Settembre 2006

Il Sud che non decolla

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Tutti i colori del grigio
B.S.  
 
 

 

 

 

I Paesi della
sponda Sud del Mediterraneo hanno mancato l’obiettivo
dello sviluppo,
penalizzando
lo stesso
Mezzogiorno
italiano, lento
ed erratico.

 

Il male è noto: in Italia lavorano solo sei persone su dieci (il 57,5 per cento) e molte di queste escono dal mercato del lavoro convinte di non poterci rientrare mai più. Per contro, si registra un calo, sia pur lieve, dei disoccupati, che nel 2005 si sono assestati ad un tasso (medio) del 7,7 per cento, contro l’8 per cento dell’anno precedente.
I dati definitivi dell’Istat sulla forza lavoro confermano le difficoltà delle dinamiche occupazionali italiane e fotografano un Paese che rimane spaccato nettamente in due.
Il Nord raggiunge tassi di occupazione più alti della media europea (68,4 per cento in Emilia-Romagna, 67,1 per cento in Trentino e Alto Adige, 65,5 per cento in Lombardia), mentre il Mezzogiorno si mantiene su livelli inferiori al 50 per cento (44,5 per cento in Calabria, 44,4 per cento in Puglia, 44,1 per cento in Campania e 44 per cento per la Sicilia).
Sul fronte della disoccupazione, invece, in Sicilia il tasso dei senza lavoro ha raggiunto il 16,2 per cento, precedendo nel triste primato il 14,9 per cento della Campania. Emilia-Romagna, Valle d’Aosta e Trentino sono sotto il 4 per cento, mentre la Lombardia è al 4,1 per cento.

Per i commenti, secondo alcuni questi dati sono il riflesso di un anno particolarmente difficile dell’economia italiana, che ha dovuto attraversare diffusi processi di ristrutturazione e reagire alle nuove e straordinarie pressioni competitive. Secondo costoro, rispetto al passato il mercato del lavoro è apparso più flessibilmente capace di includere nuova occupazione in proporzione all’andamento del Pil, sicché si può dedurre la necessità di accelerare i processi di riforma del lavoro a partire dalla Borsa e dai servizi privati e pubblici per l’impiego.
Diametralmente opposta l’interpretazione di altri, secondo i quali i dati confermano sostanzialmente due cose: la prima è che a fronte della diminuzione di uno 0,3 per cento della disoccupazione il tasso di occupati rimane invece stabile al 57,5 per cento, sei punti in meno della media europea. Questo vuol dire che migliaia di persone hanno rinunciato a cercare un’occupazione perché sfiduciate.
La seconda è che permane la distanza fra il Nord e il Sud del Paese, e che chi ha pensato di risolvere i problemi riformando il mercato del lavoro deve prendere atto del fallimento: la vera partita – sottolineano costoro – è quella di far lievitare il numero degli occupati con riforme strutturali che partano innanzitutto da una sensibile riduzione della tassazione sul lavoro.
Leggendo i dati più in profondità, si nota come per il quarto anno consecutivo Reggio Emilia si conferma con il 70,8 per cento la provincia italiana con il più alto tasso di occupazione, posizionandosi davanti a Modena (70 per cento) e Bologna (69,4 per cento). Mentre è quella di Crotone l’area con il tasso di occupazione più basso (39,6 per cento), seguita da Foggia (40,6 per cento) e Siracusa (41 per cento). La regina dell’industria è invece Belluno, dove il manifatturiero ha un’incidenza del 39,9 per cento sull’occupazione, seguita da Biella (39,7 per cento), Bergamo (39,6) e Vicenza (39,1). Da notare che Milano si ferma al 25,2 per cento, e che a livello regionale si piazzano prima le Marche con il 31,7 per cento.
La capitale del lavoro autonomo (compresa l’agricoltura) è invece, in Piemonte, Cuneo. Qui l’incidenza sui posti di lavoro è del 39,4 per cento; seguono Grosseto (37,1) e Savona (36,8). Tra le grandi città spicca Bologna, con il 28 per cento. Se si esclude invece il lavoro nei campi, si nota come nel lavoro indipendente il divario Nord-Sud si riduce con percentuali significative per Ragusa (29,7 per cento) e Avellino (28,8).
Nelle regioni meridionali continuano invece a rimanere bassi i tassi di occupazione femminile: in Puglia appena una donna su quattro (il 26,8 per cento) ha un impiego, mentre in Campania si sale addirittura al 27,9 per cento. Un divario profondo si registra infine anche sul fronte dei laureati senza lavoro: nel Sud il 10,5 per cento è ancora disoccupato, a fronte di un 3,8 per cento nel Nord e del 4,3 per cento nel Centro Italia.
(Chiariamo. Non poche facce di bronzo sostengono che «c’è, ma non si vede»: nel senso che l’occupazione al Sud non è bassa, come dicono le statistiche ufficiali, le quali non considererebbero il sommerso. Secondo costoro, chi osserva i dati del mercato del lavoro italiano, con la profonda spaccatura orizzontale nel Paese, reagisce d’istinto: i numeri sono sbagliati, la realtà è nascosta all’Istat per non rivelare l’impiego in nero; d’altronde, com’è possibile che in molte zone meridionali meno di una persona su due lavori?
Ragionando – strumentalmente – in questo modo, il sommerso diventa l’unica plausibile riconciliazione tra il reale statistico e il razionale dei commentatori; lo strumento di rimozione; l’esorcismo liberatorio di chi la coscienza proprio pulita non ce l’ha.
Peccato che le cifre Istat il nero già lo includano. E ne danno conto: nell’intera nazione un lavoro su otto è irregolare (cioè non dichiarato al fisco), nel Sud la quota sale a uno su cinque (uno su tre in Calabria). Il sommerso è l’altra faccia di un mercato che non funziona. E invece di ricorrere a luoghi comuni che fanno sentire la coscienza tranquilla, è meglio attuare soluzioni per rendere più facile l’incontro tra domanda e offerta a livello locale).
A fronte di questa situazione, è certamente ovvio notare che negli ultimi dieci anni siano riprese le migrazioni dal Sud al Nord, anche se è fantasioso sostenere che si tratterebbe di cifre analoghe a quelle che negli anni Cinquanta fecero parlare di “esodo biblico”, e se invece è realistico sostenere che non si tratta più di bracciantato generico, ma di gente con diploma e con laurea. Frutto, questo spostamento di persone, di un mercato del lavoro che nel Mezzogiorno resta abbastanza stagnante. Ma è anche stolto consigliare che al Sud non si paghino gli stessi stipendi del Nord e pretendere che al Nord si paghino gli stessi affitti del Sud: come se infrastrutture e servizi fossero uguali, come se i trasporti e i beni civili avessero al di qua e al di là della Linea Gustav la stessa valenza e consistenza reticolare.

Sicuramente, il vecchio modello Sud, quello degli incentivi clientelari, (che comunque ha arricchito anche il Nord, e oltre ogni misura), va respinto. Ma si dimentichino strategie di rapina quali quelle attuate storicamente ai danni delle regioni meridionali. I moralisti della spesa pubblica – quelli di sempre e quelli dell’ultima ora – si mettano l’animo in pace. Abbiamo combattuto per primi e da tempo immemorabile le distorsioni e i simultanei rastrellamenti di capitali a beneficio di territori privilegiati. Ma c’è qualcuno disposto a rispondere alla domanda: com’è che se vanno in Germania o in Francia o in Svizzera o in qualunque altro angolo del mondo, i meridionali vengono apprezzati per le loro capacità di lavoro, per la loro creatività, per l’impegno che profondono, mentre in Italia sono impediti a farlo? Il clima? la pennica? il lazzaronismo? la scarsa voglia di usare l’olio di gomito? Ma fatemi il piacere...
Facciamo un discorso più serio. È stato sostenuto che la rivoluzione digitale e i progressi nei sistemi di trasporto hanno indotto studiosi come Frances Cairncross a pronosticare la “fine della distanza”, ma le tendenze globali degli scambi e degli investimenti smentiscono questa tesi. I motori economici degli ultimi decenni sono un grande mercato integrato nazionale (gli Stati Uniti) e una regione dove la contiguità geografica ha consentito la progressiva estensione di uno spazio interconnesso di commerci, produzione e finanza (l’Asia orientale). La prossimità ai mercati finali e ai fattori produttivi, pertanto, ha tuttora una fondamentale voce in capitolo.
In questo scenario, il Mediterraneo rappresenta da decenni una promessa mancata per l’Europa, e in particolare per il Mezzogiorno. A più di due lustri dall’avvio del Partenariato Euro-Med (con la Conferenza di Barcellona del 1995) l’impatto economico è stato pressoché nullo: le indagini ci dicono che lo iato tra il commercio potenziale (calcolato anche in base alla contiguità geografica) e commercio effettivo tra Ue e Paesi Med è rimasto più o meno inalterato, e che il primo è tuttora pari a quattro volte il secondo (stime Ice). Le uniche eccezioni sono Tunisia e Turchia, dove gli scambi effettivi con l’Ue si sono avvicinati a quelli potenziali, ma con specificità rilevanti (il turismo la prima, l’unione doganale la seconda).
Anche il progetto avveniristico di realizzare un’area di libero scambio nel Mediterraneo entro il 2010 sembra irrealizzabile. Il 2010 rappresenta forse un termine sfortunato, visto che anche la Strategia di Lisbona per fare in quell’anno dell’Europa «l’area più innovativa e l’economia più basata sulla conoscenza» appare ormai irrimediabilmente fallita. La rimozione delle barriere agli scambi tra Paesi della sponda sud del Mediterraneo, che sono ancora elevate, potrebbe inoltre rivelarsi insufficiente: gli scambi intra-Med sono ridotti anche per via della forte somiglianza delle loro strutture produttive (il settore petrolifero; l’agricoltura mediterranea; una certa industria leggera; il turismo).
Il problema di fondo, dunque, rimane questo: il Mezzogiorno d’Italia, cioè il cosiddetto “Mediterraneo del Nord”, stenta ancora oggi a decollare anche nel contesto euro-mediterraneo. Eppure, le nuove rotte marittime transoceaniche, che dall’Oriente fanno tappa nei porti del Sud, per poi proseguire verso l’Atlantico, potrebbero stimolare investimenti aggiuntivi.
Questo è senz’altro interessante in termini di domanda di nuovi attracchi e di intermodalità di infrastrutture nelle regioni meridionali, intese correttamente come unica area marittima che può attrarre parte dei traffici intercontinentali. Ma da qui a sostenere che le infrastrutture siano di per sé sufficienti a stimolare lo sviluppo generale del Sud ce ne passa, a meno che esse non siano associate a un efficiente modello e a una rinnovata competitività dei costi.
I Paesi della sponda Sud del Mediterraneo hanno fino ad ora mancato l’obiettivo dello sviluppo, penalizzando dunque lo stesso Mezzogiorno italiano, che ha conseguito un avanzamento lento ed erratico anche perché ha cercato i propri mercati a sud, piuttosto che in direzione nord, verso l’Europa continentale. Dati e previsioni di crescita, dunque, vanno aggiornati, alla luce di un progetto complessivo che ancora in Italia non c’è. Riusciremo ad ottenerlo, entro la data fatale del 2010?

 

   
   
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