Settembre 2006

Di nuovo in Etiopia l’obelisco di Axum

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Una stele
per la gioia di Nefas
Tonino Caputo - Franco Caimpenta - Giulio Cantoni
 
 

 

 

 

In tutti questi
anni la stele non
è stata affatto
dimenticata dagli etiopici, divenendo un simbolo
dell’identità
nazionale.

 

Chi lo ha visto di recente, sostiene che fa davvero un certo effetto vederlo steso sul suolo, diviso in tre grandi tronconi, circondato da una palizzata con filo spinato, sotto le pensiline che hanno il compito di proteggere l’imballaggio dalle piogge e dagli sbalzi di temperatura che nella stagione autunnale diventano frequenti e molto insidiosi anche nelle regioni dell’Etiopia settentrionale.
Naturalmente, stiamo parlando dell’obelisco restituito dall’Italia alle autorità etiopiche e dell’area nella quale è stato “parcheggiato”: una zona divenuta per la popolazione del luogo una specie di ritrovo abituale, frequentato anche da greggi e da frotte di asini. Il che, secondo alcuni, non guasta, perché il monolito sta meglio qui, nel suo ambiente naturale, che nella romana piazza di Porta Capena, al cospetto dei palazzi della Fao, dove fungeva da spartitraffico annerito dai fumi di migliaia di automobili che solitamente fluivano a ondate nelle quattro direzioni della Città Eterna.
Sebbene di turisti non se ne veda neanche l’ombra, (ed è un gran peccato, perché il sito merita per storia, per tradizione artistica e per le tradizioni popolari), nella città axumita è ancora viva l’euforia che si respirava nel quartiere ecclesiastico di Nefas, sulla necropoli di Mai Heggià, quando esattamente un anno fa si concluse con una toccante cerimonia l’arrivo dalla capitale italiana dei tre tronconi che componevano il celeberrimo obelisco. E proprio alcune settimane fa ha suscitato un’enorme emozione in tutta Etiopia l’annuncio di un funzionario dell’Unesco, Awad Elhassan, secondo il quale ormai è tutto pronto per la sistemazione del terreno al centro del quale dovrà essere rieretto il monumento; il quale, stando ai piani elaborati da un’apposita commissione di esperti, dovrà essere accolto nella zona archeologica, accanto agli altri obelischi, alcuni dei quali sono stati pregevolmente restaurati, mentre atri giacciono, come quello giunto da Roma, in tronconi imballati e protetti nei recinti del territorio axumita. Se le condizioni meteorologiche lo consentiranno, con l’arrivo della stagione secca l’odissea della stele dovrebbe finalmente concludersi.

Com’è noto, infatti, il rimpatrio dell’obelisco, simbolo del patriottismo etiopico (e c’è chi addirittura lo ritiene emblema dell’identità di questo Paese), imposto all’Italia dall’articolo 37 del Trattato di Pace di Parigi nel lontano 1947, ha scritto la parola fine ad una lunga e penosa attesa, scandita da rinvii e da polemiche che in alcuni momenti ha rischiato di compromettere anche le relazioni diplomatiche tra Roma e Addis Abeba.
Sta di fatto che, una volta che le istituzioni italiane hanno deciso di riportare la stele nella terra d’origine, l’operazione tecnica attraverso la quale è avvenuta la restituzione si è rivelata un autentico capolavoro dell’ingegno umano, messo a punto da un personaggio del calibro di Giorgio Croci, ordinario di Tecnica delle Costruzioni alla “Sapienza” di Roma. Essendo l’Etiopia priva di un qualsiasi sbocco al mare, l’unica soluzione fattibile è stata quella del trasporto aereo, con l’impiego di uno dei due soli velivoli in grado di sostenere un simile peso: il jet russo “Antonov 124”. Fra l’altro, le piste degli aeroporti di transito (Addis Abeba) e di scalo finale (Axum) si trovano a quote elevate, in cui l’aria, più rarefatta, può creare seri problemi in fase di atterraggio. Il jet russo, che in condizioni normali è abilitato al trasporto massimo di 120 tonnellate di carico, per il caso specifico era stato calcolato che non ne potesse superare le 60, mentre i tronconi della stele pesavano 75 tonnellate ciascuno.
Pertanto è stato necessario rimuovere le protezioni d’acciaio delle imbracature, sostituirle con altre in leghe più leggere, il che ha consentito di ridurre il peso del blocco più consistente di un buon dieci per cento. Come se ciò non bastasse, il rischio peggiore riguardava la sicurezza nell’arco dell’intera navigazione, in quanto vi era il rischio reale che lo stesso aereo potesse spezzarsi in volo per via dei vuoti d’aria.
Per superare questi e altri problemi derivanti, l’équipe di Croci aveva elaborato un monitoraggio permanente computerizzato, basato sui sensori che trasmettevano le informazioni a una centralina di raccolta dei dati, la quale, ad ogni minima corrente ascendente o discendente, attraverso un’invasatura elastica, attivava un sistema che compensava le possibili forze vettoriali in grado di danneggiare il velivolo.
E malgrado ciò, una volta giunto a destinazione l’obelisco, i problemi tecnici non sono terminati. Infatti si è aperto un dibattito tra i fautori del piano originale che prevede l’installazione dell’obelisco accanto agli altri reperti presenti nell’area monumentale (particolarmente caldeggiata dagli etiopici) e alcuni archeologi, i quali avrebbero preferito che la grande stele rimanesse distesa sul terreno, proprio come l’aveva rinvenuta negli anni Trenta l’archeologo italiano Ugo Monneret di Villard, il quale all’epoca stava conducendo degli scavi nel territorio di Axum: un monolito alto ventiquattro metri e del peso di 160 tonnellate, che giaceva semiaffondato per terra spezzato in tre parti.

In effetti, la necropoli della città santa di Axum, collocata sotto gli obelischi, è soggetta a crolli e frequenti smottamenti del terreno che potrebbero mettere a repentaglio praticamente tutte le strutture monumentali e i reperti archeologici presenti nel sottosuolo. Proprio per questa ragione una missione Unesco ha stabilito, d’intesa con gli esperti e con le istituzioni etiopiche, che prima delle operazioni di riassemblaggio, da attuare con l’aiuto degli esperti italiani, si dovrà provvedere al consolidamento del terreno con sofisticate tecniche che dovrebbero immettere nelle viscere del terreno sostanze resinose in grado di dare consistenza all’intera area archeologica.
Con la restituzione e il finanziamento delle complesse operazioni di trasporto dell’obelisco axumita, l’Italia ha senza dubbio sciolto un obbligo di natura internazionale. Resta aperto, invece, oltre al problema della “nostalgia” capitolina per l’assenza della stele, un altro problema: quello della valorizzazione turistica e culturale del complesso monumentale del grande recinto di Axum, penalizzato dalla mancanza di infrastrutture adeguate a un patrimonio incommensurabile di civiltà. Quest’area africana, fra l’altro, è destabilizzata in via permanente da guerre (con l’Eritrea) e guerriglie (interne, tribali, di signori della guerra locali), ed è devastata da eventi naturali, quali la siccità e la desertificazione, che impediscono duraturi progetti di sviluppo socio-economico legato alla presenza di visitatori e alla diffusione della conoscenza delle opere d’arte oltre lo stretto ambito degli studiosi e degli archeologi.
Ci sono, infatti, tutta una storia e tutta un’arte da scoprire, dai legami con il dirimpettaio Yemen ai rapporti con l’Arabia felix, alle manifestazioni artistiche della civiltà nilotica, fino all’ispirazione che i reperti di Axum hanno esercitato in alcuni artisti italiani addirittura del Novecento. Ci sono una lettura e una rilettura dei simboli, dei linguaggi, delle crittografie scolpite o incise sulle facce di ogni stele. E c’è il rammarico che le vicende politiche e militari di questo Paese rendano inaccessibili chissà fino a quando gli obelischi e le altre grandi strutture architettoniche e religiose della civiltà di Axum, dei suoi sviluppi nel tempo, comprese le leggende che storia (lacunosa) e tradizione (biblica, poi templare) hanno fatto giungere fino a noi, come suggerirebbe l’esistenza dell’Arca dell’Alleanza. Ma forse tutto questo contribuirà ad alimentare anche nel Terzo millennio i sogni e le fantasie degli uomini.
La città santa
Axum è una città di 43 mila abitanti dei Tigray, regione settentrionale dell’Etiopia, ai piedi delle montagne di Adua. È stata il centro vitale del regno omonimo, che sorse nel periodo attorno alla nascita di Cristo e declinò verso il XII secolo a causa del nascente Impero etiopico più a sud. È considerata la città santa del Paese e rimane un’importante meta di pellegrinaggi. Il 75 per cento della popolazione è composto da etiopi della locale chiesa cristiano-ortodossa. La rimanente parte è suddivisa tra Musulmani sunniti e P’ent’ay. Per il loro valore storico, le rovine del 1980 sono state incluse dall’Unesco nella lista dei patrimoni dell’umanità.
Nonostante la sua autonomia formale dalla Chiesa copta sia molto recente, le radici della Chiesa etiope sono antichissime: il Cristianesimo divenne religione di Stato nel 330, per decisione dell’imperatore Ezana. Alla fine del V secolo, secondo la tradizione, vi arrivarono i “nuovi santi”, in fuga dalle terre bizantine per la loro opposizione alle decisioni di Calcedonia. Per loro impulso, la cristianizzazione dell’Etiopia fece enormi progressi, sovrapponendosi a preesistenti elementi ebraici, quali la circoncisione e determinati usi alimentari. Antichi anche i contatti tra Chiesa etiope e Islam. Secondo Ibn Hisham, biografo di Maometto, quando costui combatteva contro l’oppressione della sua tribù, inviò un piccolo gruppo comprendente la figlia Ruqayya e suo marito Uthman ibn Affan ad Axum. Al gruppo di profughi il re di Axum, Ashma ibn Abjar, diede rifugio e protezione, rifiutando le richieste di restituzione fatte dai Quraysh ostili al Profeta. Questi rifugiati non fecero ritorno in Arabia fino al sesto anno dell’Egira (628) e molti rimasero in Etiopia, stabilendosi nella regione del Negash, nel Tigray occidentale.

 

   
   
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