Settembre 2006

UN PARADOSSO ITALIANO

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Tanta musica
ma un inno fragile
Sergio Bello  
 
 

 

 

Chi ripercorra le vicende dell’Italia potrà convenire che, nella selva
di canzoni e di canzonette,
si ritrova chiaro
e robusto il filo di due secoli di storia nazionale.

 

La domanda nasce spontanea: non è singolare che un popolo come quello italiano, sempre reputato di cantanti e di canzonettisti, abbia avuto tanta facilità e, nello stesso tempo, tanta difficoltà nei suoi canti politici? Pensiamo all’inno nazionale. La vecchia Marcia reale era (absit iniuria...) un po’ buffa. L’Inno di Mameli è già preferibile, carico com’è di nobili affetti e di generosa passione; però, musicalmente, non regge al confronto con inni grandi e solenni come, non diciamo quello tedesco, (sul piano musicale, il più bello di tutti), ma con quelli inglese, americano, russo, e persino con quelli di alcuni piccoli Paesi. Il nostro inno è vicino, piuttosto, al genere di quello francese, altrettanto carico di affetti e di passione, ma certo La Marsigliese è più trascinante e più coinvolgente, più epica e più grandiosa.
Durante il ventennio fascista, si accoppiava Giovinezza, giovinezza alla Marcia reale: ma si trattava di un saltare dalla padella nella brace, perché l’inno fascista era nato male, con tratti goliardici non proprio apprezzabili, e tanto meno poteva avere la dignità di canto nazionale. Qualcuno vagheggiò pure di adottare come inno italiano l’Inno a Roma, musicato con alcuni passaggi felici e suggestivi da un musicista del calibro di Puccini, ma questa idea non passò mai. I versi di quell’Inno, infatti, sono stati ritenuti insopportabili, non tanto per motivi ideologici, quanto per la qualità stessa di alcuni passaggi: e vi è compresa, fra l’altro, una più che approssimata (e anche inelegante) traduzione della terza strofa del Carmen spaeculare di Orazio: immensa e genuina gemma poetica di un testo commissionato per una cerimonia ufficiale.

Molto meglio era pensare, come pure si pensò, alla Leggenda del Piave, oppure all’Inno a Garibaldi, entrambi molto popolari, la prima dopo la Grande Guerra, il secondo nel Risorgimento e anche dopo. Ma a questo livello l’Inno di Mameli non scapita affatto. Se poi si pensa che qualcuno voleva adottare come inno nazionale “O sole mio”, l’inno prescelto è meglio che ce lo teniamo ancora più caro, e dobbiamo esser lieti che una bella canzone non sia stata straziata in un uso sconveniente.
Se, invece, si passa dall’ufficialità al livello della vita corrente e spontanea, i canti politici, militari, sociali degli italiani rivelano una vena ricchissima, con invenzioni verbali e musicali a volte molto felici, anche se la nota della contabilità tende (almeno così ci sembra) sempre a prevalere su altre qualità musicali, e anche se i versi sono quasi sempre quello che sono.
Chi ripercorra la storia d’Italia, nel Risorgimento e nei decenni che seguirono, sulla falsariga di quei canti, se ne può facilmente convincere. E potrà anche convenire che, nella selva di canzoni e di canzonette esplorate, si ritrova chiaro e robusto il filo di due secoli di storia nazionale.
Infatti, vi è di tutto e di più: aspirazioni nazionali, protesta e lotte sociali, emigrazione e povertà, spinte di movimenti e di partiti politici, esaltazioni e tristezze di soldati, vagheggiamenti e trionfalismi nazionalistici e imperialistici o perfino razzistici, illusioni coloniali, guerra e pace, legami internazionalistici (con adozioni e traduzioni di testi europei, come l’Internazionale). Vale a dire, Risorgimento, libertà e democrazia, giustizia sociale, anarchismo e socialismo o comunismo, fascismo e antifascismo e Resistenza, tradizionalismi e contestazioni in un imprevedibile ma logico succedersi di miti e di valori, secondo ritmi e vicende della nostra storia nazionale.
E non solo. Si aggiungano le mode della vita sociale e livelli di vita e di cultura popolare che si penserebbero lontani dalla politica, fino alla World Music, con il suo rilancio di suoni e di poetiche musicali di ogni provenienza. Per non parlare poi di attribuzioni di parte, per cui, ad esempio, la sinistra esibisce spesso Guccini o De Gregori, mentre è stato frequentemente considerato un cantautore di destra Lucio Battisti.

E tutto questo in un intreccio, che non sorprende, di “popolarismi” più o meno ingenui e spontanei, e di colti e raffinati “pezzi” d’autore. Anche con casi imprevedibili, come quello del “Canto dei Lavoratori”, composto da Amintore Galli, un musicista insegnante di conservatorio, moderato e antisocialista, per una società bocciofila, e che invece venne a rappresentare, con i versi di Filippo Turati, l’universo degli affetti domestici del socialismo italiano.
In ultima analisi, una biografia dell’Italia, su uno dei sentieri di più immediato riconoscimento della sua identità, per cui da “Addio, mia bella, addio” a “La bella Gigogin” a “Bella ciao”, (di mezzo c’è sempre una “bella”, come si vede), il canto politico ha avuto proiezioni e valenze di ben più largo uso e significato.

 

   
   
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