Settembre 2006

Usa in frenata. Europa e Cina in sorpasso?

Indietro
Il mondo sulle barricate
Mario Deaglio  
 
 

 

 

 


New York non è ancora la periferia di Shanghai,
ma, se le cose
continuano così, si avvia a diventarlo nel giro di un paio di decenni.

 

«Come potenza economica, gli Stati Uniti non solo non stabiliscono più le regole del gioco, ma non determinano neppure più a quale gioco si debba giocare». Questo durissimo giudizio non è frutto dell’enfasi polemica di qualche no global, ma è dovuto a Fred Kaplan, uno dei più ascoltati commentatori americani di stampo conservatore, che lo espresse già due anni fa in un articolo sul New York Times. Esso trova conforto nei fallimenti paralleli di carattere politico (con le “non vittorie” degli americani in Iraq e in Afghanistan, e di Israele, assai vicino agli Stati Uniti, nell’attuale conflitto libanese) e commerciale (con il fallimento delle lunghe trattative per una maggiore libertà di scambi internazionali, note come Doha Round), si riflette nell’andamento incerto della Borsa americana che non riesce a recuperare i livelli della primavera del 2000 e nella tendenza debole del dollaro.
I riflettori si spostano così paradossalmente sull’Europa, tradizionalmente considerata l’anello debole del sistema economico dei Paesi avanzati, per scoprire che il Vecchio Continente non va poi così male. L’analisi dei risultati economici del periodo 1994-2004 mostra che, mentre la crescita del prodotto lordo americano è risultata superiore di quasi un terzo a quella dell’Unione europea a 15 membri (3,1 per cento contro 2,2 per cento l’anno), questo risultato dipende soprattutto dalla differente velocità di crescita della popolazione americana (1,1 per cento all’anno negli Stati Uniti, 0,3 per cento all’anno in Europa).

L’America, in altre parole, deve correre molto più velocemente dell’Europa solo per restare ferma, ossia per continuare a garantire ai suoi abitanti un livello di reddito medio costante. La crescita del prodotto per abitante risulta perciò molto più ravvicinata di quella del prodotto totale, e, se si considera che gli europei hanno ridotto il numero delle ore lavorative assai di più degli americani, la differenza si annulla del tutto.
Di pari passo. Tutto ciò è dimostrato da un recente studio della società finanziaria americana Goldman Sachs, dal quale si ricava che la produttività di ogni ora lavorata nell’Unione europea e negli Stati Uniti è cresciuta, nel periodo sopra indicato, a una velocità pressoché identica. Si potrebbe aggiungere che il sistema americano di misura dell’occupazione tende a sottostimare il numero di disoccupati rispetto a quello europeo, per cui, fatte le debite correzioni, il livello dei senza lavoro non risulta poi così differente; che l’immigrazione clandestina verso gli Stati Uniti è probabilmente superiore di quella verso l’Unione europea, il che abbassa ancora la crescita della produttività americana; e che la revisione dei sistemi di calcolo del prodotto interno, attuata negli Stati Uniti sul finire degli anni Novanta, ha indubbiamente favorito una valutazione ottimistica della crescita nordamericana.
I settori in crisi. Questo ribaltamento della prospettiva tradizionale, che vede un’America meno dinamica e un’Europa meno logora di quanto normalmente si pensi, trova qualche conferma anche negli andamenti aziendali. Valutati in dollari, gli indici delle principali Borse europee sono saliti del 10-12 per cento dall’inizio dell’anno, mentre l’indice Dow Jones della Borsa di New York è salito di appena il 3-4 per cento e il Nasdaq, il mercato sul quale vengono quotati i titoli tecnologici, mostra andamento negativo.
Si è ormai consumata la crisi dell’acciaio americano e si sta consumando quella dell’industria dell’auto, con la lunga e complessa risistemazione della General Motors; permangono le difficoltà delle linee aeree, mentre il vivacissimo settore informatico ha recato incredibili vantaggi ai consumatori, ai quali ha aperto nuove, permanenti e straordinarie potenzialità; ma, tranne alcune eccezioni, non ha dato origine a quegli straordinari e permanenti profitti che molti si aspettavano.
America alle corde ed Europa trionfante? Non è il caso di indulgere in queste semplificazioni e banalizzazioni. L’economia americana rimane una macchina meravigliosa, capace di adattarsi e reagire con estrema rapidità a eventi negativi; la manovra della Banca centrale prosegue con un certo successo per sgonfiare lentamente la “bolla edilizia” che ha tenuto a galla l’economia in anni difficili, ma che ora rappresenta un serio pericolo per la stabilità monetaria americana e mondiale.
Su le barriere. L’Europa, dal canto suo, anche in questi ultimi tempi ha manifestato la propria confusione politica nella vicenda libanese, ma da molti mesi manifesta una notevole confusione economica con i governi che pongono veti incrociati all’acquisto di società da parte di altri Paesi: il governo di Roma ha bloccato una grande fusione che unirebbe in una singola gestione gran parte delle reti autostradali italiane e spagnole, ma il governo di Madrid ha di fatto bloccato l’acquisto da parte di una società tedesca della maggiore impresa elettrica spagnola; alla maggiore impresa elettrica italiana è stato di fatto proibito di espandersi sul mercato francese.
L’impressione è piuttosto quella di una chiusura mondiale: negli stessi Stati Uniti è stato posto il veto all’espansione di imprese cinesi e arabe nei settori petrolifero e portuale, e al recente Congresso del Popolo cinese è stata manifestata l’istanza di impedire agli stranieri l’acquisto di imprese tecnologicamente avanzate. Nelle recenti trattative commerciali, Europa e Stati Uniti si sono rifiutati di abbandonare il sostegno ai rispettivi settori agricoli e alle industrie più direttamente amministrate dalla concorrenza dei Paesi emergenti, come il settore tessile; e i Paesi emergenti si sono rifiutati di aprire all’azione delle società dei Paesi avanzati il proprio settore dei servizi, dalle banche alla distribuzione dell’acqua, dall’istruzione a certe applicazioni informatiche.
Il mondo si chiude. Anche se permangono ampie aree di apertura economica internazionale, in un mondo in cui i servizi contano sempre di più, non siamo di fronte a una semplice battuta d’arresto, ma forse all’inizio di una chiusura che potrebbe rendere vana, nel giro di qualche trimestre, la ripresa attualmente in corso in Europa, e sulla quale tutti i Paesi europei, a cominciare dall’Italia, ripongono molte speranze.
Dove è finito il mondo, multipolare e sorridente, governato pressoché esclusivamente dai meccanismi del mercato, nel quale gli scambi dipendono dal mutuo vantaggio, le divisioni culturali si attenuano, la politica fa un passo indietro, gli Stati Uniti gestiscono la moneta di riferimento e benevolmente armonizzano i ritmi di crescita? Dopo l’uscita di scena di Alan Greenspan, il Governatore che per diciotto anni aveva di fatto gestito i flussi monetari non solo degli Stati Uniti, ma di tutto il mondo, si avverte una notevole incertezza, un certo senso di vertigine. La crescita mondiale appare oggi garantita soprattutto dalla Cina, la stabilità monetaria da un uso saggio delle riserve monetarie da parte di quel Paese; New York non è ancora la periferia di Shanghai, ma, se le cose continuano così, si avvia a diventarlo nel giro di un paio di decenni. Londra, Parigi e Francoforte appaiono più marginali di un tempo sulla scena finanziaria di un mondo dove gran parte degli sviluppi cruciali avvengono in Asia.
I nostri problemi, le nostre leggi finanziarie vanno impostati ponendo attenzione a questo grande scenario mondiale che non vede più necessariamente gli Stati Uniti e il dollaro in un ruolo centrale e che rischia di collocare l’Europa in una posizione decisamente periferica. Gli sforzi congiunti di tutti devono impedire che un simile cambiamento trascini le economie e gli assetti politici del pianeta verso una generalizzata situazione di crisi.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2006