Settembre 2006

All’epoca della pirateria mediterranea

Indietro
Schiavi bianchi
padroni saraceni
Ada Provenzano - Carmen Valentini - Domenico Franza
 
 

 

 

Roxelana forse
era una schiava ucraina, forse una siriana comprata al mercato di
Damasco, forse un’italiana
catturata da una nave bucaniera.

 

Ad un certo punto, come nel resto delle coste europee bagnate dal Mediterraneo, si decise di correre ai ripari. E i rimedi adottati consistettero sostanzialmente nella militarizzazione soprattutto delle fasce tirreniche, ioniche e adriatiche dell’Italia meridionale, con la costruzione delle torri di vedetta e di primo impatto con le orde saracene che, sopraggiungendo all’improvviso, erano specializzate nel saccheggio e nella cattura di uomini, donne e bambini, da vendere poi sui mercati della carne umana del Vicino Oriente e dell’Africa del Nord, fino in Marocco e in Algeria.
Certo, fu una storia di reciproche violenze, perché sull’altro fronte neanche gli scorridori europei furono da meno quanto ad attacchi alle città costiere del Maghreb e del Mashrek, cioè dei due bacini, occidentale e orientale, del Mare Nostrum.
Ma la frequenza degli assalti e degli abbordaggi ai danni di città e di navigli di Stati del Vecchio Continente (ma non solo) diffuse il terrore ben più profondamente che nelle terre della parte avversa. “Mamma li turchi!” fu allora grido di allarme e di paura, e in seguito metafora della disperazione di intere comunità: tant’è che ebbero origine per queste ragioni i doppioni di paesi, con le marine abbandonate e con i trasferimenti in aree montane o altocollinari, più facilmente difendibili.

Naturalmente, i numeri del dare e dell’avere, cioè dei neri resi schiavi dai bianchi e dei bianchi finiti schiavi nelle terre dei neri, sono squilibrati, a svantaggio delle popolazioni africane che subirono a lungo gli oltraggi della cattura, dei trasferimenti in terre sconosciute, della vendita e della definitiva privazione della libertà.
Ma la storia, ripetiamo, non fu a senso unico, perché si sviluppò nelle due direzioni: ci furono padroni di pelle scura di schiavi di pelle chiara. Forse è il caso di ricordare, in questo contesto, la storia dei Giannizzeri, gli eccellenti soldati al servizio dell’Impero Ottomano, nel primo esercito regolare della storia moderna: si trattava di bambini di origine cristiana, generalmente rapiti e trasferiti a Costantinopoli, resi musulmani ed educati all’arte della guerra dai generali dei Sultani (o dai generali tedeschi assoldati a questo fine dai Sultani della Sublime Porta).
Ed è anche il caso di ricordare Robinson Crusoe, il quale subì due comuni calamità tra quelle che trecento anni fa capitavano agli uomini di mare britannici: una prima volta venne catturato dai trafficanti di schiavi di Barberia, ma fortunatamente riuscì a fuggire da quella vita di «schiavo disgraziato» in Marocco. In seguito naufragò su un’isola deserta e divenne egli stesso padrone del suo schiavo nero Venerdì (Man Friday). Come ricorda Giles Milton nel suo libro «White Gold (Oro bianco). La straordinaria storia di Thomas Pellew e il milione di schiavi europei del Nord Africa», recentemente pubblicato a Londra, censimenti storici da parte di avvocati alla ricerca di compensi per danni hanno calcolato che dodici milioni di schiavi neri percorsero il “passaggio intermedio” dall’Africa all’America Latina e al Nord America, fino al giorno in cui l’abolizione della schiavitù votata in Gran Bretagna nel 1834 non venne messa in atto con un blocco operato usando il venticinque per cento della Royal Navy. Un numero simile venne “esportato” da mercanti di schiavi arabi dalla costa orientale africana verso l’Arabia. Milioni furono trasferiti attraverso il deserto del Sahara in direzione dell’Africa settentrionale, dove divennero un’inesauribile fonte di soldati schiavi. D’altro canto, nordafricani musulmani prigionieri erano ai remi delle galee europee cristiane nel Mediterraneo, divenuto progressivamente una barriera tra la Croce e la Mezzaluna, nello stesso momento in cui cessò di essere il centro del mondo classico.
Anche la stessa Africa, però, “importava”, e dal 1500 fino al 1816 oltre un milione di europei furono resi schiavi. Miguel de Cervantes, ad esempio, al ritorno da Lepanto, venne catturato, fu schiavo ad Algeri per cinque anni e avrebbe raccontato le sue atroci peripezie nel Don Chisciotte. Soprattutto per via del fatto che corsari europei traditori fornivano agli schiavisti di Marocco, d’Algeria e di Tunisia le novità della tecnologia marittima, come le vele moderne al posto delle galee che permisero loro di salpare verso l’Oceano Atlantico. In interi villaggi costieri in Cornovaglia, in Irlanda, in Islanda, e addirittura nell’America settentrionale, sia le attività e il commercio marittimo sia gli abitanti, uomini, donne e bambini, divennero sempre più a rischio.

Perfino il Governatore della Carolina nel New England fu catturato e reso schiavo nel 1684. La prima guerra combattuta dagli Stati Uniti appena divenuti indipendenti con i loro nuovi Marine Corps risale al rifiuto di usare l’“appeasement” in tributi e doni in armi che gli Stati europei erano soliti concedere. Essi, invece, nel 1803 lanciarono un’invasione per porre fine agli assalti e ai saccheggi dei pirati alle loro navi. Sfortunatamente la “Philadelphia”, a trentasei cannoni, all’epoca la più grande nave da battaglia degli Stati Uniti, si arenò nel porto di Tripoli mentre inseguiva la sua preda, e i 130 membri dell’equipaggio furono presi e resi schiavi. Un’audace incursione stile commando, però, distrusse la nave catturata, Tripoli venne bloccata e un mezzo anfibio sbarcato a Derna persuase il Bey di Tunisi a firmare un Trattato nel 1805. Il che pose fine sia ai tributi sia agli attacchi da parte degli schiavisti alle navi statunitensi, anche se ci vollero ancora sessantamila dollari di riscatto per liberare i membri dell’equipaggio della “Philadelphia” divenuti schiavi.
Ciò spronò gli europei inclini alla pacificazione ad emulare gli americani. Allora i giorni della schiavitù divennero contati. Nel 1816 sir Edward Pellew guidò una flotta britannica per metter fine al commercio degli schiavi nell’Africa settentrionale, cosa che era parte del nuovo ordine mondiale stabilito dal Congresso di Vienna. Al Bey di Algeri venne inviato un ultimatum, che egli dileggiò. Ne seguì una sanguinosa battaglia, che durò un giorno intero. La vittoria britannica assicurò la liberazione di tremila schiavi europei e la rinuncia al commercio di esseri umani in Algeria, in Tunisia, in Tripolitania e in Marocco. E questo finalmente realizzò la rivendicazione contenuta in quello che è il vero inno nazionale britannico, “Rule Britannia”: «Rule Britannia, Britannia rules the waves / Britons never never will be slaves».
L’ammiraglio Pellew era un discendente collaterale dell’eroe di White Gold. L’undicenne Thomas Pellew era al suo primo viaggio sull’imbarcazione di suo zio, di ritorno dalla consegna di un cargo di sardine della Cornovaglia a Genova, quando nel 1715 venne catturato dai corsari del marocchino Sallé. La nave e l’intero equipaggio furono trasferiti alla corte del Sultano Moulay Ismail, nella città imperiale di Meknes. Il capitano e numerosi altri marinai furono letteralmente ammazzati di lavoro alla costruzione del gran palazzo di Moulay, la cui ambizione era di far apparire Versailles come una semplice villetta di periferia. Thomas, invece, fu istruito per il lavoro alla Corte, dopo essere stato dietro bastonatura delle piante dei piedi convertito all’Islam a 16 anni, previa pubblica circoncisione; gli fu anche fatta sposare una schiava spagnola, scelta per lui dal Sultano che si deliziava di questi suoi «programmi di allevamento».
In seguito, venne nominato Guardiano dell’Harem Imperiale, che era composto da ben quattromila concubine, molte delle quali di origini europee. Moulay manteneva la sua supremazia facendo ricorso al terrore, che includeva la tortura e l’improvvisa – o prolungata – morte. Si divertiva a montare a cavallo e, con lo stesso agile movimento, a decapitare lo stalliere. Thomas fu costretto ad assistere a Governatori segati per lungo a metà, a capriccio e quotidianamente, e addirittura ad esecuzione sommarie ordinate di ora in ora.
Riuscì comunque a sopravvivere, fino a diventare un comandante dell’esercito di schiavi neri nelle guerre contro le insurrezioni nelle Montagne dell’Atlante, e a prender parte alla spedizione transahariana del 1731-32 con trentamila uomini e sessantamila cammelli fino al fiume Senegal, da cui si fece ritorno con una moltitudine di schiavi africani e persino francesi! Ci avrebbe messo ventitré anni prima di riuscire a fuggire e a far ritorno in Inghilterra, al suo terzo tentativo. Ma i genitori non vollero riconoscere questo “moro” di ritorno.
Thomas Pelew rivela tutta l’intraprendenza di Robinson Crusoe nell’evadere dal mondo tenebroso della schiavitù come nel divenire colonizzatore della propria isola deserta. Nelle pagine del suo diario, poi pubblicato, però, non ci racconta se l’umile garzone di cabina elevato a cortigiano e a generale – pur rimanendo schiavo – subì il medesimo destino toccato al Gulliver di Jonathan Swift al suo ritorno a Bristol dall’isola strana ma culturalmente superiore di Houyhnhnm. Chissà se anche Pellew, al modo di Gulliver, non riusciva più a sopportare la volgarità, le cattive maniere e la puzza di alcuni dei suoi compatrioti… Comunque, proprio il fatto che Giles Morton non renda “White Gold” un’ovvia parabola della nostra condizione attuale incoraggia ancor di più a ricercarvi non difficili parallelismi.
Uno dei quali potrebbe riguardare la posizione della donna nella società dell’epoca della schiavitù e in quella contemporanea. Per avere conclamate notizie storiche, basta spostarsi di latitudine, e gettare uno sguardo all’interno del Serraglio, nei giorni gloriosi dell’Impero Ottomano, quando il regalo di una donna bellissima, (europea, magari dagli occhi celesti o dai capelli biondi o rossi), catturata in un villaggio costiero o su un veliero in navigazione era ritenuta un’attenzione della massima sensibilità.

Vicende di questo genere si verificarono soprattutto a Costantinopoli, nell’harem del Sultano guardato a vista da eunuchi guidati da un Capo Nero (generalmente, un nubiano) che rappresentava il non-sesso tra i mondi maschile e femminile, e che dunque influiva sull’uno o sull’altro a seconda delle convenienze, dei margini di potere e del tipo di alleanze che poteva instaurare.
Era accaduto dopo la cacciata dei musulmani dalla Spagna. Da allora, i Sultani (bambini o psichicamente tarati) non avevano più guidato gli eserciti in battaglia. Avevano preferito ritirarsi fra le più confortevoli pareti dell’harem. Trascurando gli affari pubblici, avevano smarrito anche la capacità di governare. Per queste ragioni, in modi diversi, le Sultane, pur dal loro reclusorio che le isolava dal mondo esterno, avevano esercitato un’influenza crescente nelle nomine dei Primi Ministri e dei dignitari di Corte, facendo affidamento sul tornaconto personale, più che dei meriti altrui, ed esercitando la pratica della corruzione.
Non c’era stato Impero che non avesse sperimentato l’ascendente segreto o esplicito di qualche donna leggendaria, da Cleopatra alla Pompadour e all’Imperatrice Vedova della Cina, Jungshu. Ma nessun Paese più della Turchia aveva ascritto un potere femminile così assoluto. Dalla loro fastosa prigione le donne schiave preferite dal Sultano avevano piegato al proprio volere la Cancelleria di Stato, e grazie alla complicità del Capo Nero degli eunuchi avevano blandito vassalli, stretto intese con Cancellerie europee, tessuto intrighi, annientato nemici.
Era stato durante il regno di Solimano, quando l’Impero era al culmine della potenza, che una schiava favorita, Roxelana, aveva fatto trasferire l’harem dal Vecchio Palazzo a Topkapi, avvicinandolo al cuore del potere. Il Vecchio Palazzo subito dopo sarebbe diventato Eski Serai, il lugubre Palazzo delle Indesiderate o Casa delle Lacrime, destinato ad accogliere in segregazione perpetua gli harem dei Sultani defunti.
Roxelana forse era una schiava ucraina, forse una siriana comprata al mercato di Damasco, forse ancora un’italiana catturata da una nave bucaniera; ma senza dubbio una straordinaria stratega e un autentico genio della politica. Aveva iniziato la scalata al potere signoreggiando l’harem, diventando la favorita di Solimano, che la chiamava Hurrem, Colei che Ride, e che ai suoi capelli fulvi dedicava splendide poesie, mentre il popolo la definiva Jadi, la Strega che aveva espugnato il cuore di un potente del mondo.
La nascita di un figlio maschio l’aveva poi elevata al rango di donna più potente nella gerarchia dell’harem, poiché era diventata Sultana Validé, vale a dire madre del futuro Sultano. Ma di fatto, aveva primeggiato dal giorno in cui si era fatta sposare da Solimano: il matrimonio non aveva avuto precedenti nella storia della dinastia ottomana.
Tenera col marito, con il quale corrispondeva in versi, fu spietata con chiunque intralciasse il suo potere. Fece strangolare nel sonno Ibrahim, consigliere e fido compagno d’armi di Solimano, che contrastava l’ingerenza dell’harem negli affari di Stato; ordì una congiura contro il figlio di primo letto del Sultano, inducendo questi ad ucciderlo e a portarne il rimorso per tutta la vita; esiliò ulema e alti funzionari, estromise dignitari, emarginò cortigiani. Quando morì, dopo trentadue anni di dominio incontrastato, il Regno delle Donne Schiave, che proprio lei aveva inaugurato, proseguì senza soluzione di continuità.
Le subentrò la veneziana Baffa, che prese il nome di Safiyyè. Era stata fatta prigioniera da pirati turchi mentre si recava a Corfù, dove il padre, della nobile famiglia dei Baffo, era governatore. Venduta all’harem di Murad III, per spirito di rivalsa decise di procurare speciali vantaggi commerciali alla Serenissima e riuscì a dissuadere il sovrano dall’attaccare con la sua flotta i vascelli della marineria lagunare anche quando questi assalivano le navi ottomane. Il balivo veneto e l’ambasciatore di Caterina de’ Medici comunicavano con lei tramite Kira, un’ebrea che, fingendosi merciaia, portava al Serraglio gioielli, tessuti, profumi e messaggi. In seguito, sedotta dai doni della regina Elisabetta, Baffa prese a cuore gli interessi dell’Inghilterra. Tenne con la stessa sovrana una corrispondenza personale, circostanza che per la legge di Topkapi equivaleva all’alto tradimento. Uno dei suoi figli fu sultano col nome di Mehmed III. Era al massimo del fulgore, quando morì misteriosamente strangolata.
Venne il tempo della greca Kösem, che imperò per mezzo secolo, preferita da Ahmed I, protettrice dei successori Mustafà I e Osman II, padre e figlio, il primo impazzito, il secondo vittima di una congiura di palazzo, e dispotica dominatrice di Murad IV e in seguito di Ibrahim I, l’uno ucciso dagli stravizi, l’altro divorato dalla lussuria e dalla demenza.
Kösem tramò, fece uccidere, confinò Principi in prigioni dorate e harem nella Casa delle Lacrime. Adoperò ogni astuzia, consumò ogni delitto in nome del potere. Fino al giorno in cui l’esasperato corpo dei Giannizzeri si ribellò. La Sultana-Schiava fu inseguita, scovata in un ripostiglio, denudata e torturata. «Secondo la Legge», sentenziò il Capo Nero degli eunuchi, facendola scaraventare sulle rocce dagli spalti di Topkapi: «la donna è un gradino più in basso dell’uomo».
Salì al trono Mehemed IV. Aveva solo sette anni. Sua madre, Tuhran, la nemica silenziosa e ostinata di Kösem, assunse di fatto il controllo dell’Impero. Era una donna riservata e prudente, amata dalla corte e dall’harem, rispettata dai Giannizzeri. Morì poco più di otto anni dopo, chiudendo l’epoca delle Sultane-Schiave. Al marito pazzo e sterile, Ibrahim, aveva dato chissà in virtù di quale miracolo ben sei figli.
Sultane, dunque regine, ma nel recinto invalicabile ed esclusivo dell’harem. Una potenza fine a se stessa, che comunque non riguardò mai analoghe vicende di schiave oltre i confini della Turchia, né storie di donne catturate e giunte nei Paesi europei e occidentali in genere. Qui, cristianizzate volenti o nolenti, finirono per trasformare i propri nomi e cognomi, appunto, europeizzandoli, e dunque fu loro comune destino il dissolversi nel magma delle genti e delle storie continentali.
Tracce di nomi arabi, turchi, saraceni sono visibili ancora oggi in quelli italianizzati, ad esempio; mentre dalla metà del secolo XIX è andata scemando la paura degli sbarchi per rapina, per stupro, per cattività. Altri sbarchi oggi sono registrati dalle cronache, e sono le punte di iceberg di popolazioni spinte all’avventura sul mare dalla fame, dalle malattie, dalle guerre. Otranto non corre più il pericolo del saccheggio e del dominio.
L’immagine più clamorosa che riguarda la città dei Martiri è quella di alcuni anni fa, del giorno in cui una nave da incubo, stracarica di uomini dalle stive alla coperta, ai pennoni, si presentò alle prime luci dell’alba al cospetto del porto otrantino, reclamando il diritto al pane, al lavoro, alla vita. Erano albanesi. E gli albanesi, insieme con altre piccole etnie della dirimpettaia costa adriatica, in tante terre del Sud d’Italia, dal tempo di Scanderbeg sono chiamati anche “Schiavoni”. Un ricorso storico, ma non del tutto alla rovescia. Eclissatisi i Bey, svanite le navi da corsa, è rimasto, e non proprio in filigrana, l’orrore del commercio di carne umana, malamente celato dietro gli esilii volontari degli emigranti in cerca di fortuna. È la resa degli antichi saraceni. Ma è anche la nostra più drammatica sconfitta.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2006