Settembre 2006

La sindrome del declino tra silenzi e grida

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Videogiochi
per un restauro
Claudio Alemanno  
 
 

 

 

 

Concorrenza,
innovazione,
cultura dei servizi restano parole
magiche.
Nel nostro
vocabolario
della crescita
acquistano
il sapore
del miracolo.

 

La crescita? Dipende da quanti Draghi abbiamo. In questa battuta ci sono tutte le incognite del caso Italia. Dovremo prendere ancora l’aperitivo nel deserto se continua a prevalere il volontarismo nichilista che ha scritto le ultime pagelle del letargo italiano e consacrato una lunga stagione di bassa congiuntura politica.
La domanda urgente è quella di sempre. Quando la smettiamo di farci male, di collezionare perle di autolesionismo? Continuiamo a restare al palo mentre si fa grande abuso di parole come rinnovamento, competitività, riforme. Ricche di significato ma povere di contenuto. Il fare è problematico perché intacca la mappa dei poteri consolidati, la credibilità delle piccole nomenklature con storie di arroganza senza volto. Le riserve indiane del consenso politico. È in discussione la via italiana alla moderazione, il sacrario del conservatorismo istituzionalizzato che ora va anche in piazza facendo confusione tra lotta, spettacolo e parata.
Intendiamoci. Non diamo voce ad una pastorale laica. Vogliamo solo segnalare i guasti di un lungo percorso involutivo e le buone ragioni di un cambiamento necessario (si leggano le riflessioni di Roberto Vannucci e Raimondo Cubeddu in Lo spettro della competitività, ed. Rubettino). Abbiamo voluto e ottenuto il cambio della guardia. Come ogni inizio carico di aspettative è avvolto in un alone mistico e misterioso, mentre permangono le turbolenze politiche e crescono le rissosità sociali. Il governo è stretto in una morsa: tra le pressioni dei mercati competitivi e le aspettative di un elettorato spaventato e deluso. È la gravità delle contraddizioni e delle sfide che porta la classe politica verso un disegno progettuale condiviso. Un parto doveroso delle Nazioni Unite del cortile Italia, per dare passo parlamentare e profilo strategico all’impegno politico. Quando i nodi vengono al pettine, la cultura del buonismo diventa suicida.

Come dicono i francesi, arriva un momento in cui non si può più avere il puro e il denaro del puro.
Tutti i fari restano accesi sull’agenda di lavoro del governo. Il conflitto gridato sulla reciproca delegittimazione maggioranza/opposizione si trasforma in conflitto di posizione tra conservatori e progressisti, riformatori e tradizionalisti. Con incognite che creano “pause di riflessione” da brivido.
A fronte dei numerosi cartellini sabbatici staccati dalla politica spira ancora un’aria di “reducismo” che tiene in scacco prospettive e strategie, lasciandoci sospesi tra vecchie macerie e nuove speranze, offrendo qualche ragione di scrivania a chi chiede governi di decantazione nazionale e locale. Tutto è appeso al filo di ingarbugliate liasons dangereuses che non consentono di togliere i sigilli al pignoramento delle volontà e delle emozioni. L’unico segnale chiaro riguarda l’accentuata personalizzazione della politica e dunque l’accentuata difficoltà a cogliere l’interesse generale. Resta in circolo il demone del sospetto che inchioda tutti a vecchie e logore contrapposizioni, alla partitura Caino/Abele che blocca ogni ipotesi di lavoro dei cadetti della modernità.
In Italia, era solito ripetere Flaiano, «la linea più breve tra due punti è l’arabesco». Mentre il confronto brutale con le cose che producono crescita piatta e difficoltà di stabilizzazione richiede decisioni coese ed energie full immersion. In attesa di aprire cantieri per allevare una generazione post-resistenziale la politica delle cose scivola via in silenzio.
Il riformismo di cui tutti parlano da ragionieri di un’utopia è in realtà una categoria dello spirito, un percorso della cultura per produrre vento nuovo nella società, nelle istituzioni, nella Pubblica Amministrazione. La scommessa riguarda la creazione di un italiano atipico, arricchito di nuovi caratteri antropologici. Non può essere un prodotto confezionato dal moviolista di fiducia. Lo stato di emergenza dovrebbe rafforzare il grado di intimità nazionale, promuovendo una sensibilità diffusa per le tematiche etico-civili e il dialogo sociale. Un collante necessario per traghettare verso nuovi traguardi uomini, idee, programmi; per confrontarsi con il mercato, il merito, l’efficienza.
Poca attenzione viene data alle ragioni psicologiche del disagio. È ancora tutta da scrivere l’analisi dei mutamenti intervenuti nell’organizzazione sociale con il passaggio da una società di classi ad una società di ceti. Certamente ha accentuato il diffondersi dei personalismi dando sepoltura alla dialettica dei blocchi. Aprendo le porte a circoli e circoletti che fanno tendenza e appartenenza, ha messo al rogo i valori forti aggreganti e ha allargato il diaframma dell’incomunicabilità, rendendo difficile veicolare dialogo e idee, confronto e cambiamento.
Manca una seria riflessione sui guasti prodotti da una società dissociata (cosa diversa dalla società plurale), sui mutamenti intervenuti nei rapporti fiduciari, sul diverso atteggiarsi degli attori collettivi di fronte ai soggetti istituzionali e ai meccanismi normativi. Pesanti situazioni di scollamento non registrate hanno creato una cultura della devianza che abbassa il tasso di legalità, anche in sede legislativa.
Si pensi alle vicende del falso in bilancio e dell’inquinamento delle acque (mari e fiumi). Una legge che nei controlli fissava il limite in ragione di un numero determinato di bacilli è stata abrogata da una legge successiva che ha abbassato la soglia del divieto. Resta il dubbio che l’interesse per i bacilli sia stato offuscato dall’interesse per la balneazione e l’uso delle acque. Doni e condoni per i poteri forti, per le prevaricazioni dei gruppi organizzati.
C’è poi il capitolo della formazione. Se ne parla da anni con grande confusione. Nel caos generalizzato spicca un punto fermo: le convenzioni tra la Pubblica Amministrazione e le Università. Per sovvenzionare queste ultime e produrre titoli “morbidi” che agevolano la carriera dei dipendenti pubblici. Intanto, la “questione formazione” resta una scatola vuota. Per tutti.

Il fascino dell’individualismo esasperato sta producendo una sorta di atonia sociale, un’indifferenza sostanziale verso il darsi e il ritrovarsi nelle istanze collettive. Ma la modernità non può essere imbarbarimento, mancanza di centri di mediazione tra l’individuo e le cellule sociali, tra la fotografia del reale e il precetto normativo. Resta difficile pensare ad istanze di libertà quando continuano a diffondersi pratiche di colonizzazione della coscienza del lavoro, con la società civile impigliata nel dilemma certezza del lavoro salariato/incertezza delle prestazioni senza status e senza garanzie. Con i giovani che devono affrontare scelte drammatiche: flettere o riflettere in famiglia.
Si avvertono preoccupanti situazioni di stallo nell’articolazione delle relazioni industriali, che producono disfunzioni gravi nella rete delle interazioni aziendali e sociali. C’è una questione sindacale aperta poiché rimangono inalterate tra le Confederazioni le diverse visioni su risanamento e sviluppo, sul modello contrattuale centralizzato (Cgil) o decentrato (Cisl, Uil), rendendo precario un dialogo intersindacale che diventa moltiplicatore di precarietà.
Il transito delle grandi trasformazioni dovrebbe indurre a rimuovere le interpretazioni storicizzate del pensiero liberale e marxista per offrire nuovi approdi ideali ad un modello occidentale di società multietnica integrata, ad un agire politico liberato dalla soggezione al consenso recintato.
Vorremmo più politici di strada, attenti alle ragioni silenti del disagio. Un altro problema sottostimato riguarda i caratteri d’identità e appartenenza che gli enti minori, diversi dallo Stato, sono in grado di suscitare e la loro capacità di coesistenza con l’identità nazionale. Nella nostra storia c’è più memoria di divisioni che di unioni. Sono tematiche che non creano problemi di frontiere ma alimentano significativi processi di confronto/scontro con l’Altro, il Diverso attiguo. Sappiamo bene che gli enti minori (Regioni, Comuni) esprimono qualcosa meno di una nazione e qualcosa più di un’associazione, ma manca lungo il percorso delle deleghe (poteri e risorse) un serio approfondimento delle specificità territoriali che non vuol dire restauro dei gabellieri e delle garitte doganali o rassegnazione ai fermenti di società senza approdo.
Le identità non sono immutabili, soprattutto quando i cittadini mal sopportano intrecci e condizionamenti reciproci. Questo problema è stato avvertito per la crisi della famiglia (l’istituzione di un ministero è segnale di attenzione). Ma la crisi è più ampia, interessa il mondo del lavoro e la vasta gamma delle relazioni sociali. Offre tracce evidenti di mutamenti sostanziali che forniscono materia per un case study. Cos’è l’Italia, oggi? Cercando risposte in linea con gli obblighi di sistema imposti dagli impegni europei, dalla globalizzazione dei mercati, dai doveri d’integrazione etnica e tecnologica. Prima di parlare di riforme, anche di quelle costituzionali, bisogna dissodare questo terreno, prendendo coscienza delle devianze, dei fermenti, dei mutamenti in corso.
L’obiettivo prioritario non è più l’accrescimento di ricchezza, ma la necessità di rendere il futuro meno incerto. Con questa chiave di lettura le ragioni del confronto non possono essere solo economiche, dovendo dare risposte convincenti all’inquietudine generalizzata, alle paure dei diseredati e dei disadattati. Lo stesso concetto di valore-lavoro, oltre ad esprimere con il suo movente economico prestigio e grado sociale, si arricchisce sempre più di fattori etici che esaltano il ruolo sociale delle responsabilità manageriali. Così si colorano di luce diversa anche le urgenze attuali: il bisogno di dare slancio alle strutture materiali e immateriali, di restituire fiducia al risparmio, di riportare sotto controllo il debito pubblico, di abbattere le rendite monopolistiche e l’incidenza sull’inflazione delle tariffe e dei prezzi amministrati, di dare credibilità alle istituzioni e agli organi di controllo, di riposizionare in sede internazionale un sistema economico declassato.
L’economia è ricerca di equilibrio attraverso aggiustamenti delle convenienze relative. Una ricerca profondamente radicata nel sociale, che diventa sempre più complessa in una realtà di mutamenti rapidi, dominata da fatti nuovi e rilevanti connessi alle migrazioni di persone e capitali (negli anni Settanta le multinazionali in Italia erano il 20%, oggi sono oltre il 55%). Negli studi recenti c’è un filone importante che attiene alla neuroeconomia.
Registriamo intanto un significativo spacchettamento delle competenze nei dicasteri economici deciso dal nuovo governo. Oltre a rendere omaggio alla zona grigia degli equilibri di potere è auspicabile che produca slancio e funzionalità nella definizione e gestione delle politiche d’indirizzo. Colpisce lo scorporo di alcune competenze del ministero dell’Economia. L’unificazione Tesoro-Bilancio sembrava una conquista della volontà di ridurre le tensioni tra le politiche di entrata e di spesa.
Adesso si volta pagina, questo ministero viene a perdere petali importanti. Perde il Dipartimento per la Coesione (ex ministero del Bilancio, con incluse le competenze per il Mezzogiorno), trasferito al ministero per lo Sviluppo. E perde anche il Cipe, trasferito alla Presidenza del Consiglio e affidato alle cure di un Sottosegretario.
Sono scelte che impoveriscono il ruolo del ministro dell’Economia nella gestione della politica economica e della politica industriale. E la necessità di più concerto ministeriale potrebbe procurare ritardi nella definizione e attuazione di quel disegno strategico (per risanamento e sviluppo) su cui sono concentrate le aspettative dei mercati.
Registriamo invece in positivo il metodo di consultazione settimanale del ministro dell’Economia con il Governatore della Banca Centrale, sull’esempio dei weekly meetings americani. E l’attenzione riservata alle esperienze dei magistrati esperti in reati finanziari, che possono fornire utili contributi nella ricerca di una buona governance pubblica. Al Festival dell’Economia di Trento (giugno scorso) ha fatto scalpore la notizia che su 3,5 miliardi di euro sequestrati alle cosche mafiose nel periodo 1992-2005 ne siano stati confiscati dallo Stato solo 700 milioni.
Comunque, non era necessario questo dato per avvertire la presenza di una criminalità economica diffusa (ivi incluso il sommerso. Anche qui c’è bisogno di invertire la rotta per costruire una “economia della reputazione”.
Aprendo spazi di libertà e di trasparenza in un mercato rispettoso delle regole, affrancato da un contrattualismo che sconfina nell’area buia del non-diritto (nomadismo di ventura, per gli americani incursioni “rock around the stock”). Questione criminale e questione sindacale sono due grossi macigni sulle scelte di governance, sul perseguimento di una crescita non drogata, agganciata alle correnti di sviluppo dell’economia internazionale.
Concorrenza, innovazione, cultura dei servizi restano parole magiche. Nel nostro vocabolario della crescita acquistano il sapore del miracolo. Ma un nuovo miracolo economico non può decollare se l’iniziativa politica, oltre a tenere aggiornata l’anagrafe delle grandi e piccole eccellenze, non riesce a rimuovere l’insofferenza verso il cambiamento, assecondando la parcellizzazione di una realtà sociale molto esposta su posizioni di rendita usuranti. Il buon governo dell’ordinaria amministrazione non basta più.
Attendiamo gli araldi di un’inversione di tendenza, per riciclare il costume lassista in dovere etico verso la legalità.
A chi ha responsabilità di governo ricordiamo un motto popolare tra gli eschimesi: la velocità della slitta è data dal cane più lento. Per fortuna abbiamo bambini che ancora fanno “Ohh...”. Anche quando i grandi hanno perduto voglia e capacità di stupire.

 

   
   
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