Settembre 2006

Barocco

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Libri di pietra
Antonio Errico  
 
 

 

 

Sembra pietra
tra la pietra
il gatto bianco raggomitolato in un angolo. Sembra che abbia tutto
il tempo che ha la pietra, che abbia visto la storia
passare, che sia
rimasto lì,
immobile, ad ascoltare il vociare delle generazioni.

 

Certe volte, certe sere, certe notti, nel buiore, sembra che non ci sia nessuna differenza tra la pietra di un campanile e l’aria, il cielo, il vuoto, sembra che non ci sia nessun discrimine, nessuna diversità nella sostanza, niente che possa far distinguere gli elementi, niente che separi le sfere della finitudine dell’umano da quelle dell’infinito, dell’eterno, dell’universo senza tempo.
Questo sembra, certe sere, certe notti, nel buiore, nelle piazze, dentro i vichi, nelle corti, quando sembra di pietra anche la luna, quando sembrano di pietra i volti dei passanti, i nugoli di colombi sopra i cornicioni, e di pietra sembrano i silenzi e le parole, e di pietra sembrano i rintocchi d’orologio, e sembrano di pietra i pensieri, le memorie.
Forse il senso originario e segreto – inconscio – del barocco del sud del sud è nella tensione di sembrare natura: non potendo esserlo almeno di sembrarlo: corpo fiore uccello foglia albero. È nell’ansia di farsi teatro, messinscena, delle forme con cui il mondo si presenta agli occhi stupefatti di avventori che aspettano da simboli di pietra risposte che la vita non può dare. Oppure è nella pretesa di disarmare il tempo, d’ingannarlo con forme vanitose, di strabilio, con la seduzione di un’apparenza che stupisce, con la promessa di una morte consolata dalla fissità di uno splendore.

Così dietro lo sfolgorio delle facciate, dei portali, dei balconi, nelle maglie che tessono i rosoni, nei vortici di luce, nelle pieghe dei fregi, nella forza superba delle teste di leoni, nell’armonia di quelle sculture d’angeli che nel Seicento cantavano «tenendo lontana la peste che infuriava sul Reame», 1 tra le braccia di fanciulle protese a stringere l’aria, in tutta l’allegoria dell’ultraterreno, nell’immobilità che intende tradurre il sempiterno, nella durezza della pietra che dichiara la propria guerra al tempo, si annida l’idea costante e quotidiana della corrosione, dello sgretolamento, della morte.
Allora forse il senso è tutto in quella frase incisa nella pietra del campanile del Duomo che Giuseppe Zimbalo alzò per settantadue metri, tra il milleseicentossessantuno e l’ottantadue, per incarico del vescovo Luigi Pappacoda. Forse la verità che si piega umilmente alla realtà di ogni esistenza è in quella frase che dice: quae lapis loquor accipe ni lapis es. Se non sei pietra, accetta ciò che io pietra ti dico.
La frenesia, la vitalità, l’esuberanza, l’estasi, la meraviglia, la magia, l’ansia di stupire, di stordire, il rutilare , il vorticare delle forme, dicono che in quella festa di lucori, in quella ostentazione d’artificio, in quella scultura che s’impossessa dello spazio, in quella staticità sfrontata, nell’ebbrezza delle sensazioni, in tutto questo e poi nella geometria che aspira all’assolutezza di una perfezione, nell’iconografia che vuole essere simbolo di potere senza limitazioni, non c’è altro che il vuoto della fine, la voragine dell’inconoscibile.
Così la pietra dice che prima della sua sontuosità, del suo splendore, c’erano le nuvole, le rondini, le storie anonime di ordinarie esistenze.
Dice che dopo la sua sontuosità, il suo splendore, ci saranno ancora le storie di ogni giorno, nuvole nere come un malaugurio o bianche come lenzuola stese sopra le terrazze, rondini che vanno e vengono come le stagioni.
Il contrasto tra la forma e la sostanza, la differenza tra il visibile e il segreto, il barocco di questo sud di confine, conclusivo, lo esprime con la differenza tra esterno e interno. La chiesa che con la sua facciata mostra una esuberanza (una tracotanza, quasi), dentro diventa sobria, umile, consueta. (Basilica di Santa Croce. Un superiore dell’ordine dei conventuali minori che predica. Devoti che si contano sulle dita di una mano. I malati escono dalla chiesa perché non possono guarire. Escono i poveri perché non possono sperare. Escono i borghesi che non diventeranno aristocratici. I nobili vorrebbero altro: spettacolo, attrazione, salotto. Sbadigliano, s’annoiano. Escono. Rimane la cattedrale deserta. Il superiore lascia il suo inutile pulpito. Sulla soglia della chiesa alza gli occhi verso il cielo azzurro. È una scena di Giuseppe Desa da Copertino di Carmelo Bene.

Ad Aldo Bello che gli chiedeva se Santa Croce, con una gran facciata, e quasi senza fabbrica, era un imbroglio, Carmelo Bene aveva risposto così: «I leccesi non imbrogliano. La chiesa non c’è perché non ci deve essere. Dio non esiste e loro lo sapevano molto bene che nell’abitazione del Dio-inesistente, cioè del vero Dio, che tutti – o sempre più pochi – venerano non c’era nessuno. È giusto che abbiano una sublime facciata e che dietro ci sia, coerentemente, il nulla». 3
Ma non la facciata dimostra l’esistenza di Dio. L’esistenza di Dio è dimostrata dalla mente che ha pensato la facciata, dalle mani che l’hanno disegnata, dal sudore di chi l’ha costruita, dagli occhi che da secoli la guardano, dalla meraviglia che genera quell’opera, dalla pietra trasformata in una poesia, nella favola, raccontata dai versi di Vittorio Pagano, che «davvero hanno un sangue ed una carne / gli angeli buffi e le cariatidi aspre / della facciata storica»).
È ristretto lo spazio antistante Santa Croce. Qualsiasi posizione fa convergere sempre lo sguardo verso un solo punto, lasciando gli altri punti dislocati ai margini della visione. Così gli occhi non riescono a comprendere la facciata per intero. Ma quella facciata ha un senso complessivo; è una narrazione con una trama e un intreccio, che deve dispiegarsi compiutamente, anche se possono essere differenti i tempi e i modi di lettura, anche se si può partire da differenti situazioni e giungere a differenti interpretazioni, anche se incipit ed explicit sono condizioni che variano da lettore a lettore. Allora gli occhi si sforzano di percepire tutta la superficie possibile: si spalancano, roteano. Ed è a questo punto che si avverte la sensazione che la facciata prima s’innalzi e poi s’incurvi, diventi come una volta sotto quella del cielo. Diventi un’altra volta di cielo.
Santa Croce sembra che racconti l’infinito. Che di esso voglia darne una rappresentazione. Che intenda figurare l’assoluto. Attribuire visibilità all’invisibile, plasticità all’aria, una densità all’impalpabile.
Sembra che voglia essere espressione dell’essenziale nonostante la ridondanza dei suoi motivi, di una linearità di pensiero nonostante il viluppo degli elementi, costituirsi come metafora di una continua trasformazione nonostante l’apparente immutabilità della pietra.
Santa Croce ha tutte le forme: quella della concretezza e quella dell’astrazione, la verticalità, l’orizzontalità, quelle della certezza e quelle dell’interrogazione, quelle del sapere e dell’amore.
Santa Croce è incantamento, fascinazione; è l’incantamento e la fascinazione di un miraggio. Sembra che le sculture a un certo punto abbandonino la facciata e si muovano verso l’uomo, gli vadano incontro.
Santa Croce ha un’esteriorità che sbalordisce, che rapisce quasi, dalla condizione del reale.
Per ritornare al reale occorre rifugiarsi all’interno. Là dove il sacro è a misura di ogni piccolo uomo.
Oltre ogni storia e interpretazione, al di là d’ogni teoria d’architettura e pratica di costruzione, il barocco salentino è un elemento della terra. È come l’ulivo, una torre di scolta, una distesa di grano, uno scoglio di mare, è come una preghiera, una superstizione, un’edicola votiva ai crocicchi delle strade,come gli affreschi ingenui di un calvario di paese.
Come il gatto bianco nella piazza del Vescovado.
Sembra pietra tra la pietra il gatto bianco raggomitolato in un angolo. Sembra che abbia tutto il tempo che ha la pietra, che come le sculture abbia visto la storia passare, che sia rimasto lì, immobile, ad ascoltare il vociare delle generazioni che passano, mentre il mondo resta sempre lo stesso, sotto il cielo.
Sembra pietra tra la pietra l’uomo di un altro colore con il giornale sulla testa per l’illusione di un riparo dal sole che frusta la carne. Viene da paesi senza barocco e senza cattedrali, prega e bestemmia in altra lingua le sue divinità che hanno un altro nome, non conosce la storia di quella pietra e non sa leggere i suoi segni, ma guarda le forme, probabilmente avverte una sensazione di appartenenza, anche se fragile, anche se incerta.
Allora occorrono sguardi diversi per questo barocco. Forse solo gli sguardi diversi, liberi dagli schemi dell’interpretazione tradizionale e vulgata possono consentirgli di vivere anche in questo millennio. Come ogni opera d’arte, in fondo. Che rigenera i suoi significati ogni volta che qualcuno si pone in relazione con essa. Che sa comprendere e dire quello che ciascuno vorrebbe sentirsi dire, semplicemente perché urla o bisbiglia le parole che gli arrivano come urlo o bisbiglio di una voce o di un cuore.
Allora occorrono sguardi diversi per questo barocco: che esprimano la ribollenza del tempo presente – di ogni presente –, a volte un agio e a volte un disagio di esistere, che siano la sintesi di una confluenza di culture, che attribuiscano alla sua galassia di simboli significati nuovi, o rinnovati, comunque ulteriori, cogenti, pregnanti.
La magia di questo barocco probabilmente è generata dalla capacità (misteriosa?) di farsi ascoltare, di trasformarsi in continuazione sotto lo sguardo, di mescolare il buio e la luce, la natura e l’orpello, di essere manoscritto emerso da un profondo passato e proiezione verso il futuro, quasi una profezia.
Ma soprattutto: di essere fastosità sbalordente e semplicità disarmante; emblema di fede celebrativa ed espressione di una religiosità silenziosa e viscerale.
Tra turisti colorati che vagano tra le navate, una donna nerovestita piegata nell’ombra sgrana un rosario consunto dalle dita (o sono le dita consunte dal rosario?).
Piazza Duomo è la rappresentazione della levità. È il luogo dove la pietra perde peso, si alza verso il cielo quasi come svaporasse, sembra un orizzonte lontanante, è una modulazione di decorazioni, una fantasia armoniosa di volute, uno slittamento ondoso di prospettive, una nuvolaglia di decorazioni.
Anche qui, in piazza Duomo, la cifra che connota tempo e spazio è quella della illusorietà. Davvero, qui, il mondo è soltanto una parvenza, soltanto una creazione di ombre, una rilucenza che pare senza fonte. Davvero è tutto una sembianza. Una condizione sinestetica, ossimorica.
Qui, in piazza Duomo, bisogna andarci una sera che piove. E guardare per terra, non in alto. Tutto l’alto si riflette nello specchio della pioggia. Si duplicano le facciate, le statue, le colonne; il campanile disegna un altro campanile, non di pietra ma di rivoli, di trascoloranze tremolanti.
Piazza Duomo non è di una bellezza che stupisce. È di una bellezza che si aspetta lungo ogni strada, dietro ogni angolo; è di una bellezza morbida, rassicurante, serena.
Qui la pietra del barocco è come una lingua madre, un codice genetico, un canto popolare conosciuto da sempre.
È la sintesi essenziale di una città. È il punto di confluenza di generazioni e di razze, di fedi e di linguaggi, di volti e di occasioni.
Piazza Duomo si abita. Anche se per un solo istante. Anche da forestieri. Si abita. Perché ha una struttura che accoglie, permette di sostare, di sentirsi protetti dagli sguardi dei propilei.
Fu cortile di mercanti e bottegai. Scriveva il curato Giulio Cesare Infantino nella sua Lecce Sacra stampato per i tipi di Pietro Micheli nel 1634: «Oltre l’essere tutto serrato attorno di mura di passi sessanta di lunghezza, e quaranta di larghezza, con botteghe intorno di molte maestranze» in quel grandissimo cortile «ogni anno la prima domenica del mese di novembre si fa una fiera principale, e vi concorrono mercanti da diverse parti del regno con diverse sorti di mercantie». 4
Ora l’uomo di un altro colore offre ai passanti le sue collanine fosforescenti.
Ora come allora, ancora, la pietra guarda le storie passare.
Qui, in questo sud del sud, il barocco è una condizione dell’anima. È l’identità del tempo scolpita nella pietra, quasi con la pretesa di eternarsi. In quelle figure dell’identità ci riguardiamo per cercare di rintracciare nella loro espressione il senso del tempo che è stato prima del tempo che adesso viviamo.
Ci rispecchiamo noi che abitiamo questa terra da sempre per comprendere quali sono gli elementi che passano di generazione in generazione, per secoli, come un’eredità lasciata dall’arte e dalla natura; si rispecchia l’altro, l’ospite che viene da lontano, per comprendere i nostri modi di costruire simboli nei quali custodire il senso della realtà e dell’immaginario.
Forse è difficile dire con assoluta certezza se l’altezza di un campanile è la metafora di un dominio del cielo sulla terra oppure se è metafora dell’ansia di portare la terra verso il cielo. Oppure se è l’affermazione che terra e cielo sono due sponde che il campanile di pietra, come un ponte di pietra, congiunge e quindi rende conosciute, o almeno conoscibili.
(In un racconto che finge la lettera di un esiliato al suo Signore, c’è scritto: «Dovresti vederli, Signore, i campanili. Non hanno contenimento, non hanno misura. Lo sguardo ha difficoltà a controllarli. Slittano. Sfuggono. Si fanno sempre più alti. Proiettano un’ombra obliqua che si spande, si slarga, dilaga, si rovescia sul suolo come pioggia scura. Sbalordiscono. Sembrano il simbolo di una disperata illusione, o peccati di superbia come la torre nella pianura di Sennaar, forme vertiginose di un desiderio insano di conquistare il cielo».)
La chiesa del Crocefisso, a Galatone, è la mediazione tra la terra e il cielo. È il luogo della preghiera umile, quotidiana. Qui la spiritualità si fa terrestre, contadina. Ancora in questi tempi. Qui la storia è soltanto uno sfondo sfumato. La condizione che prevale (sopravanza, quasi) è quella del miracolo, della fede innocente e stupefatta, del senso inafferrabile dell’eterno che si manifesta.
Tutto – anche il silenzio, anche la penombra – riconduce al miracolo dell’origine, ad un’immagine di Cristo che solleva le braccia, poi ad un crollo della chiesa mentre si alza l’alba del 2 di febbraio 1682, e quell’immagine che si frantuma mentre la lampada ad olio rimane ad ardere tra le rovine.
Ma si narra che un sacerdote di nome Giuseppe Ecclesia raccolse i pezzi d’intonaco pittato, che tra le sue mani si ricomposero senza mostrare nessuna crepa, nessuna frattura.
Non ha clamore questa chiesa barocca, non ha forme di festa. L’oro vale quanto la pietra, il cero votivo, senza differenza. Tutto proviene da una devozione segreta e sincera.
È il dono di uno splendore per gente di terra; è come una ricompensa per la fatica, come un sollievo dalla miseria.
Questo è un barocco che lega istintivamente l’anima e il corpo, la fede e la ragione, il cosmo e la radice, la geometria e l’emozione. È un barocco di lirica malinconia, che dilata i suoi significati e li confonde nella luce che profuma d’incenso e di gigli, che alterna lo slancio delle forme verso il cielo a un’aderenza alle cose di ogni giorno, alle faccenduole del tempo che si vive.
È un barocco senza ebbrezza, senza sacro fuoco, che risplende di una religiosità intima, caritatevole, mistica, che prefigura e spera in una salvezza dal tempo e dall’oblio.
È un barocco di paese. È come una poesia in dialetto che si fa capire soltanto da chi è dentro quella lingua, da chi ne conosce i segreti delle sillabe.
Allora questo barocco rende prossima una distanza incolmabile; la sua architettura è, contemporaneamente, inizio e conclusione di un racconto che la terra fa al tempo e che il tempo fa alla terra, in una condizione di reciprocità serrata, di coinvolgimento, d’intreccio, con una tessitura di parole e silenzi, di aria e di sguardi, di nuvole e pietra.
Dice Fernando Manno nelle sue pagine sul barocco: «Esso è un fatto della terra, una rada del tempo e dell’amore. Ci restiamo impigliati, come lungo le sponde d’un fiume le acque fanno mulinello fra cespugli, sporgenze, appigli». 5
Dice che il barocco salentino è senso, che il suo spirito è sognante e indefinito, che è un incantesimo della fissità che va per l’aria.
Il barocco di questo sud del sud è luminoso, allusivo, ad un tempo sofisticato e istintivo, incombente e leggero, ha l’impronta della fatalità e del progetto, è prodigioso e consueto.
Allora, certe volte, certe sere, certe notti, nel buiore, nelle piazze, dentro i vichi, nelle corti, la pietra del barocco ha voci che dicono di memoria, allo stesso modo, con la stessa intensità e lo stesso linguaggio pacato, narrante, con cui di memoria dicono i dolmen e i menhir, le cave di pietra, i muri a secco tra le campagne, le specchie, i ruderi dei monasteri millenari.
Forse con una differenza, una soltanto: la consapevole ingenuità dell’illusione che il barocco sia stato donato dal cielo, senza la fatica che ha preteso ogni altra pietra di questo sud del sud.

 

   
   
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