
Settembre
2006
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Il campo dei fuochi |
Ezio
Sanapo |
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Spero che partirà dai nostri intellettuali
la richiesta di riscatto della nostra dignità storica e morale,
insieme con il ripristino dei valori della nostra cultura classica,
che fu universale.
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Lultimo breve
periodo che si possa ancora ricordare risale alla fine degli anni
Sessanta e fu stroncato sul nascere dalla cosiddetta strategia
della tensione, che non si limitò alle stragi con vittime
innocenti, ma rispolverò la filosofia dellindividualismo,
tanto cara a tutti i governi conservatori dogni tempo. E poiché
la paura è nemica della speranza, a partire dagli anni Ottanta
la gente cominciò a barricarsi in casa. Quel ripiegamento
di massa fu chiamato riflusso, che concretamente significava
rinuncia, dietrofront, allinsegna dello slogan: Privato
è bello.
Da allora, sono trascorsi troppi anni e non credo che oggi la gente
sia più felice, chiusa in casa e in se stessa. Per la sua
tranquillità non è bastato alcun sistema di sicurezza:
lucchetti, porte corazzate, videocitofoni, telecamere, impianti
dallarme, cani da guardia, guardie giurate, siepi, muraglie
e filo spinato, e non ultima la legge che autorizza a sparare a
vista.

Ma fuori, del nemico, nemmeno lombra. Del resto, il nemico
poteva entrare via cavo, tantè che per questa via entra,
invece della cultura, una concezione deformata e volgare della realtà,
che ha seriamente danneggiato la sensibilità della gente
e la sua disponibilità ad emozionarsi. Senza emotività
e stimoli culturali, i liberi cittadini non hanno più parlato
e i liberi pensatori non hanno più pensato. Mi riferisco
ai tanti intellettuali che vivono nel Paese. Sono ormai decenni
che non scendono nelle piazze. Abbandonati dalla gente comune, si
sono isolati in cerca di se stessi: alcuni si sono limitati a un
dialogo allinterno della propria corporazione, senza alcun
coinvolgimento popolare; altri, i più validi, hanno perso
ogni speranza.
Sul fatto che non ci sia più speranza forse essi hanno ragione,
ma non è questo il problema. Il problema vero è la
loro solitudine, che è la stessa di tutti noi: una solitudine
né voluta né casuale. La soluzione di questo problema
esistenziale (ma non solo) è la premessa per un nuovo clima
di speranza.
Un intellettuale, si sa, è per certi versi una figura scomoda;
se poi sta in mezzo alla gente lo è a maggior ragione, perché
tra la gente crea Speranza: dividi luno dallaltra, e
la speranza muore. Prova ne è il fatto che oggi effettivamente
non si intravede allorizzonte alcuna grande idea, alcun progetto
di società che sia in grado di risvegliare grandi ideali
e di stimolare passione. Gli stessi governi che si susseguono a
malapena riescono a portare avanti il disbrigo dellordinaria
amministrazione, con programmi a breve termine. Direbbe Platone:
«Quando uno Stato è male amministrato, è giusto
cominciare a trasformare intanto le nostre coscienze».
Io spero che partirà dai nostri intellettuali la richiesta
di riscatto della nostra dignità storica e morale, insieme
con il ripristino dei valori della nostra cultura classica, che
fu universale. Ha scritto Hans G. Gadamer: «I beni materiali
di ogni società più vengono ripartiti, più
diminuiscono, la cultura invece è lunico bene dellumanità
che, al contrario, diventa più grande se più distribuito».
Agli intellettuali e a una nuova speranza che sia supporto e stimolo
per tutti io dedico, come racconti per adulti e bambini, queste
mie riflessioni.
Quasi una ninna nanna
Non deve essere facile per un bambino appena nato essere fiducioso
e tranquillo in un mondo che sovrasta con la sua enormità
lui, così fragile e indifeso. Ma cè la mamma
che gli somministra una razione quotidiana di fiducia e speranza.
Lo fa con tutti i mezzi, con la mammella, con i baci e le carezze;
lo fa cantilenando e discorrendo con lui. La mamma gli parla, il
bambino non la comprende ma la guarda negli occhi e capisce che
quelle sono buone notizie, parole che fanno ben sperare. E si addormenta.
La cometa e i fuochi dartificio
La speranza viene vissuta come una vigilia. Nella tradizione popolare
e religiosa è rappresentata da quel lungo periodo in cui
le anime del Purgatorio vivono in attesa dellAvvento, che
culmina con la venuta del Messia e con la liberazione dalle pene.
A segnalare e simboleggiare la venuta è una stella cometa
che indica un orientamento, una direzione. Cè ancora
oggi, da parte della gente, il bisogno, la necessità che
un corpo celeste, al di sopra di noi, indichi una presenza e una
direzione. Nelle feste dei Santi protettori, altre popolazioni di
anime penanti, ma dello stesso Purgatorio, hanno sostituito
le comete con i fuochi artificiali. Il finale di ogni festa è
sempre e ovunque uguale: allo spegnersi di ogni cometa e allo scoppio
dellultimo e dirompente botto, ci sono il silenzio e il buio
totale. E in quel momento ciascuno di noi sente il bisogno di guardarsi
intorno e cercare accanto la presenza di qualcuno.
Il Sepolcro e il grano
Cera una volta il rituale dei Sabburchi (Sepolcri)
e del miracolo del grano che nasce al buio nello spazio di una bacinella
di terra e tufo, coperta con uno straccio bagnato e nascosta sotto
il letto per trenta giorni, poi tirata fuori e decorata con piccole
bandierine di carta e petali di fresie. Così addobbata, veniva
portata in chiesa prima di Pasqua, il giorno della morte di Cristo.
Immaginate lo spettacolo che possono creare cento bacinelle variopinte
e tutte ricoperte di teneri fili di grano appena germogliato, ai
piedi dellaltare. La speranza che sfida la rassegnazione,
il trionfo della vita sulla morte: cento singole bacinelle che,
unite insieme, formano un campo di grano e, su questo, Cristo risorto!
Una valigia piena di sogni e di speranza
Ci sono ancora, da qualche parte, cento famiglie che insieme formano
una comunità, ma che, divise e sparpagliate, sono rimaste
con un pugno di terra che ciascuno ha portato con sé, come
lievito, convinto che la terra possa rigenerarsi: la speranza viva
per miracolo.
Chi è emigrato lo ha fatto suo malgrado, per necessità,
ma senza fare alcuna rinuncia. La rinuncia e il danno lo hanno fatto
quelli che sono rimasti. Chi è rimasto ha accettato compromessi,
e in cambio della propria tranquillità ha lasciato
fare. Sono stati stravolti i centri storici, sono state occupate
illegalmente e deturpate le nostre coste, le masserie sono state
acquistate e trasformate in ville con piscina, i terreni sono stati
costellati di discariche abusive, è stata creata diffidenza
reciproca, è stato ucciso ogni dialogo e, come dice un mio
caro amico, hanno ucciso la speranza. Verso la metà degli
anni Settanta ci fu un massiccio ritorno, e chi tornò trovò
ormai sciolto quel vincolo di solidarietà che aveva unito
generazioni per millenni. Altrettanto massiccia fu la ripartenza,
come quella di una nuova ondata di emigrazione giovanile che, ancora
oggi, dissangua il Meridione, conseguenza di quel patto scellerato
tra governanti e governati.
Anche questi nuovi emigranti porteranno con sé i sogni e
la speranza che sono stati tanto utili a coloro che li hanno preceduti
e che, messi insieme, sono davvero tanti. Così tanti da decidere,
addirittura, il governo e le sorti di una Nazione, comè
avvenuto con lattuale maggioranza al potere. Lex ministro
conservatore Tremaglia, autore della legge sul voto agli emigrati
italiani, certo non immaginava che anche i sogni e la speranza potessero
essere così a lungo conservati; casualmente ha toccato una
piaga, e si è verificata una sorta di rivoluzione (o semplicemente
un miracolo): una bacinella che è diventata un campo di grano.
Il Sud come lAndalusia
Visitando certe zone del Sud, sorprende e sconforta vedere, a qualsiasi
ora, le strade e le piazze deserte: sembra che nei paesi non ci
sia più nessuno. Allora tornano in mente quegli stessi luoghi,
negli anni Settanta, con il clima di festa di allora, una festa
durata per diversi ani. Quando la gente chiedeva Cultura, reclamava
Sapere, esigeva Conoscenza.
Ricordo la moltitudine di artisti e di critici darte lavorare
gomito a gomito, e tanti collezionisti di quadri. Cera una
galleria darte in ogni paese, e la gente andava numerosa a
visitarle ovunque. Chi vive oggi negli stessi centri si chiede:
«Che fine ha fatto tutta quella gente? Dove sono finiti quegli
intellettuali?». Mi vengono in mente i versi del poeta spagnolo
Rafael Alberti, esiliato in Italia a causa del regime franchista.
Si chiedeva:
È possibile che lAndalusia
sia rimasta senza nessuno?
È possibile che sui monti andalusi
non ci sia nessuno?
Che sui mari e nei campi andalusi
non ci sia più nessuno?
È il grido di dolore causato dal vuoto di speranza e dalla
solitudine che consegue; dalla distanza tra lintellettuale
e la comunità, distanza tanto simile a quella che si è
creata tra la metà di popolazione che è andata via
e laltra che invece è rimasta, senza che nessuno avesse
stabilito, tra luna e laltra, il necessario dialogo
costruttivo che lasciasse un varco alla speranza.
Il campo dei fuochi
Il campo dei fuochi stava appena fuori dalla periferia del paese,
così molta gente poteva guardare i fuochi dartificio
dalla propria terrazza. Visto così al buio, sembrava un posto
misterioso e chissà quanto lontano. Faceva quasi paura.
Nei giorni precedenti, prima e durante la festa, nessuno aveva potuto
avvicinarsi, il divieto era tassativo e gli addetti ai lavori non
si stancavano di ripeterlo. Il giorno successivo, invece, visto
alla luce del sole, era un campo qualsiasi, né incolto né
coltivato.

Disseminati da tutte le parti, sembravano ancora caldi i pezzi
di carta bruciacchiati delle carcasse: carta dura e
resistente, ricavata dai sacchi di cemento, non facilmente infiammabile.
Dopo la festa, dunque, di buon mattino, come tutti gli anni, i ragazzi
erano là, sparsi su tutto il campo a cercare frammenti di
polvere da sparo. Erano frammenti di colore nero, di grandezza diversa,
nascosti tra le zolle e i piccoli cespugli. Messi tutti insieme
in un barattolo di latta, lo portavano di nascosto a casa. Come
sempre, la sera si sarebbero riuniti e, sempre di nascosto, avrebbero
incartato il tutto, sistemandolo in uno stompo; poi,
con una miccia di carta accesa, lo facevano esplodere, causando
un botto improvviso, forte, violento.
Non era certo un fuoco dartificio, ma fra tutti quelli esplosi
nei giorni di festa era forse il più gradito. E poiché
la festa era passata, il paese era ricaduto nel consueto letargo,
e questo i ragazzi non lo accettavano. Così, dimprovviso,
si spalancavano porte e finestre, si sentivano voci dappertutto,
i cani abbaiavano, riecheggiava il pianto dei bambini. Il paese
era ancora vivo!
Il bello di un botto è la sua imprevedibilità, non
sai mai quando scoppia né dove.
E poi un botto serve a tante cose: può dare il segnale che
una festa è finita o che sta per cominciare. Può scoppiare
oggi o non scoppiare mai.
...tu però stai alla tua finestra
e lo sogni, quando scende la sera.
(F. Kafka)
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Chi spera cammina, non fugge.
(don Tonino Bello)
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Maria Antonietta Bondanese
Blu, verde, oro. I colori del mare, dellulivo, del sole lasciano
stupefatti nellabbagliante nitore del giorno.
Vaga la mente, senza fratture, tra il vissuto di ieri e delloggi,
tra il tempo dei fauni e il tempo presente. Non pozzo che contiene,
da cui semplicemente attingere, ma fonte che tracima,
overflows dice William Blake , la memoria deborda,
produce eccedenze di echi e di significato.
Personaggi e luoghi del mito si embricano a volti, cose, eventi
del passato. Aracne, tessitrice abilissima al punto da sfidare Minerva,
è trasformata in ragno dalla dea irata. Magica osmosi, metamorfosi
danzante di donna e natura, al ritmo meridiano di ancestrali tarante.
Vortica paziente intorno alla macina una mula bendata. La sua campanella
squilla nel buio. Quali anime purganti, la ciurma dei trappetari,
ai comandi del nachiru, mette in azione i possenti torchi
a forza di braccia.
Contadini e pastori ribelli, protagonisti rabbiosi e ingenui di
unepopea della fame, sono schiacciati dalla brutale repressione.
Sud amaro, ancora suolo di etnie dallanello al naso, allo
sguardo acre degli occupanti del Nord.

Nelle orribili trincee del Carso, nelle Little Italies
disseminate per gli States, è disperso un popolo di
formiche. La sua traccia perdura però indomita negli
archetipi trulli a mandala, tondeggianti, nelle filiere
di muretti smerlettati, nelle bianche casette tufacee, tra tenaci
fichidindia e capperi fioriti.
Architettura della precarietà e della sussistenza, ma anche
della dignità e dellingegno. Tanto da suscitare ammirazione
e apprezzamento in Carlo Ulisse de Salis Marschlins, che visitava
lultimo lembo del Salento nel 1789:
«Per quanto disagiata la escursione, a causa delle cattive
condizioni della strada, fummo ben ricompensati dalla bellezza
del sito, fra i più belli che esistono; non tanto per
quello che ci può essere di romantico e di suggestivo
in quellestremo punto dItalia in cui ci si trova,
quanto perché, invece di una roccia quasi nuda, quale
voi laspettate, vi trovate dinanzi a una terra coltivata
come un giardino e seminata fitto fitto da villaggi e borgate,
i cui abitanti, forti e benvestiti contadini, hanno lo stampo
della probità e del valore». |
Gente frugale e laboriosa, la cui cultura gastronomica, nata da
bisogno e povertà, ha saputo fare di bulbi selvatici, piante
irsute e vegetali spontanei, la base di piatti saporiti e favolosi.
Emblematica integrazione di uomini e ambiente, paradigma avanti
lettera di un sistema ecosostenibile, edificato su quello che il
filosofo Hans Jonas ha definito principio di responsabilità,
il cui imperativo è di agire in modo tale che gli effetti
dellazione «non distruggano la possibilità futura
di una vita autenticamente umana». Integrazione cui è
sotteso un rapporto qualitativo e intuitivo con le cose, anziché
quantitativo e tecnocratico.
Non stasi e immobilismo, ma integrazione necessaria che, preservando
sacralità e bellezza alla natura, conferisce decoro a chi
di essa vive. «Nessuna nostra plaga ha contadini più
fieri, più indipendenti, più spregiudicati. [
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questi figli della terra, una volta non più sviati ed intristiti
da preoccupazioni di salari e di tasse, svolgerebbero rapidamente
un vero spirito di autonomia, che, divenuto conscio di sé,
opererebbe politicamente, come ha sinora operato economicamente»:
mentre esalta le potenzialità di palingenesi sociale della
classe contadina, Tommaso Fiore ne individua la matrice
nel lavoro non alienato dei campi.
Ethos ancestrale e utopia di riscatto inghiottiti, in realtà,
nella fornace del progresso, stritolati non da un potere censorio
e violento, ma dai meccanismi della omologazione democratica, del
consumo e dello sviluppo senzanima.
Fondata sul presupposto, fragile e inadeguato, delluomo egoista,
leconomia del benessere e dello spreco mostra squilibri, dismisura,
ingiustizia. Va dunque riformata, recuperando alla scienza e alla
tecnica la loro direttrice umanistica, loriginaria funzione
conoscitiva di essere saperi al servizio dellemancipazione
e autodeterminazione delle persone.
Non si tratta di enunciare precetti assoluti, di fatto inapplicabili
nella pratica, piuttosto di ricomporre una consapevolezza etica,
abitudini morali trasparenti e condivise nella gestione dei beni
comuni, oltrepassando tanto derive soggettivistiche ed estremismi
della libertà, quanto valutazioni riduttive sui moventi dellagire.
Lindividuo teso solo alla soddisfazione del proprio utile
non esiste. La sua presunta razionalità, coincidente con
la ricerca del massimo interesse materiale è, infatti, pura
astrazione, come ha rilevato Amartya Sen in Lo sviluppo è
libertà. Luomo reale è assai più complesso
e sfaccettato. Il prodotto interno lordo non può rappresentare
perciò lindice di misura privilegiato della prosperità
di un Paese.
Si può essere ricchi e avere una cattiva qualità della
vita. I poveri, daltra parte, possono avere una qualità
della vita molto diversa tra loro, pure fruendo del medesimo scarso
reddito. «Dove ha attinto tanta forza morale? Che cosa gli
ha dato la vita? Nulla. Che le ha chiesto? Nulla. E come mai non
ha disperato un solo momento?»: sono gli interrogativi che,
dal fronte di guerra, Tommaso Fiore si pone sul padre, sorta di
santo laico, «anarchico francescano». A riprova di come
la vita buona, il well being di Sen, cioè lappagamento
e la realizzazione di sé, rimandi alla concretezza di ciascuno,
alle persone in carne e ossa, alla varietà delle loro esperienze,
delle loro capacità di progetto e speranza.
Speranza non vuol dire certezza, una cartesiana «disposizione
dellanima a persuadersi che ciò che si desidera avverrà».
La speranza può anche andar delusa, in modo atroce: non sarebbe
altrimenti speranza.
Speranza è un tendere, un andare verso. Proprio la Spes di
quella formella della porta del Battistero di Firenze scolpita da
Andrea Pisano, con le braccia tese verso lalto, ad afferrare
qualcosa. Immagine evocata, non a caso, da Ernst Bloch, per il quale
il pensiero riesce ad articolarsi al di là dellimmediatezza
del vissuto grazie alla speranza.
Desiderio, aspettativa, fede. «Alla base del faro non cè
luce»: il presente, in apparenza così chiaro e definito,
rimane oscuro. Elementi di mistero e di indecidibilità sfuggono
alla ragione geometrizzante. Elementi di discontinuità, di
casualità, di aleatorio. Possono essere intercettati ed espressi
dallarte. Oppure dalla religiosità istintiva di quei
contadini di Rionero che racconta Giovanni Russo alla
metà del secolo scorso si tassavano le scarse entrate per
celebrare la festa della Madonna, impermeabili ad ogni argomento
sindacale in contrario.
Motivazioni e intenzioni dellagire umano sono complesse, vari
perciò devono essere i livelli di analisi, in unottica
rinnovata di crescita e di sviluppo. Da quello soggettivo delle
competenze, propensioni e visioni del mondo, a quello oggettivo
dei contesti allinterno dei quali valorizzare il capitale
umano, il ruolo attivo delle persone. «Occorre mettere
insieme le forze, ridare a tutti il gusto del lavoro comune»,
sollecita Franco Cassano, rilevando numerosi i segni di resistenza
«allinerzia, al cinismo». Loscillazione
tra anarchismo e opportunismo, «malattia antica degli intellettuali
meridionali», e più in generale dei meridionali, può
essere vinta dal «bisogno di respirare speranza che attraversa
tanta parte della nostra società».
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aldo bello
Di quante, e quali speranze parliamo? Ci si può riferire
a quelle riposte nella politica, allora il rischio era la delusione,
che si è puntualmente verificata: dal 1950 ad oggi, sebbene
si siano succeduti governi mono, bi e pluricolori, gabinetti balneari,
carri attrezzi di vario tipo e natura, archi costituzionali e alternanze
polari, non si è riusciti a cancellare limmagine lazzarona
del Sud della miseria, dellarretratezza, delle mafie, delle
collusioni politico-affaristiche, mentre in altre latitudini europee
(Schleswig-Hollstein tedesco, Nord britannico, Irlanda, Borinage
belga, Midi francese, e via elencando) lo sviluppo è stato
progettato, perseguito e raggiunto.
Da noi ha alimentato lapoteosi dellimbroglio, con le
articolazioni funzionali delle rapine a mano disarmata, dei benefici
di ritorno a senso unico, della falsa redistribuzione della ricchezza,
della lotta di classe persino che fu solo operaia
e mai contadina. Alimentare ancora speranze in questo campo? È
cresciuta la ragion critica media (sembra): nessuno ci crede più,
sono tempi di generale conservazione (in ogni parte politica), il
pensiero non è debole, è o un residuato di archeologia
politico-economica oppure un salto nel vuoto pneumatico. Come si
fa a vivere dentro le trappole di ideologie prefabbricate, stantie,
o approssimate e fragili?
Ci si può poi riferire a speranze daltro tipo. Per
esempio, di carattere e contenuti culturali, civili. Allora è
purtroppo facile constatare che questa nostra è unepoca
di passioni tristi, narcisistiche, che ha perso interesse nel futuro,
che non prendendo tempo per pensarlo (come ha scritto Luciano Manicardi,
monaco di Bose) impoverisce il rapporto stesso col tempo. Sebbene
proprio questo dovrebbe essere sperare: Dar forma al tempo.
Quel che realmente divide, dunque, non è la fiducia o non
fiducia nella ragione (la cultura ellenica ci ha insegnato che «la
Misura è la migliore delle cose»), ma sono i diversi
modi di vivere (di sentire) le leggi, le relazioni,
e gli stessi folli paradossi insiti nella fede dellattesa.
E qui entra in gioco anche la stupefacente speranza cristiana, che
smisuratamente tende verso lalto, col credere
lincredibile, con il rifiuto del compromesso con le cose del
mondo, con lamare il proprio nemico, con il rinnegare ricchezza,
felicità terrena, con il percorrere vie dolorose perché
ogni strada in salita lo è. Lillimitata speranza cristiana,
dunque, è una follia che guarisce dalla follia. È
speranza ineffabile, che apre alla ragione spazi certamente più
vasti, ma nuovi nel profondo, dove non tutti possono giungere.
Forse, vivere nella disillusione (a volte nella disperazione) apre
allemersione di un nuovo linguaggio, quello della società
aperta, che presuppone in ciascun individuo la coesistenza di molteplici
identità (civili, estetiche, spirituali), compresa quella
creata dallarte, «che consente di vivere molte vite».
Il nuovo linguaggio, depurato da strumentali messianismi di parte,
non escluderà il conflitto, non inibirà laffermazione
della propria fede, e non sarà neanche nichilista, ma linizio
di relazioni diverse, di rapporti leali, di patti tra uguali. Di
un dialogo vero.
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