In tutti questi
anni la stele non
è stata affatto
dimenticata dagli etiopici, divenendo un simbolo
dellidentità
nazionale.
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Chi lo ha visto di recente, sostiene che fa davvero un certo effetto
vederlo steso sul suolo, diviso in tre grandi tronconi, circondato
da una palizzata con filo spinato, sotto le pensiline che hanno
il compito di proteggere limballaggio dalle piogge e dagli
sbalzi di temperatura che nella stagione autunnale diventano frequenti
e molto insidiosi anche nelle regioni dellEtiopia settentrionale.
Naturalmente, stiamo parlando dellobelisco restituito dallItalia
alle autorità etiopiche e dellarea nella quale è
stato parcheggiato: una zona divenuta per la popolazione
del luogo una specie di ritrovo abituale, frequentato anche da greggi
e da frotte di asini. Il che, secondo alcuni, non guasta, perché
il monolito sta meglio qui, nel suo ambiente naturale, che nella
romana piazza di Porta Capena, al cospetto dei palazzi della Fao,
dove fungeva da spartitraffico annerito dai fumi di migliaia di
automobili che solitamente fluivano a ondate nelle quattro direzioni
della Città Eterna.
Sebbene di turisti non se ne veda neanche lombra, (ed è
un gran peccato, perché il sito merita per storia, per tradizione
artistica e per le tradizioni popolari), nella città axumita
è ancora viva leuforia che si respirava nel quartiere
ecclesiastico di Nefas, sulla necropoli di Mai Heggià, quando
esattamente un anno fa si concluse con una toccante cerimonia larrivo
dalla capitale italiana dei tre tronconi che componevano il celeberrimo
obelisco. E proprio alcune settimane fa ha suscitato unenorme
emozione in tutta Etiopia lannuncio di un funzionario dellUnesco,
Awad Elhassan, secondo il quale ormai è tutto pronto per
la sistemazione del terreno al centro del quale dovrà essere
rieretto il monumento; il quale, stando ai piani elaborati da unapposita
commissione di esperti, dovrà essere accolto nella zona archeologica,
accanto agli altri obelischi, alcuni dei quali sono stati pregevolmente
restaurati, mentre atri giacciono, come quello giunto da Roma, in
tronconi imballati e protetti nei recinti del territorio axumita.
Se le condizioni meteorologiche lo consentiranno, con larrivo
della stagione secca lodissea della stele dovrebbe finalmente
concludersi.

Comè noto, infatti, il rimpatrio dellobelisco,
simbolo del patriottismo etiopico (e cè chi addirittura
lo ritiene emblema dellidentità di questo Paese), imposto
allItalia dallarticolo 37 del Trattato di Pace di Parigi
nel lontano 1947, ha scritto la parola fine ad una lunga e penosa
attesa, scandita da rinvii e da polemiche che in alcuni momenti
ha rischiato di compromettere anche le relazioni diplomatiche tra
Roma e Addis Abeba.
Sta di fatto che, una volta che le istituzioni italiane hanno deciso
di riportare la stele nella terra dorigine, loperazione
tecnica attraverso la quale è avvenuta la restituzione si
è rivelata un autentico capolavoro dellingegno umano,
messo a punto da un personaggio del calibro di Giorgio Croci, ordinario
di Tecnica delle Costruzioni alla Sapienza di Roma.
Essendo lEtiopia priva di un qualsiasi sbocco al mare, lunica
soluzione fattibile è stata quella del trasporto aereo, con
limpiego di uno dei due soli velivoli in grado di sostenere
un simile peso: il jet russo Antonov 124. Fra laltro,
le piste degli aeroporti di transito (Addis Abeba) e di scalo finale
(Axum) si trovano a quote elevate, in cui laria, più
rarefatta, può creare seri problemi in fase di atterraggio.
Il jet russo, che in condizioni normali è abilitato al trasporto
massimo di 120 tonnellate di carico, per il caso specifico era stato
calcolato che non ne potesse superare le 60, mentre i tronconi della
stele pesavano 75 tonnellate ciascuno.
Pertanto è stato necessario rimuovere le protezioni dacciaio
delle imbracature, sostituirle con altre in leghe più leggere,
il che ha consentito di ridurre il peso del blocco più consistente
di un buon dieci per cento. Come se ciò non bastasse, il
rischio peggiore riguardava la sicurezza nellarco dellintera
navigazione, in quanto vi era il rischio reale che lo stesso aereo
potesse spezzarsi in volo per via dei vuoti daria.
Per superare questi e altri problemi derivanti, léquipe
di Croci aveva elaborato un monitoraggio permanente computerizzato,
basato sui sensori che trasmettevano le informazioni a una centralina
di raccolta dei dati, la quale, ad ogni minima corrente ascendente
o discendente, attraverso uninvasatura elastica, attivava
un sistema che compensava le possibili forze vettoriali in grado
di danneggiare il velivolo.
E malgrado ciò, una volta giunto a destinazione lobelisco,
i problemi tecnici non sono terminati. Infatti si è aperto
un dibattito tra i fautori del piano originale che prevede linstallazione
dellobelisco accanto agli altri reperti presenti nellarea
monumentale (particolarmente caldeggiata dagli etiopici) e alcuni
archeologi, i quali avrebbero preferito che la grande stele rimanesse
distesa sul terreno, proprio come laveva rinvenuta negli anni
Trenta larcheologo italiano Ugo Monneret di Villard, il quale
allepoca stava conducendo degli scavi nel territorio di Axum:
un monolito alto ventiquattro metri e del peso di 160 tonnellate,
che giaceva semiaffondato per terra spezzato in tre parti.

In effetti, la necropoli della città santa di Axum, collocata
sotto gli obelischi, è soggetta a crolli e frequenti smottamenti
del terreno che potrebbero mettere a repentaglio praticamente tutte
le strutture monumentali e i reperti archeologici presenti nel sottosuolo.
Proprio per questa ragione una missione Unesco ha stabilito, dintesa
con gli esperti e con le istituzioni etiopiche, che prima delle
operazioni di riassemblaggio, da attuare con laiuto degli
esperti italiani, si dovrà provvedere al consolidamento del
terreno con sofisticate tecniche che dovrebbero immettere nelle
viscere del terreno sostanze resinose in grado di dare consistenza
allintera area archeologica.
Con la restituzione e il finanziamento delle complesse operazioni
di trasporto dellobelisco axumita, lItalia ha senza
dubbio sciolto un obbligo di natura internazionale. Resta aperto,
invece, oltre al problema della nostalgia capitolina
per lassenza della stele, un altro problema: quello della
valorizzazione turistica e culturale del complesso monumentale del
grande recinto di Axum, penalizzato dalla mancanza di infrastrutture
adeguate a un patrimonio incommensurabile di civiltà. Questarea
africana, fra laltro, è destabilizzata in via permanente
da guerre (con lEritrea) e guerriglie (interne, tribali, di
signori della guerra locali), ed è devastata da eventi naturali,
quali la siccità e la desertificazione, che impediscono duraturi
progetti di sviluppo socio-economico legato alla presenza di visitatori
e alla diffusione della conoscenza delle opere darte oltre
lo stretto ambito degli studiosi e degli archeologi.
Ci sono, infatti, tutta una storia e tutta unarte da scoprire,
dai legami con il dirimpettaio Yemen ai rapporti con lArabia
felix, alle manifestazioni artistiche della civiltà nilotica,
fino allispirazione che i reperti di Axum hanno esercitato
in alcuni artisti italiani addirittura del Novecento. Ci sono una
lettura e una rilettura dei simboli, dei linguaggi, delle crittografie
scolpite o incise sulle facce di ogni stele. E cè il
rammarico che le vicende politiche e militari di questo Paese rendano
inaccessibili chissà fino a quando gli obelischi e le altre
grandi strutture architettoniche e religiose della civiltà
di Axum, dei suoi sviluppi nel tempo, comprese le leggende che storia
(lacunosa) e tradizione (biblica, poi templare) hanno fatto giungere
fino a noi, come suggerirebbe lesistenza dellArca dellAlleanza.
Ma forse tutto questo contribuirà ad alimentare anche nel
Terzo millennio i sogni e le fantasie degli uomini.
La città santa
Axum è una città di 43 mila abitanti dei Tigray, regione
settentrionale dellEtiopia, ai piedi delle montagne di Adua.
È stata il centro vitale del regno omonimo, che sorse nel
periodo attorno alla nascita di Cristo e declinò verso il
XII secolo a causa del nascente Impero etiopico più a sud.
È considerata la città santa del Paese e rimane unimportante
meta di pellegrinaggi. Il 75 per cento della popolazione è
composto da etiopi della locale chiesa cristiano-ortodossa. La rimanente
parte è suddivisa tra Musulmani sunniti e Pentay.
Per il loro valore storico, le rovine del 1980 sono state incluse
dallUnesco nella lista dei patrimoni dellumanità.
Nonostante la sua autonomia formale dalla Chiesa copta sia molto
recente, le radici della Chiesa etiope sono antichissime: il Cristianesimo
divenne religione di Stato nel 330, per decisione dellimperatore
Ezana. Alla fine del V secolo, secondo la tradizione, vi arrivarono
i nuovi santi, in fuga dalle terre bizantine per la
loro opposizione alle decisioni di Calcedonia. Per loro impulso,
la cristianizzazione dellEtiopia fece enormi progressi, sovrapponendosi
a preesistenti elementi ebraici, quali la circoncisione e determinati
usi alimentari. Antichi anche i contatti tra Chiesa etiope e Islam.
Secondo Ibn Hisham, biografo di Maometto, quando costui combatteva
contro loppressione della sua tribù, inviò un
piccolo gruppo comprendente la figlia Ruqayya e suo marito Uthman
ibn Affan ad Axum. Al gruppo di profughi il re di Axum, Ashma ibn
Abjar, diede rifugio e protezione, rifiutando le richieste di restituzione
fatte dai Quraysh ostili al Profeta. Questi rifugiati non fecero
ritorno in Arabia fino al sesto anno dellEgira (628) e molti
rimasero in Etiopia, stabilendosi nella regione del Negash, nel
Tigray occidentale.
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