Settembre 2006

Era post-industriale e mutamenti sociali

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Tempi di low cost
M.B. - D.M.B.  
 
 

 

 

 

Andiamo verso una società che non ha più operai, ma neppure un ruolo ben preciso per insegnanti
o per medici: una realtà indistinta, sempre meno
capace di definire le sue piattaforme politiche.

 

Proprio in questi ultimi mesi Tallin, capitale dell’Estonia, sta completando una rete Wi-Fi (“Wireless Fidelity”, per i collegamenti senza fili) che coprirà tutta la città, consentendo ai cittadini di collegarsi a Internet da qualunque luogo: dalle case, dai parchi, da un tram, dall’automobile… Accedendo a questa rete e utilizzando via Internet i servizi di Skype, sarà possibile parlare gratis con qualunque parte del mondo. È la fine delle società telefoniche tradizionali, non soltanto quelle che offrono servizi su rete fissa, ma anche le società di telefonia mobile.
Skype sta infatti per mettere in commercio un software che permetterà di accedere ai suoi servizi – i quali consentono, appunto, telefonate gratuite – da un normale cellulare. Oggi lo si può già fare, ma il collegamento richiede un po’ di tempo. Il nuovo software cancella quest’attesa: non ci si accorgerà neppure che la telefonata transita su Internet anziché su una rete telefonica tradizionale.
Skype appartiene a una nuova generazione di aziende che propongono di eliminare tutti i costi e tutti gli intermediari inutili, i quali difendono interessi diversi da quelli dei consumatori. Sono aziende ultramoderne, nelle quali non vi sono dipendenti che difendono le loro rendite. Se la società guadagna, una quota del profitto viene immediatamente distribuita ai consumatori, abbassando il prezzo e allargando la quota di mercato. Se perde, il prezzo non cambia e si tagliano gli stipendi dei dipendenti.
Due studiosi italiani, Massimo Gaggi e Edoardo Narduzzi, (e più precisamente un giornalista esperto di problemi economici e un imprenditore dell’hi-tech), autori del libro La fine del ceto medio e la nascita della società low cost, invitano a riflettere su due questioni di fondamentale importanza.

Innanzitutto, la fine inevitabile di ogni protezione, e quindi di tutte le aziende protette. Ma non perché nel mondo spiri una ventata di totale liberismo: semmai, accade il contrario, ma sotto la pressione dei consumatori, i quali non sono più disposti a pagare rendite e inutili intermediazioni. Si tratta di un processo inarrestabile. Grazie a Ryanair viaggiano quasi gratis e vedono i prezzi di Wal-Mart, imparano a fare acquisti partecipando alle aste di eBay e si accorgono di quanto costa il commercio tradizionale.
Pensiamo ad Alitalia, che non riesce a convincere assistenti di volo e piloti a trasferirsi da Roma a Milano e pertanto, quando il loro vettore parte da Malpensa alle 11 del mattino, vengono pagati dalle 8, ora in cui si imbarcano a Roma per raggiungere Milano e iniziare il turno di lavoro. Contrariamente al passato, di fronte a recenti scioperi non ci sono state sommosse: i passeggeri hanno con molta semplicità scelto altre compagnie, lasciando che Alitalia cominci a colare a picco da sola. Telecom Italia ha pochi anni per evitare la stessa fine.
Di qui alle scelte politiche il passo è breve, ed è questa la seconda questione posta dai due autori. Se ci si abitua alle telefonate gratuite di Skype e ai costi di Easyjet, si fa poi fatica ad accettare un’imposizione fiscale elevata, oppure, se la si accetta, ci si chiede che cosa si stia pagando: servizi efficienti, o una costosa intermediazione?
Due soli modelli fiscali sopravvivono nella società low cost: quello scandinavo, dove le tasse sono elevate e la qualità dei servizi pubblici è eccellente, e quello dei Paesi dell’Est europeo, i quali hanno adottato l’aliquota unica: è il 16 per cento in Romania e poco più negli altri nuovi Paesi membri dell’Unione europea.
Nell’era post-industriale del consumo globalizzato – scrivono Gaggi e Narduzzi – entrano in crisi gli stessi elementi fondanti dell’essere classe media: la ragione politica, l’origine economica e l’idealità sociale. Dunque: andiamo verso una società che non ha più operai, ma neppure un ruolo ben preciso per insegnanti o per medici: una realtà indistinta – più monocorde che omogenea – sempre meno capace di declinare la diversità delle aspirazioni, dei bisogni, dei desideri di consumo. E anche di definire i suoi riferimenti culturali e le sue “piattaforme” politiche.
È la classe “della” massa senza steccati – dunque non la classe “di” massa dell’identità proletaria – che di fatto perde progressivamente i propri connotati, dal momento che rappresenta la gran parte del corpo sociale, dal quale sono esclusi soltanto, in basso, i lavoratori senza una specializzazione e, in alto, i ceti ristretti dei beneficiari della ricchezza generata dalla conoscenza creativa.

Ecco: questa classe della massa è caratterizzata da consumi low cost: acquisti facilmente replicabili e riconoscibili ovunque nel mondo. Ikea, Ryanair, Wal-Mart, Virgin, Zara, H&M sono soltanto alcuni dei marchi che interpretano la nuova identità comportamentale della fine irrimediabile della classe media. Nei fatti, è un vero e proprio magma sociale, un contesto in continua ebollizione, nel quale convivono una, cento, mille e nessuna classe.
Sostengono testualmente gli autori: «Scivoliamo così ben oltre la logica – ancora classista – del welfare state (pensioni modeste per i siderurgici, ma sontuose per i telefonici e gli elettrici; la protezione della cassa integrazione per i disoccupati dell’industria, ma non per quella dei servizi, eccetera), per dare spazio a un universo umano flessibile, decontrattualizzato, desideroso di allargare al massimo le possibilità di consumo.
Un universo sottoideologizzato, deciso a procurarsi beni e servizi presso il fornitore mondiale che offre le condizioni più convenienti, che pretende una minor intermediazione da parte delle istituzioni tradizionali, religiosamente aperto, integrato in tempo reale con tutti i canali di comunicazione o di interazione e sempre meno baricentrato sulle tradizionali “agenzie” di socializzazione, a cominciare proprio dalla famiglia».
Fenomeni come la crisi dei partiti politici e della stampa, che pure sono il risultato di una serie di processi di origini diverse (dalla crisi di fiducia in un sistema politico che tende sempre più a sostituire la spinta ideale col puro professionismo, alla diffusione dei nuovi “media” elettronici che erodono lo spazio dei giornali di carta), vanno letti anche in questo contesto: è sempre più difficile mettersi in sintonia con una società che, finite la storia e l’economia della materia, si spoglia delle limitazioni della sua dimensione “controrivoluzionaria” e della scelta delegata per farsi domanda senza confini, fluida, segmentata, apolitica o neopolitica, semplificata e cinica. È la società del potere diffuso, non più contenibile negli steccati politici e organizzativi ereditati dal recente passato, che aspetta di essere governata da chi sappia definire un nuovo quadro di riferimento, una dimensione intellettuale capace di reinterpretare i concetti di progresso e di sviluppo.
E a questo punto, si possono tirare le somme. Affermano infatti i due autori che con la fine della classe media arriva al capolinea la grande trasformazione sociale della Rivoluzione industriale e si entra in una nuova era caratterizzata da: 1) l’emersione di un’aristocrazia molto patrimonializzata e affluente, che comprende i vincitori della roulette dell’innovazione; 2) l’affermazione di un ceto della conoscenza con redditi medio-alti; 3) una società massificata di reddito medio-basso, ma alla quale l’industria del low cost garantisce l’accesso a beni e servizi un tempo riservati a ceti più affluenti; 4) una classe con scarso potere d’acquisto (operai, pensionati senza redditi integrativi, ma ormai anche insegnanti con famiglia a carico), sempre più schiacciata verso modelli sociali da Terzo Mondo emergente.

 

   
   
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