Settembre 2006

Fisco e Pil

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Debito buono, debito cattivo
Flavio Albini  
 
 

 

 

 

È illusorio pensare che gli italiani si siano già convertiti alla filosofia delle tasse pagate da tutti e dell’evasione come peccato
mortale.

 

Da non credere, eppure è proprio così: sessanta economisti (laburisti, chiamiamoli così) hanno firmato un documento contro la riduzione del debito. La richiesta è rivolta a Padoa-Schioppa, e precisa che è bene lasciar crescere il debito alla stessa velocità del Prodotto interno lordo, vale a dire a un ritmo di crescita di circa 40 miliardi di euro all’anno. Ciò anche perché seguire le raccomandazioni della Commissione europea «implicherebbe tagli significativi alla spesa pubblica e incrementi del prelievo fiscale». Misure che, a quanto pare, non ci piacciono per nulla.
Da qualche mese, ossia da quando il ministero dell’Economia e la Banca d’Italia hanno pubblicato gli ultimi dati sulla finanza pubblica, che mostrano un boom delle entrate fiscali nel primo semestre di quest’anno, tira una brutta aria per i “risanatori” dei conti pubblici. Se c’è un bonus fiscale di circa 20 miliardi, perché mai dovremmo apprestarci a dispiegare una politica di rigore?
I sindacati sono preoccupati per i possibili tagli alla spesa sociale. I lavoratori autonomi temono un giro di vite sulle proprie dichiarazioni dei redditi (un po’ bassine, a dire il vero). Confindustria paventa l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie, e preferirebbe ben altre misure, come la riduzione del cuneo fiscale o la liberalizzazione degli straordinari. I ministri dei dicasteri “sociali” rivendicano quattrini per le proprie politiche. Lo stesso ministro dell’Economia, infine, dopo aver negato che i nuovi dati spostino qualcosa, in seguito è diventato più prudente: a quel che riferiscono le cronache, non vuol sentire parlare di tagli.
Ovviamente, il problema sollevato dai sessanta economisti non è di quelli che si possono affrontare dati alla mano. Lasciar correre il debito o cercare di abbatterlo è una decisione politica, e non c’è un modo per dimostrare che un’opzione è senz’altro migliore dell’altra. La finanza pubblica si può governare in stile Ciampi, come il nostro Paese ha fatto nel 1992-2000, con governi di ogni colore, e come recentemente ha fatto il Belgio, che aveva uno dei tre maggiori debiti pubblici d’Europa. Oppure si può governare in stile Tremonti, come l’Italia ha fatto nel 2000-2006, dapprima con l’ultimo governo di centro-sinistra, poi nel quinquennio di centro-destra. E che la continuazione di quella politica generosa – più spesa sociale, pressione fiscale costante – sia ora più o meno esplicitamente invocata da economisti di sinistra non deve stupire: stupefacente, semmai, è il fatto che quasi nessuno, in questi anni, abbia voluto vedere i tratti keynesiani e di “sinistra” delle politiche attuate dal centro-destra. Ognuno può proporre le politiche che preferisce. Purché non ignori i dati di fatto, e soprattutto non sorvoli sulle conseguenze delle politiche che propone.

Chi trova troppo draconiana l’azione del governo a livello di programma economico, sebbene questo rinvii addirittura al 2009 la prima significativa riduzione del rapporto debito/Pil, (dal 107 al 105,1 per cento), dovrebbe spiegare se intenda proporre l’uscita dell’Italia dalla Comunità europea, o se davvero ritiene che Roma sarebbe in grado di negoziare uno status speciale per l’Italia, l’unico Paese autorizzato a non ricondurre il rapporto debito/Pil verso l’obiettivo del 60 per cento.
Ma non basta. Anche ammesso che l’Italia potesse uscire dall’Europa, o starci con speciali privilegi, qualcuno dovrebbe spiegare perché mai sarebbe giusto scaricare sulle generazioni future il peso di un servizio del debito crescente, e l’incertezza connessa alle fluttuazioni dei tassi di interesse: già oggi gli interessi sul debito ci sottraggono ogni anno 70 miliardi di euro (il doppio della manovra prevista per il prossimo anno) e, col prezzo del petrolio in ascesa, sono destinati a lievitare ulteriormente.
Si potrebbe contro-argomentare, come fanno da qualche tempo i sindacalisti, i politici e alcuni ministri, che proprio la crescita record del gettito fiscale rende meno necessaria una legge finanziaria rigorosa. Ma qui sono i dati di fatto che potrebbero far riflettere. Se non ci si limita ai comunicati stampa, ma si legge l’intera massa di dati contenuti nell’ultimo Bollettino della Banca d’Italia, non è difficile accorgersi di alcuni fatti.
Primo. La crescita del gettito (+18 miliardi nel primo semestre del 2006) era iniziata già nel primo trimestre dell’anno, vale a dire prima delle elezioni (9-10 aprile). Nel secondo trimestre, c’è stata un’accelerazione, ma il suo apporto all’extra-gettito complessivo è molto modesto (meno di 2 miliardi di euro). Dunque è illusorio, almeno sulla base di questi soli dati, pensare che gli italiani si siano già convertiti (o rassegnati) alla filosofia delle tasse pagate da tutti e dell’evasione come peccato mortale, e che d’ora in poi le entrate affluiranno copiose nelle casse dello Stato.
Secondo. È vero che il fabbisogno statale, ossia il deficit netto delle Amministrazioni centrali, nei primi sette mesi dell’anno è migliorato drasticamente rispetto a quello dell’ultimo anno, passando da 49 a 29 miliardi di euro. Ma non si deve dimenticare che il 2005 è stato l’annus horribilis dei conti pubblici, e che nel 2004 i conti erano stati riportati sotto (relativo) controllo soltanto nella seconda metà dell’anno. Se il paragone viene effettuato con il 2003 o con il 2002 – ossia con due anni definiti di “follia ordinaria” – si vede che il fabbisogno statale dei primi sette mesi si è semplicemente riallineato sui suoi valori normali, vale a dire circa 30 miliardi di euro. La realtà è che il bilancio delle Amministrazioni centrali era andato fuori controllo di una decina di miliardi di euro nel 2004, e di un’altra decina nel 2005: il miglioramento dei primi sette mesi del 2006 segnala solo che i tagli della Finanziaria dell’anno in corso stanno cominciando a dare i primi frutti, almeno sul versante delle Amministrazioni centrali.
Terzo. Ai fini del rispetto dei vincoli europei (3 per cento di indebitamento netto) non conta solo il deficit netto delle Amministrazioni centrali, ma anche l’entità delle dismissioni e il deficit aggiuntivo degli enti locali. Su questo versante le cose vanno tutt’altro che bene: le dismissioni previste ammontano ad appena un miliardo di euro, (contro 17 nel 2003, otto nel 2004, e quattro nel 2005), mentre l’indebitamento delle Amministrazioni locali sta galoppando a ritmi forsennati, probabilmente per compensare i tagli dell’ultima Finanziaria. Tanto per dare un’idea: il debito delle Amministrazioni locali, che nel 2004 era cresciuto di 5 miliardi, nel 2005 è cresciuto di 11 miliardi, e in base agli ultimi dati disponibili sta crescendo a un ritmo superiore a 14 miliardi all’anno. In questo aumento del debito la parte del leone la stanno facendo Comuni e Province, il cui aumento tendenziale è attualmente pari a 9,4 miliardi all’anno.
Insomma, speriamo tutti che nei prossimi mesi le cose migliorino ancora, ma il quadro che emerge dagli ultimi dati non è esaltante: i conti vanno un po’ meno peggio che nel disastroso 2005, ma alla fine il miglioramento nei conti dello Stato rischia di essere neutralizzato dalle mancate dismissioni e soprattutto dall’indebitamento selvaggio di Province e Comuni (+22 per cento negli ultimi dodici mesi). Allora, rassegniamoci ad accettare la realtà: il bonus fiscale, almeno per ora, non ci sarà. Miracoli alchemici a parte...

 

   
   
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