Settembre 2006

Strategie possibili

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Pragmatismo per l’Europa
Andrew Moravcsik Docente Princeton University
 
 

 

 

 


A giudicare più
dai risultati
che dalla retorica,
l’ultimo decennio
si colloca tra
i migliori nella storia dell’Unione
europea.

 

I politici europei sembrano avere imparato ben poco dalla débacle costituzionale del recente passato. Nell’Europarlamento, gli idealisti incalliti propongono di rilanciare il dibattito sui valori europei condivisi, promulgare una Costituzione riveduta ma completa, e indire un altro referendum, questa volta su scala continentale. I leader nazionali, dicono, sono paralizzati e confusi, e solo quelli europei sono in grado di rimettere in moto il processo.
L’intellighenzia fa loro eco, pontificando che l’Ue sta vivendo una crisi istituzionale. Per tali critici, la risposta alla sconfitta della democrazia è una maggiore democrazia, quindi la risposta alla sconfitta della Costituzione è un’altra Costituzione.
Va però detto che, al di là della retorica, sta pian piano emergendo un consenso più pragmatico circa il futuro dell’Ue, soprattutto tra i leader nazionali. Pochi sono schietti come il ministro degli Esteri olandese, che ha recentemente sancito la morte del Documento. Eppure, quasi tutti ne condividono le opinioni.
Nessuno ha intenzione di aprire seriamente un dibattito sulla riforma costituzionale prima del 2009 e, anche in quel momento, senza l’apporto di modifiche radicali. Muovendo aspre critiche ai progetti più ambiziosi dell’Europarlamento, i Parlamenti nazionali hanno compiuto un passo senza precedenti. L’anno di riflessione assomiglia sempre più a una cortina fumogena dietro la quale seppellire i resti della Costituzione. Piuttosto, l’Europa ha bisogno di successi politici più concreti.
Tale consenso pragmatico poggia su una serie di lezioni estremamente significative impartite dalla storia recente. Una è quella secondo cui, lungi dall’essere paralizzate, le istituzioni dell’Ue funzionano invece piuttosto bene. A giudicare più dai risultati che dalla retorica, l’ultimo decennio si colloca tra i migliori nella storia dell’Unione, soprattutto grazie all’allargamento, all’euro e alla crescente armonizzazione delle politiche di sicurezza interna ed esterna.
Superata l’impasse della riforma costituzionale, gli ultimi mesi hanno visto l’approvazione del bilancio, un passo avanti in direzione dell’adesione di Turchia e Croazia e ulteriori sviluppi in ordine alla deregolamentazione dei servizi. Quanto all’Iran e agli altri dossier, va riconosciuta all’Ue una crescente coordinazione in materia di politica estera e di sicurezza interna.
Per di più, l’Unione ha già di fatto (ma non di nome) una Costituzione: un organo permanente di legge suprema rappresentato dal già emendato Trattato di Roma. Le principali revisioni cui è stato sottoposto in passato erano motivate da obiettivi funzionali di primaria importanza, i cosiddetti “grand project”, come il Mercato comune e la moneta unica. La Costituzione oggetto di bocciatura, però, era un documento conservatore, improntato più al consolidamento che all’espansione.
Per i cittadini Ue una politica estera globale supportata da un potenziamento delle forze armate stile Usa è né allettante né conseguibile. Tasse, sanità, pensioni, istruzione, cultura, infrastrutture e anche i nodi principali della legislazione sull’immigrazione sembrano destinati a restare per lo più confinati agli ambiti nazionali. La maggioranza della popolazione europea approva un “accordo costituzionale” equilibrato di questo tipo, poiché alcune tematiche rimangono prerogativa nazionale e altre vengono affidate a Bruxelles. Una riforma costituzionale radicale metterebbe il carro davanti ai buoi.
Se l’Ue raccogliesse un’altra lezione fondamentale, capirebbe che occorre rifuggire dagli schemi astratti per dedicarsi nuovamente alla concreta risoluzione dei problemi. La politica delle riforme graduali ha fatto dell’Unione il maggiore successo politico dell’ultimo cinquantennio. Oggi nella stessa Francia si auspica un «ritorno alla politica Monnet-Schuman dei piccoli passi e dei progetti concreti».

Il Centro per la Riforma Europea ha recentemente proposto un piano attuabile per potenziare e rendere più efficienti la programmazione della politica estera, le politiche di ricerca e sviluppo e di difesa, le procedure relative ai brevetti europei e l’apertura verso i Balcani. La cooperazione flessibile, alla quale non tutti gli Stati prendono parte, sta dando buoni risultati nella lotta al terrorismo e potrebbe venire estesa alla collaborazione in materia finanziaria e fiscale.
Questo nuovo pragmatismo, precedentemente sposato da Tony Blair insieme ad altri “anglosassoni”, comincia ad affermarsi in modo sempre più marcato anche in Francia, dove maggioranza e opposizione concordano sul ridimensionamento delle riforme. Solo qualche riforma istituzionale chiave dovrebbe essere strappata al progetto costituzionale: il resto è da scartare.
A dispetto delle rituali critiche che la Commissione muove a tale cernita, le proposte per la designazione di un ministro degli Esteri, la riassegnazione del peso elettorale e la riforma dei turni presidenziali, oltre a mettere a tacere l’ampollosa retorica costituzionale, paiono promettenti.
Qualcuno obietterà che stratagemmi tecnocratici di questo tipo non possono avere successo, a meno che l’Ue non si avvicini agli elettori. Riflessione, questa, nobile e toccante; il fallimento della Costituzione impartisce tuttavia una terza lezione: i tentativi di ovviare alla pubblica mancanza di fiducia tramite riforme costituzionali e democratiche, o facendo ricorso ad elucubrazioni sull’identità europea, sono controproducenti.
Il dibattito intorno alla Costituzione era mirato a legittimare l’Unione. Facendo sì che i cittadini prestassero attenzione, si informassero, rimpinzandosi di idealismo, e sostenessero l’Ue. Niente di tutto ciò è avvenuto. Fino al momento del referendum, nessuno sapeva della Costituzione, e i suoi contenuti rimasero oscuri anche dopo il voto.
Nella mancanza assoluta di giustificazioni chiare e concrete, l’astratto dibattito intorno alla struttura costituzionale è servito solo a ridurre la politica al minimo comune denominatore: sospetto verso le élites politiche, xenofobia, protezionismo particolaristico e sterili dispute ideologiche. Se intendono riconquistarsi la fiducia popolare, i politici europei devono riconoscere, con un linguaggio che le platee nazionali possano afferrare, il successo del compromesso costituzionale presentando per il futuro riforme meno ambiziose.

 

   
   
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