà occidentale, che con il loro terzomondismo d’accatto, rigorosamente antiamericano e – appunto – antioccidentale non cessano di rinnovare il complesso di colpa, anche cristiano, di cui si lamentava Nietzsche, sebbene si tratti di individui privi di autentica fede religiosa praticata, e impegnati in vaniloquenti girotondi o in marce di tribù settarie che con larghe complicità spacciano ogni anno la visione edulcorata di un San Francesco pacifista “ante litteram”.

Il punto di snodo è in quel World Trade Center che la violenza cieca trasformò in Ground Zero, in morte di massa, in sacrificio di vittime innocenti appartenenti a novanta etnie diverse, in emblema della capacità distruttiva dei kamikaze islamici. Da quel momento mutò pelle la storia del mondo: non più guerra in campo aperto, ma scontro fra chi prega per vivere e chi vive per pregare, e più realisticamente, fra chi esalta la vita come dono supremo dato da Dio e chi celebra la morte, nel nome di un presunto “martirio”, come transito glorioso nel paradiso delle Uri: tra una civiltà inclusiva, cioè tollerante, qual è quella dei cristiani, o crociati che li si voglia strumentalmente definire, e quella dell’esclusione, musulmana, intollerante, sorda al dialogo sincero, discriminante nei confronti dell’Altro e anche al proprio interno. Nel testamento del kamikaze che diresse la strage alle Twin Towers era scritto: «Ai miei funerali non voglio esseri impuri, cioè cani e donne. In particolare, quelli più impuri, cioè le donne incinte». Sarà anche per il tentativo di raggiungere una pari dignità che tra gli estremisti imbottiti di esplosivo ci siano state anche alcune giovani donne?
(I rapporti tra Oriente e Occidente erano già stati stravolti nell’anno del Signore 1187, quando Saladino costrinse alla resa Gerusalemme, la città dei re David e Salomone, senza che fra le sue mura ci fosse un solo musulmano. Figlie di una conquista bellica, dunque, sono le moschee di Omar e di al-Aqsa, insieme con le mura volute dagli Ottomani che avrebbero fuso insieme le figure del Sultano e del Califfo, tramandando nel tempo la indivisibilità dei poteri).

Secondo dato di fatto: l’attacco concentrico al Papa, dopo il discorso all’Università di Regensburg. Un caso montato, intanto, dalla tv araba Al Jazeera, la stessa che aveva invitato allo scontro per le vignette satiriche danesi (ma quattro mesi dopo la loro pubblicazione), e poi dall’insipienza dei media occidentali (esclusi quelli tedeschi), i quali hanno estrapolato, dalla citazione dell’imperatore bizantino Manuele II, la frase: «Mostrami ciò che Maometto ha portato di nuovo e vi troverai soltanto cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava».
Ora, ci sono molti modi di aggredire un Capo spirituale che ragiona da uomo libero sulla più importante questione del nostro tempo, l’islamismo politico e il jihadismo su base teologica. Lasciamo perdere il Gran Muftì turco, ritenuto – evidentemente a torto – un moderato, il quale pretende chiarimenti, ritiri di documenti e scuse da parte del Vaticano, dimenticando che nella sua terra i sacerdoti cattolici vengono accoltellati per metter fine a missioni già umiliate dall’ostracismo e dall’odio o abbattuti a colpi di pistola nelle parrocchie, al modo di don Andrea Santoro, fatto fuori a Trebisonda appena nel febbraio scorso da un giovane muslim irato per le solite vignette; e dimenticando anche che nella parte turca dell’isola di Cipro i suoi correligionari hanno trasformato in moschee o in magazzini ben 130 chiese cristiane. Prescindiamo pure dagli appelli alla mobilitazione anticristiana di Al Jazeera e di Al Arabiya e delle altre emittenti musulmane d’Africa e d’Asia, che terrorizzano le assottigliate comunità cristiane sopravvissute come “dhimmi”, che è come dire cittadini di seconda categoria. Facciamo finta di ritenere tattiche e non strategiche le minacce – non solo diplomatiche – di principati dispotici arabo-islamici, di fratelli musulmani che perseguono lo sradicamento della civiltà occidentale, di esegeti coranici delle principali università del Califfato, secondo i quali Maometto avrebbe promesso, dopo quella di Gerusalemme, la presa di Roma, per la gloria universale di Allah. Mettiamo per un momento da parte il cosiddetto pensiero di esponenti politici, anche di rilievo, dall’area hezbollah all’area hamas, che predicano mobilitazioni di massa per protestare contro l’offesa papale che ritengono insostenibile: proprio costoro, che non cessano di massacrare inermi civili nei mercati, nelle piazze e nelle strade dal Vicino Oriente all’Indonesia. Sorvoliamo su tutto questo e su altro ancora.
Sta di fatto che, come ha scritto Magdi Allam, è desolante l’immagine dei musulmani che hanno dato vita a un fronte internazionale unitario, riesumando quell’alleanza trasversale e universale già emersa al tempo delle vignette satiriche, e che attesta in modo inequivoco che la radice del male è una cieca ideologia dell’odio imperante tra i musulmani che violenta la fede e ottenebra la mente. Scrive anche Allam: «Le considerazioni riferite dal Papa, citando l’imperatore bizantino […] sulla diffusione dell’Islam tramite la spada, sia da parte di Maometto all’interno della Penisola Arabica sia da parte dei suoi successori nel resto del mondo (con talune eccezioni), sono un fatto storico incontrovertibile. Lo attesta lo stesso Corano e la realtà del passaggio all’Islam dell’insieme dell’Impero bizantino a est e a sud del Mediterraneo, più la successiva espansione a nord in Europa e a est in Asia. Negare la realtà storica è semplicemente folle e non può che generare follia...».
Lezione per l’Occidente e per la Cristianità? Piantarla di considerarsi la causa di tutto quel che nel bene e nel male succede in seno all’Islam e nel resto del mondo: «L’ideologia dell’odio è una realtà ancestrale che esiste in seno all’Islam sin dai suoi esordi, per il rifiuto di riconoscere e di rispettare la pluralità delle comunità religiose che sono fisiologiche, data la soggettività del rapporto tra fedele e Dio e l’assenza di un unico referente spirituale che incarni l’assolutezza dei dogmi della fede […]. I pretesti che possono scatenare la furia mutano, ma il problema è tutto interno a un Islam trasformato dagli estremisti da una fede in Dio in un’ideologia tesa a imporre un potere teocratico e totalitario su tutti coloro che non sono a loro immagine e somiglianza».

Il segno dell’intristimento è proprio qui: è la sordità dell’Islam a ogni alterità. Al Khamil aveva ascoltato (senza convertirsi) San Francesco, e aveva ascoltato Federico II, al quale aveva riconsegnato Gerusalemme, senza sguainare la scimitarra. Così il Paleologo, nel dialogo con il Persiano nel ‘300. La sua forza era nell’ascolto, nella comprensione, nel reciproco arricchimento culturale e spirituale: una forza che oggi l’Islam non ha più. D’altra parte, che cosa propone l’Occidente? L’immagine del “nemico di se stesso”, al modo di Cronos con i propri figli, nel momento in cui – sostiene Ratzinger – nega il diritto naturale, vale a dire la legge fondata sulla ragionevolezza, e quando sostiene che la libertà può coincidere con l’autodistruzione, con il suicidio, con l’eutanasia, con l’uso della droga; oppure quando proietta videocassette olandesi con trucide effusioni omo-e-lesbo; e quando rigetta il Dio dei Padri e il costume dei padri: con questo e con altro suscitando fastidio e senso di disgusto che confortano il disprezzo, non guadagnano stima ma deprecabilità, e coinvolgono non i singoli (dei quali poco importa) ma l’intera società in un giudizio ultimativamente negativo.
In queste condizioni l’Occidente, un giorno scientifico e oggi scientista, trabocca di maghi, di indovini, di cartomanti, di imbonitori astrologhi, di new agers, e respira credenze orientaleggianti, mentre uomini terrorizzati dal vuoto abbracciano altre religioni, che sembrano piene di spiritualità, come il buddhismo, e che appaiono offrire certezze rassicuranti e comportamenti rigorosi, come l’Islam. È il trionfo dell’irrazionalismo. Ma intanto, mentre i culti più strambi fanno proseliti, molti sacerdoti, vescovi e talora anche cardinali si danno da fare non per insegnare Cristo, cioè il Logos (Verbum), ma per celebrare cerimonie sincretiste, multireligiose, come se si potesse dialogare adorando insieme divinità diverse, e non attraverso il riconoscimento di un comune denominatore, la ragione, (proprio quella non esaltata, ma imprigionata dall’Illuminismo), che può aprire all’adorazione di un Dio nello stesso tempo razionale e misteriosamente grande.
Questo ha detto il teologo Ratzinger in Baviera, mettendo in campo il più autentico dramma del nostro tempo, rievocando un Islam senza cedimenti irenisti o multiculturali; e parlando di un Occidente cristiano e del suo fulcro identitario come di un universo culturale e spirituale creato dal messaggio biblico e da quello greco-romano capaci di coniugare ragione e fede in molti modi diversi che, non nel loro corso storico, ma nella loro scaturigine e nel loro approdo parlano di un Dio che «vive e si esperisce, nonostante il mistero, in vera analogia con la condizione umana»: un Signore e Padre non capriccioso, tutt’altro che arbitrario, diverso dal Dio dell’ortodossia maomettana, e soprattutto da quello – saturnino – invocato dai tagliagola dell’oscurantismo jihadista di cui abbiamo non poche esperienze (dalla vicenda otrantina al colpo alla nuca di chi ha stoicamente dimostrato «come muore un italiano»).
Dunque: il Papa non ha nulla di cui doversi scusare, perché non ha «attaccato l’Islam», ma ha parlato dell’Islam, del Cristianesimo e dell’Ebraismo veterotestamentario e greco, e lo ha fatto in nome del libero pensiero. Ha fatto ciò che nel mondo islamico, pena la decapitazione per arma bianca, è proibito fare: ha ragionato sulla fede, sulle Scritture, sul Corano, e ha collocato anche il credo di Cristo, di cui è vicario sulla terra, in un contesto di libera discussione con la ragione umana, con la scienza moderna, con la filosofia e con la cultura di questo nostro mondo e di quell’altro. È stato ciò che i predicatori islamici di violenza non sono in grado di essere, a causa del loro patologico Dna religioso: un gesto da guida civile e spirituale di un mondo di liberi. Ha definito il jihad come lo intendono gli spiriti ottenebrati del fondamentalismo: una sub-cultura violenta incompatibile con Dio. Fermi alle loro conquiste scientifiche del ‘400 (peraltro non del tutto autoctone, ma in gran parte derivate dalla sapienza persiana, indiana e persino cinese) e alla visione del mondo che vide il pensiero di Averroè sconfitto dalla teologia di Al Ghazali, e bloccate le lancette della loro storia alle acque di Lepanto e sotto le mura di Vienna, essi ribattono con i ritornelli delle Crociate, aggiungendo la conquista cristiana violenta del Nuovo Mondo. Ma appunto qui è la grande contraddizione. Se si pensa al passato – per lunghi tratti oscuro – della Chiesa di Roma, nell’affermazione del jihad incompatibile con Dio si coglie il monito rivelatore dei cristiani del nostro tempo recente: chi ha conosciuto gli orrori del fanatismo mostra a chi oggi ne è attratto le cicatrici della Storia.
Si mormora, anche in un certo Occidente: questo è un Papa diverso. Bella scoperta! Ma scoperta a metà, perché manca il coraggio di mettere nero su bianco e di dare, dopo l’assunto, le prove (che sono evidenti). Sicché una cosa va chiarita senza indugio: Ratzinger è diverso da Wojtyla. Il Papa polacco aveva alle spalle il teologo tedesco. Ratzinger non ha (ancora) nessuno che lo protegga, neanche a livello extra-religioso. Infatti, è stato lasciato solo. Il che, comunque, non è servito a scoraggiarlo: la solitudine ha contraddistinto interamente la sua vita.
Dunque: Benedetto XVI è diverso da Giovanni Paolo II. Va tuttavia sottolineato che Wojtyla conosceva perfettamente la pericolosità del rinascente fondamentalismo, che con l’avvento di Khomeini aveva caratterizzato proprio l’inizio del suo pontificato. Mistico d’animo, ma anche filosofo della storia e leader religioso-politico, Karol Wojtyla aveva però costruito sull’analisi spassionata della realtà una strategia di dialogo sistematico e di coinvolgimento delle élites islamiche ovunque presenti nel mondo, predicando la fede “comune” nell’unico Dio dei figli di Abramo, a servizio della pace e della giustizia.
Benedetto XVI – osservando forse con occhio critico i giochi doppi e tripli dei musulmani, e gli eccidi di cristiani, le persecuzioni, gli assassinii di suore e missionari, le fucilazioni e quant’altro – già nella messa inaugurale aveva cancellato ogni riferimento a “rapporti fraterni” con il gelido monoteismo islamico. Spezzato il triangolo wojtyliano, era rimasto solo il vincolo speciale tra Ebraismo e Cristianesimo, mentre veniva rimarcato che ciascuno doveva pregare per conto proprio, senza cedimenti a relativismi di sorta. Sicché il Pontefice ha abbandonato senza remore il terreno della mediazione, delle sfumature, dell’ibridismo, e ha attaccato frontalmente il jihadismo, chiudendo in questo modo una stagione cattolica grondante equivoci e persino di accettazione dell’Altro come negazione di sé, che aveva avuto nel tedesco Hans Küng il teologo di riferimento.

Senza citare nessuno, papa Ratzinger ha probabilmente aperto la partita definitiva con quell’Ibn Taymmyia, teologo estremo della guerra santa islamica e dello sguardo rivolto all’indietro, alla pratica della prima Umma (la comunità dei credenti) musulmana della Medina, fondata (sgozzamenti inclusi) dal Profeta: costui è stato il padre spirituale dei wahabiti, dei Fratelli Musulmani, di bin Laden, delle masse intonse e delle formazioni sanguinarie che esorcizzano la propria arretratezza culturale, civile, economica, e le proprie conseguenti frustrazioni, brandendo nel cielo la scimitarra, nell’inane tentativo di richiamare l’attenzione di un remoto e impassibile Allah.
Terzo fatto, di dolente cronaca umana: è scomparsa la Cassandra del nostro tempo. Oriana Fallaci non è più tra noi. Sono desolati il buen retiro di Manhattan e il rifugio di Milano, che ascoltarono il ticchettio nervoso della portatile con la quale aveva stilato pagine memorabili per quotidiani e libri; tacciono i telefoni con i quali dialogò, e più spesso litigò con furia ariostesca con amici (pochi), avversari (molti degli amici) e nemici (quasi tutti gli altri). Firenze non le ha riconosciuto il Fiorino d’Oro come cittadina celebre (Franco Zeffirelli ha deposto il suo nella bara della scrittrice), e figuriamoci se poteva mai avere una “nomination” per un Nobel intitolato al coraggio: del resto, non lo hanno dato neanche a Borges, del quale ricorre – e passa sotto silenzio – il ventesimo della scomparsa, forse perché i progressisti e i radical-chic planetari lo avevano ritenuto dapprima uno dei loro, poi lo avevano scaricato, trasferendolo alla parte neocon (teocon?), cioè conservatrice, tutti del tutto dimenticando che si trattava di un genio.
Roba da piccoli corvi, si dirà. Il fatto è che, fra l’altro, un Nobel per la letteratura era più logico che venisse assegnato a un giullare, uno di quegli ex di Salò esperto in cambi di casacca, il quale, sempre fra l’altro, si era ampiamente esercitato nell’insultare Oriana, accompagnato nella filippica moraleggiante dalla moglie, anch’essa commediante, che aveva definito Oriana una terrorista, mentre al Social forum di Firenze un’altra eccelsa attrice, tale Guzzanti, elegantemente aveva ironizzato sul cancro che condannava a morte Oriana, e mentre un politico che fa della claque tutta la sua forza elettorale, uno della levatura di Diliberto (si scrive proprio così?), ammetteva con onestà che Oriana gli faceva schifo, e uno scrittore di satanici versetti, mantenuto, protetto dalla fatwa iraniana che lo condanna a morte e rigovernato dall’Occidente, attaccava gli scritti di Oriana sullo scontro di civiltà e sulla viltà dell’Ovest, del Nord e degli occidentali.
Oriana non c’è più, non c’è proprio più. Nel senso che i suoi colleghi (tanti) e colleghe (tantissime) che finché fu in vita accanitamente la invidiarono, e soprattutto per questo si autodifesero disprezzandola, hanno dapprima versato fiumi d’inchiostro per sfornare coccodrilli mandrilli, poi hanno immediatamente rimosso nome, vita, opere, virtù (tante, emeriti cialtroni!) e miracoli (uno su tutti: venti milioni di copie dei suoi libri vendute nel mondo, gazzettieri e cortigiani!).
Ha ragione Galli Della Loggia: c’è una forte suggestione simbolica nella coincidenza tra la morte di Oriana e gli attacchi islamici al Papa; una suggestione che appare legata all’episodio del lontano 1979, quando la giornalista, dovendo intervistare Khomeini rigorosamente in chador, una volta giunta al suo cospetto buttò via lo scialle e seccamente diede al suo interlocutore del “tiranno”. Quel gesto diventava il “centro dello scontro”, anticipava «il senso di quanto da lì a non molto sarebbe divenuto il motivo dominante del rapporto difficile tra l’Occidente e l’Islam: l’urto delle mentalità e delle culture, l’urto tra due concezioni antitetiche dell’eguaglianza tra le persone […] e della loro dignità». Con l’intuizione di chi per mestiere è chiamata a interpretare i segni del tempo, Oriana capì che quel pezzo di stoffa doveva diventare una bandiera, un emblema della sua identità.
Era simultaneamente iraconda, ironica, dura, ossessivamente perfezionista, scostante, vanitosa; traboccava di talento, creatività scontrosa e spiazzante, coraggio personale e professionale, sincerità spinta fino al limite della provocazione, disprezzo per l’ipocrisia e per l’ambiguità, riservatezza schiva per i propri sentimenti offesi dalla sorte, generosità mai esibita, affetti abissali.
Io so che era anche capace di piangere lacrime disperate. L’avevo intercettata nella Sala Vip di Fiumicino, proveniva dagli Stati Uniti ed era diretta ad Atene. Era morto il suo grande amore, Alekos Panagoulis. Mi accolse con distacco: niente intervista. Va bene, le dissi, ti do comunque buone notizie su tua madre e tua sorella, che ti salutano; fumeremo tutte le sigarette che vuoi in silenzio, fino a che non chiameranno l’imbarco. Mi sedetti non accanto, ma quasi di fronte a lei, che mi sembrava più minuta e fragile di altre volte, rannicchiata com’era, e infreddolita, su una piccola poltrona di pelle scura. Non so quanto tempo trascorse. So che ad un certo punto scattò, si avvicinò e mi ingiunse – letteralmente – di accendere il magnetofono. Feci appena in tempo. Perché scoppiò in un pianto dirotto, sette minuti di parole grondanti, le guance pallide rigate, le pupille profonde, i pugni chiusi: «Glielo dicevo sempre, stai attento, Arlecchino, quelli ti faranno fuori, non fidarti, cammina con gli occhi aperti…». “Quelli” erano i colonnelli greci, che avevano preso il potere. La abbracciai. Ci vedremo ad Atene, promisi. In casa di Alekos, mi confermò. Nell’intera storia della Grecia non si era mai vista una folla così sterminata presente a un funerale. L’applauso durò oltre un chilometro. Quando la rividi, a New York, stava finendo di scrivere Un uomo, ma non me ne accennò, e non parlò della metropoli americana né delle trascorse esperienze professionali. Ricordò Firenze e i lungarni della sua fanciullezza, avesse avuto tempo avrebbe voluto conoscere Lecce, «lì in fondo a quella regione smilza e troppo piatta per essere un confine serio»: e forse pensava già al pericolo saraceno, o turchesco, o arabo, insomma musulmano, e comunque mediterraneo.
(C’era, quando il Gr1 e gli altri giornali radio andavano in onda da via del Babuino, una discoregistroteca gestita da un giovane sveglio ed entusiasta, che mi disse d’aver raccolto quel documento sonoro, di averlo schedato e conservato. Che ne è stato, dopo il trasferimento armi e bagagli a Saxa Rubra? Ritengo che dovrebbe essere scampato. Perlomeno, me lo auguro).
Con le sue opere – ha scritto Lucia Annunziata – «scolpì il secolo». Fu la prima inviata speciale globale, incontrò tutti i potenti della terra e non perdonò niente a nessuno, visse tutte le storie tragiche e grandi del pianeta, creò un linguaggio e dunque uno stile, restò un gigante solitario e disconosciuto, esiliato dai salotti mediatici (che si sarebbe in ogni caso guardata dal frequentare). Non per nulla, in un’epoca di presenzialisti, se ne è andata in solitudine e in punta di piedi. E sebbene “ateo-cristiana” per autodefinizione, un personale messaggio ce lo ha voluto lasciare. Nel senso che ha desiderato che un prete cattolico (monsignor Fisichella) fino all’ultimo respiro le tenesse stretta la mano; e che fino al cimitero evangelico la accompagnasse un quieto rintocco di campana.
(E questo mi ricorda un episodio non banale narrato dalla penna quasi profetica di Giovannino Guareschi, in uno dei suoi celebri “Don Camillo vs Peppone” che arricchirono il versante umoristico-politico della nostra cinematografia al tempo della commedia all’italiana. La vicenda raccontava di un giovane partito in moto, con altri compagni, per una manifestazione evidentemente non proprio pacifica, visto che tornava in bara a Brescello. Essendo comunista, dunque scomunicato, non poteva avere esequie religiose; e tuttavia aveva chiesto almeno un suono di campane, con il quale don Camillo-Fernandel aveva accompagnato il mesto corteo cui partecipava il sindaco rosso Peppone-Cervi. «I rintocchi della campana sono la tua voce, Signore», aveva sussurrato il prete.
Era da quella voce ondulare che voleva esser fasciata nel viaggio verso l’ultima riva Oriana? Con quell’estremo rintocco, di fronte alla Croce spezzata, all’Occidente prostrato, all’identità rinnegata, segretamente intendeva dare una ragione al misterioso ossimoro atea-cristiana? Gli echi liberati dal bronzo sospeso nel cielo di Firenze riportavano la sua anima tormentata e gentile fra i lungarni di un’infanzia troppo presto svanita? Hai deposto le armi, ora, amica mia. È placata la collera. L’Alieno, il kamikaze-cancro che per ucciderti si è dovuto suicidare, ti dia la pace che forse non avevi mai conosciuto. Ti allieti una musica siderale, incontaminata, adamantina. E ti sia per sempre lieve la terra).

 

   
   
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