Sembra pietra
tra la pietra
il gatto bianco raggomitolato in un angolo. Sembra che abbia tutto
il tempo che ha la pietra, che abbia visto la storia
passare, che sia
rimasto lì,
immobile, ad ascoltare il vociare delle generazioni.
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Certe volte, certe sere, certe notti, nel buiore, sembra che non
ci sia nessuna differenza tra la pietra di un campanile e laria,
il cielo, il vuoto, sembra che non ci sia nessun discrimine, nessuna
diversità nella sostanza, niente che possa far distinguere
gli elementi, niente che separi le sfere della finitudine dellumano
da quelle dellinfinito, delleterno, delluniverso
senza tempo.
Questo sembra, certe sere, certe notti, nel buiore, nelle piazze,
dentro i vichi, nelle corti, quando sembra di pietra anche la luna,
quando sembrano di pietra i volti dei passanti, i nugoli di colombi
sopra i cornicioni, e di pietra sembrano i silenzi e le parole,
e di pietra sembrano i rintocchi dorologio, e sembrano di
pietra i pensieri, le memorie.
Forse il senso originario e segreto inconscio del
barocco del sud del sud è nella tensione di sembrare natura:
non potendo esserlo almeno di sembrarlo: corpo fiore uccello foglia
albero. È nellansia di farsi teatro, messinscena, delle
forme con cui il mondo si presenta agli occhi stupefatti di avventori
che aspettano da simboli di pietra risposte che la vita non può
dare. Oppure è nella pretesa di disarmare il tempo, dingannarlo
con forme vanitose, di strabilio, con la seduzione di unapparenza
che stupisce, con la promessa di una morte consolata dalla fissità
di uno splendore.

Così dietro lo sfolgorio delle facciate, dei portali, dei
balconi, nelle maglie che tessono i rosoni, nei vortici di luce,
nelle pieghe dei fregi, nella forza superba delle teste di leoni,
nellarmonia di quelle sculture dangeli che nel Seicento
cantavano «tenendo lontana la peste che infuriava sul Reame»,
1 tra le braccia di fanciulle protese a stringere laria, in
tutta lallegoria dellultraterreno, nellimmobilità
che intende tradurre il sempiterno, nella durezza della pietra che
dichiara la propria guerra al tempo, si annida lidea costante
e quotidiana della corrosione, dello sgretolamento, della morte.
Allora forse il senso è tutto in quella frase incisa nella
pietra del campanile del Duomo che Giuseppe Zimbalo alzò
per settantadue metri, tra il milleseicentossessantuno e lottantadue,
per incarico del vescovo Luigi Pappacoda. Forse la verità
che si piega umilmente alla realtà di ogni esistenza è
in quella frase che dice: quae lapis loquor accipe ni lapis es.
Se non sei pietra, accetta ciò che io pietra ti dico.
La frenesia, la vitalità, lesuberanza, lestasi,
la meraviglia, la magia, lansia di stupire, di stordire, il
rutilare , il vorticare delle forme, dicono che in quella festa
di lucori, in quella ostentazione dartificio, in quella scultura
che simpossessa dello spazio, in quella staticità sfrontata,
nellebbrezza delle sensazioni, in tutto questo e poi nella
geometria che aspira allassolutezza di una perfezione, nelliconografia
che vuole essere simbolo di potere senza limitazioni, non cè
altro che il vuoto della fine, la voragine dellinconoscibile.
Così la pietra dice che prima della sua sontuosità,
del suo splendore, cerano le nuvole, le rondini, le storie
anonime di ordinarie esistenze.
Dice che dopo la sua sontuosità, il suo splendore, ci saranno
ancora le storie di ogni giorno, nuvole nere come un malaugurio
o bianche come lenzuola stese sopra le terrazze, rondini che vanno
e vengono come le stagioni.
Il contrasto tra la forma e la sostanza, la differenza tra il visibile
e il segreto, il barocco di questo sud di confine, conclusivo, lo
esprime con la differenza tra esterno e interno. La chiesa che con
la sua facciata mostra una esuberanza (una tracotanza, quasi), dentro
diventa sobria, umile, consueta. (Basilica di Santa Croce. Un superiore
dellordine dei conventuali minori che predica. Devoti che
si contano sulle dita di una mano. I malati escono dalla chiesa
perché non possono guarire. Escono i poveri perché
non possono sperare. Escono i borghesi che non diventeranno aristocratici.
I nobili vorrebbero altro: spettacolo, attrazione, salotto. Sbadigliano,
sannoiano. Escono. Rimane la cattedrale deserta. Il superiore
lascia il suo inutile pulpito. Sulla soglia della chiesa alza gli
occhi verso il cielo azzurro. È una scena di Giuseppe Desa
da Copertino di Carmelo Bene.

Ad Aldo Bello che gli chiedeva se Santa Croce, con una gran facciata,
e quasi senza fabbrica, era un imbroglio, Carmelo Bene aveva risposto
così: «I leccesi non imbrogliano. La chiesa non cè
perché non ci deve essere. Dio non esiste e loro lo sapevano
molto bene che nellabitazione del Dio-inesistente, cioè
del vero Dio, che tutti o sempre più pochi
venerano non cera nessuno. È giusto che abbiano una
sublime facciata e che dietro ci sia, coerentemente, il nulla».
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Ma non la facciata dimostra lesistenza di Dio. Lesistenza
di Dio è dimostrata dalla mente che ha pensato la facciata,
dalle mani che lhanno disegnata, dal sudore di chi lha
costruita, dagli occhi che da secoli la guardano, dalla meraviglia
che genera quellopera, dalla pietra trasformata in una poesia,
nella favola, raccontata dai versi di Vittorio Pagano, che «davvero
hanno un sangue ed una carne / gli angeli buffi e le cariatidi aspre
/ della facciata storica»).
È ristretto lo spazio antistante Santa Croce. Qualsiasi posizione
fa convergere sempre lo sguardo verso un solo punto, lasciando gli
altri punti dislocati ai margini della visione. Così gli
occhi non riescono a comprendere la facciata per intero. Ma quella
facciata ha un senso complessivo; è una narrazione con una
trama e un intreccio, che deve dispiegarsi compiutamente, anche
se possono essere differenti i tempi e i modi di lettura, anche
se si può partire da differenti situazioni e giungere a differenti
interpretazioni, anche se incipit ed explicit sono condizioni che
variano da lettore a lettore. Allora gli occhi si sforzano di percepire
tutta la superficie possibile: si spalancano, roteano. Ed è
a questo punto che si avverte la sensazione che la facciata prima
sinnalzi e poi sincurvi, diventi come una volta sotto
quella del cielo. Diventi unaltra volta di cielo.
Santa Croce sembra che racconti linfinito. Che di esso voglia
darne una rappresentazione. Che intenda figurare lassoluto.
Attribuire visibilità allinvisibile, plasticità
allaria, una densità allimpalpabile.
Sembra che voglia essere espressione dellessenziale nonostante
la ridondanza dei suoi motivi, di una linearità di pensiero
nonostante il viluppo degli elementi, costituirsi come metafora
di una continua trasformazione nonostante lapparente immutabilità
della pietra.
Santa Croce ha tutte le forme: quella della concretezza e quella
dellastrazione, la verticalità, lorizzontalità,
quelle della certezza e quelle dellinterrogazione, quelle
del sapere e dellamore.
Santa Croce è incantamento, fascinazione; è lincantamento
e la fascinazione di un miraggio. Sembra che le sculture a un certo
punto abbandonino la facciata e si muovano verso luomo, gli
vadano incontro.
Santa Croce ha unesteriorità che sbalordisce, che rapisce
quasi, dalla condizione del reale.
Per ritornare al reale occorre rifugiarsi allinterno. Là
dove il sacro è a misura di ogni piccolo uomo.
Oltre ogni storia e interpretazione, al di là dogni
teoria darchitettura e pratica di costruzione, il barocco
salentino è un elemento della terra. È come lulivo,
una torre di scolta, una distesa di grano, uno scoglio di mare,
è come una preghiera, una superstizione, unedicola
votiva ai crocicchi delle strade,come gli affreschi ingenui di un
calvario di paese.
Come il gatto bianco nella piazza del Vescovado.
Sembra pietra tra la pietra il gatto bianco raggomitolato in un
angolo. Sembra che abbia tutto il tempo che ha la pietra, che come
le sculture abbia visto la storia passare, che sia rimasto lì,
immobile, ad ascoltare il vociare delle generazioni che passano,
mentre il mondo resta sempre lo stesso, sotto il cielo.
Sembra pietra tra la pietra luomo di un altro colore con il
giornale sulla testa per lillusione di un riparo dal sole
che frusta la carne. Viene da paesi senza barocco e senza cattedrali,
prega e bestemmia in altra lingua le sue divinità che hanno
un altro nome, non conosce la storia di quella pietra e non sa leggere
i suoi segni, ma guarda le forme, probabilmente avverte una sensazione
di appartenenza, anche se fragile, anche se incerta.
Allora occorrono sguardi diversi per questo barocco. Forse solo
gli sguardi diversi, liberi dagli schemi dellinterpretazione
tradizionale e vulgata possono consentirgli di vivere anche in questo
millennio. Come ogni opera darte, in fondo. Che rigenera i
suoi significati ogni volta che qualcuno si pone in relazione con
essa. Che sa comprendere e dire quello che ciascuno vorrebbe sentirsi
dire, semplicemente perché urla o bisbiglia le parole che
gli arrivano come urlo o bisbiglio di una voce o di un cuore.
Allora occorrono sguardi diversi per questo barocco: che esprimano
la ribollenza del tempo presente di ogni presente ,
a volte un agio e a volte un disagio di esistere, che siano la sintesi
di una confluenza di culture, che attribuiscano alla sua galassia
di simboli significati nuovi, o rinnovati, comunque ulteriori, cogenti,
pregnanti.
La magia di questo barocco probabilmente è generata dalla
capacità (misteriosa?) di farsi ascoltare, di trasformarsi
in continuazione sotto lo sguardo, di mescolare il buio e la luce,
la natura e lorpello, di essere manoscritto emerso da un profondo
passato e proiezione verso il futuro, quasi una profezia.
Ma soprattutto: di essere fastosità sbalordente e semplicità
disarmante; emblema di fede celebrativa ed espressione di una religiosità
silenziosa e viscerale.
Tra turisti colorati che vagano tra le navate, una donna nerovestita
piegata nellombra sgrana un rosario consunto dalle dita (o
sono le dita consunte dal rosario?).
Piazza Duomo è la rappresentazione della levità. È
il luogo dove la pietra perde peso, si alza verso il cielo quasi
come svaporasse, sembra un orizzonte lontanante, è una modulazione
di decorazioni, una fantasia armoniosa di volute, uno slittamento
ondoso di prospettive, una nuvolaglia di decorazioni.
Anche qui, in piazza Duomo, la cifra che connota tempo e spazio
è quella della illusorietà. Davvero, qui, il mondo
è soltanto una parvenza, soltanto una creazione di ombre,
una rilucenza che pare senza fonte. Davvero è tutto una sembianza.
Una condizione sinestetica, ossimorica.
Qui, in piazza Duomo, bisogna andarci una sera che piove. E guardare
per terra, non in alto. Tutto lalto si riflette nello specchio
della pioggia. Si duplicano le facciate, le statue, le colonne;
il campanile disegna un altro campanile, non di pietra ma di rivoli,
di trascoloranze tremolanti.
Piazza Duomo non è di una bellezza che stupisce. È
di una bellezza che si aspetta lungo ogni strada, dietro ogni angolo;
è di una bellezza morbida, rassicurante, serena.
Qui la pietra del barocco è come una lingua madre, un codice
genetico, un canto popolare conosciuto da sempre.
È la sintesi essenziale di una città. È il
punto di confluenza di generazioni e di razze, di fedi e di linguaggi,
di volti e di occasioni.
Piazza Duomo si abita. Anche se per un solo istante. Anche da forestieri.
Si abita. Perché ha una struttura che accoglie, permette
di sostare, di sentirsi protetti dagli sguardi dei propilei.
Fu cortile di mercanti e bottegai. Scriveva il curato Giulio Cesare
Infantino nella sua Lecce Sacra stampato per i tipi di Pietro Micheli
nel 1634: «Oltre lessere tutto serrato attorno di mura
di passi sessanta di lunghezza, e quaranta di larghezza, con botteghe
intorno di molte maestranze» in quel grandissimo cortile «ogni
anno la prima domenica del mese di novembre si fa una fiera principale,
e vi concorrono mercanti da diverse parti del regno con diverse
sorti di mercantie». 4
Ora luomo di un altro colore offre ai passanti le sue collanine
fosforescenti.
Ora come allora, ancora, la pietra guarda le storie passare.
Qui, in questo sud del sud, il barocco è una condizione dellanima.
È lidentità del tempo scolpita nella pietra,
quasi con la pretesa di eternarsi. In quelle figure dellidentità
ci riguardiamo per cercare di rintracciare nella loro espressione
il senso del tempo che è stato prima del tempo che adesso
viviamo.
Ci rispecchiamo noi che abitiamo questa terra da sempre per comprendere
quali sono gli elementi che passano di generazione in generazione,
per secoli, come uneredità lasciata dallarte
e dalla natura; si rispecchia laltro, lospite che viene
da lontano, per comprendere i nostri modi di costruire simboli nei
quali custodire il senso della realtà e dellimmaginario.
Forse è difficile dire con assoluta certezza se laltezza
di un campanile è la metafora di un dominio del cielo sulla
terra oppure se è metafora dellansia di portare la
terra verso il cielo. Oppure se è laffermazione che
terra e cielo sono due sponde che il campanile di pietra, come un
ponte di pietra, congiunge e quindi rende conosciute, o almeno conoscibili.
(In un racconto che finge la lettera di un esiliato al suo Signore,
cè scritto: «Dovresti vederli, Signore, i campanili.
Non hanno contenimento, non hanno misura. Lo sguardo ha difficoltà
a controllarli. Slittano. Sfuggono. Si fanno sempre più alti.
Proiettano unombra obliqua che si spande, si slarga, dilaga,
si rovescia sul suolo come pioggia scura. Sbalordiscono. Sembrano
il simbolo di una disperata illusione, o peccati di superbia come
la torre nella pianura di Sennaar, forme vertiginose di un desiderio
insano di conquistare il cielo».)
La chiesa del Crocefisso, a Galatone, è la mediazione tra
la terra e il cielo. È il luogo della preghiera umile, quotidiana.
Qui la spiritualità si fa terrestre, contadina. Ancora in
questi tempi. Qui la storia è soltanto uno sfondo sfumato.
La condizione che prevale (sopravanza, quasi) è quella del
miracolo, della fede innocente e stupefatta, del senso inafferrabile
delleterno che si manifesta.
Tutto anche il silenzio, anche la penombra riconduce
al miracolo dellorigine, ad unimmagine di Cristo che
solleva le braccia, poi ad un crollo della chiesa mentre si alza
lalba del 2 di febbraio 1682, e quellimmagine che si
frantuma mentre la lampada ad olio rimane ad ardere tra le rovine.
Ma si narra che un sacerdote di nome Giuseppe Ecclesia raccolse
i pezzi dintonaco pittato, che tra le sue mani si ricomposero
senza mostrare nessuna crepa, nessuna frattura.
Non ha clamore questa chiesa barocca, non ha forme di festa. Loro
vale quanto la pietra, il cero votivo, senza differenza. Tutto proviene
da una devozione segreta e sincera.
È il dono di uno splendore per gente di terra; è come
una ricompensa per la fatica, come un sollievo dalla miseria.
Questo è un barocco che lega istintivamente lanima
e il corpo, la fede e la ragione, il cosmo e la radice, la geometria
e lemozione. È un barocco di lirica malinconia, che
dilata i suoi significati e li confonde nella luce che profuma dincenso
e di gigli, che alterna lo slancio delle forme verso il cielo a
unaderenza alle cose di ogni giorno, alle faccenduole del
tempo che si vive.
È un barocco senza ebbrezza, senza sacro fuoco, che risplende
di una religiosità intima, caritatevole, mistica, che prefigura
e spera in una salvezza dal tempo e dalloblio.
È un barocco di paese. È come una poesia in dialetto
che si fa capire soltanto da chi è dentro quella lingua,
da chi ne conosce i segreti delle sillabe.
Allora questo barocco rende prossima una distanza incolmabile; la
sua architettura è, contemporaneamente, inizio e conclusione
di un racconto che la terra fa al tempo e che il tempo fa alla terra,
in una condizione di reciprocità serrata, di coinvolgimento,
dintreccio, con una tessitura di parole e silenzi, di aria
e di sguardi, di nuvole e pietra.
Dice Fernando Manno nelle sue pagine sul barocco: «Esso è
un fatto della terra, una rada del tempo e dellamore. Ci restiamo
impigliati, come lungo le sponde dun fiume le acque fanno
mulinello fra cespugli, sporgenze, appigli». 5
Dice che il barocco salentino è senso, che il suo spirito
è sognante e indefinito, che è un incantesimo della
fissità che va per laria.
Il barocco di questo sud del sud è luminoso, allusivo, ad
un tempo sofisticato e istintivo, incombente e leggero, ha limpronta
della fatalità e del progetto, è prodigioso e consueto.
Allora, certe volte, certe sere, certe notti, nel buiore, nelle
piazze, dentro i vichi, nelle corti, la pietra del barocco ha voci
che dicono di memoria, allo stesso modo, con la stessa intensità
e lo stesso linguaggio pacato, narrante, con cui di memoria dicono
i dolmen e i menhir, le cave di pietra, i muri a secco tra le campagne,
le specchie, i ruderi dei monasteri millenari.
Forse con una differenza, una soltanto: la consapevole ingenuità
dellillusione che il barocco sia stato donato dal cielo, senza
la fatica che ha preteso ogni altra pietra di questo sud del sud.
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