New York non è ancora la periferia di Shanghai,
ma, se le cose
continuano così, si avvia a diventarlo nel giro di un paio
di decenni.
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«Come potenza economica, gli Stati Uniti non solo non stabiliscono
più le regole del gioco, ma non determinano neppure più
a quale gioco si debba giocare». Questo durissimo giudizio
non è frutto dellenfasi polemica di qualche no global,
ma è dovuto a Fred Kaplan, uno dei più ascoltati commentatori
americani di stampo conservatore, che lo espresse già due
anni fa in un articolo sul New York Times. Esso trova conforto nei
fallimenti paralleli di carattere politico (con le non vittorie
degli americani in Iraq e in Afghanistan, e di Israele, assai vicino
agli Stati Uniti, nellattuale conflitto libanese) e commerciale
(con il fallimento delle lunghe trattative per una maggiore libertà
di scambi internazionali, note come Doha Round), si riflette nellandamento
incerto della Borsa americana che non riesce a recuperare i livelli
della primavera del 2000 e nella tendenza debole del dollaro.
I riflettori si spostano così paradossalmente sullEuropa,
tradizionalmente considerata lanello debole del sistema economico
dei Paesi avanzati, per scoprire che il Vecchio Continente non va
poi così male. Lanalisi dei risultati economici del
periodo 1994-2004 mostra che, mentre la crescita del prodotto lordo
americano è risultata superiore di quasi un terzo a quella
dellUnione europea a 15 membri (3,1 per cento contro 2,2 per
cento lanno), questo risultato dipende soprattutto dalla differente
velocità di crescita della popolazione americana (1,1 per
cento allanno negli Stati Uniti, 0,3 per cento allanno
in Europa).

LAmerica, in altre parole, deve correre molto più
velocemente dellEuropa solo per restare ferma, ossia per continuare
a garantire ai suoi abitanti un livello di reddito medio costante.
La crescita del prodotto per abitante risulta perciò molto
più ravvicinata di quella del prodotto totale, e, se si considera
che gli europei hanno ridotto il numero delle ore lavorative assai
di più degli americani, la differenza si annulla del tutto.
Di pari passo. Tutto ciò è dimostrato da un recente
studio della società finanziaria americana Goldman Sachs,
dal quale si ricava che la produttività di ogni ora lavorata
nellUnione europea e negli Stati Uniti è cresciuta,
nel periodo sopra indicato, a una velocità pressoché
identica. Si potrebbe aggiungere che il sistema americano di misura
delloccupazione tende a sottostimare il numero di disoccupati
rispetto a quello europeo, per cui, fatte le debite correzioni,
il livello dei senza lavoro non risulta poi così differente;
che limmigrazione clandestina verso gli Stati Uniti è
probabilmente superiore di quella verso lUnione europea, il
che abbassa ancora la crescita della produttività americana;
e che la revisione dei sistemi di calcolo del prodotto interno,
attuata negli Stati Uniti sul finire degli anni Novanta, ha indubbiamente
favorito una valutazione ottimistica della crescita nordamericana.
I settori in crisi. Questo ribaltamento della prospettiva tradizionale,
che vede unAmerica meno dinamica e unEuropa meno logora
di quanto normalmente si pensi, trova qualche conferma anche negli
andamenti aziendali. Valutati in dollari, gli indici delle principali
Borse europee sono saliti del 10-12 per cento dallinizio dellanno,
mentre lindice Dow Jones della Borsa di New York è
salito di appena il 3-4 per cento e il Nasdaq, il mercato sul quale
vengono quotati i titoli tecnologici, mostra andamento negativo.
Si è ormai consumata la crisi dellacciaio americano
e si sta consumando quella dellindustria dellauto, con
la lunga e complessa risistemazione della General Motors; permangono
le difficoltà delle linee aeree, mentre il vivacissimo settore
informatico ha recato incredibili vantaggi ai consumatori, ai quali
ha aperto nuove, permanenti e straordinarie potenzialità;
ma, tranne alcune eccezioni, non ha dato origine a quegli straordinari
e permanenti profitti che molti si aspettavano.
America alle corde ed Europa trionfante? Non è il caso di
indulgere in queste semplificazioni e banalizzazioni. Leconomia
americana rimane una macchina meravigliosa, capace di adattarsi
e reagire con estrema rapidità a eventi negativi; la manovra
della Banca centrale prosegue con un certo successo per sgonfiare
lentamente la bolla edilizia che ha tenuto a galla leconomia
in anni difficili, ma che ora rappresenta un serio pericolo per
la stabilità monetaria americana e mondiale.
Su le barriere. LEuropa, dal canto suo, anche in questi ultimi
tempi ha manifestato la propria confusione politica nella vicenda
libanese, ma da molti mesi manifesta una notevole confusione economica
con i governi che pongono veti incrociati allacquisto di società
da parte di altri Paesi: il governo di Roma ha bloccato una grande
fusione che unirebbe in una singola gestione gran parte delle reti
autostradali italiane e spagnole, ma il governo di Madrid ha di
fatto bloccato lacquisto da parte di una società tedesca
della maggiore impresa elettrica spagnola; alla maggiore impresa
elettrica italiana è stato di fatto proibito di espandersi
sul mercato francese.
Limpressione è piuttosto quella di una chiusura mondiale:
negli stessi Stati Uniti è stato posto il veto allespansione
di imprese cinesi e arabe nei settori petrolifero e portuale, e
al recente Congresso del Popolo cinese è stata manifestata
listanza di impedire agli stranieri lacquisto di imprese
tecnologicamente avanzate. Nelle recenti trattative commerciali,
Europa e Stati Uniti si sono rifiutati di abbandonare il sostegno
ai rispettivi settori agricoli e alle industrie più direttamente
amministrate dalla concorrenza dei Paesi emergenti, come il settore
tessile; e i Paesi emergenti si sono rifiutati di aprire allazione
delle società dei Paesi avanzati il proprio settore dei servizi,
dalle banche alla distribuzione dellacqua, dallistruzione
a certe applicazioni informatiche.
Il mondo si chiude. Anche se permangono ampie aree di apertura economica
internazionale, in un mondo in cui i servizi contano sempre di più,
non siamo di fronte a una semplice battuta darresto, ma forse
allinizio di una chiusura che potrebbe rendere vana, nel giro
di qualche trimestre, la ripresa attualmente in corso in Europa,
e sulla quale tutti i Paesi europei, a cominciare dallItalia,
ripongono molte speranze.
Dove è finito il mondo, multipolare e sorridente, governato
pressoché esclusivamente dai meccanismi del mercato, nel
quale gli scambi dipendono dal mutuo vantaggio, le divisioni culturali
si attenuano, la politica fa un passo indietro, gli Stati Uniti
gestiscono la moneta di riferimento e benevolmente armonizzano i
ritmi di crescita? Dopo luscita di scena di Alan Greenspan,
il Governatore che per diciotto anni aveva di fatto gestito i flussi
monetari non solo degli Stati Uniti, ma di tutto il mondo, si avverte
una notevole incertezza, un certo senso di vertigine. La crescita
mondiale appare oggi garantita soprattutto dalla Cina, la stabilità
monetaria da un uso saggio delle riserve monetarie da parte di quel
Paese; New York non è ancora la periferia di Shanghai, ma,
se le cose continuano così, si avvia a diventarlo nel giro
di un paio di decenni. Londra, Parigi e Francoforte appaiono più
marginali di un tempo sulla scena finanziaria di un mondo dove gran
parte degli sviluppi cruciali avvengono in Asia.
I nostri problemi, le nostre leggi finanziarie vanno impostati ponendo
attenzione a questo grande scenario mondiale che non vede più
necessariamente gli Stati Uniti e il dollaro in un ruolo centrale
e che rischia di collocare lEuropa in una posizione decisamente
periferica. Gli sforzi congiunti di tutti devono impedire che un
simile cambiamento trascini le economie e gli assetti politici del
pianeta verso una generalizzata situazione di crisi.
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