Dicembre 2006

IL VECCHIO MONDO

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Economie corporative
Edmund S. Phelps Premio Nobel per l’Economia
 
 

 

 

 

I Paesi più lenti sono quelli
con un apparato
burocratico più
sviluppato e con
la legislazione più incisiva di tutela
del posto di lavoro.

 

Quale sistema economico è in grado di garantire meglio i beni primari e la qualità della vita? Senza alcun dubbio, il sistema capitalistico, che tuttavia in certi Paesi (ad esempio in Italia, in Germania, in Austria) presenta caratteri di corporativismo e di scarsa flessibilità che ne frenano le capacità di stare al passo con le grandi svolte globali, come l’onda di innovazione tecnologica degli ultimi anni. Tra le ripercussioni negative, una produttività più bassa e un tasso di disoccupazione più alto.
La qualità della vita lavorativa di una persona è d’importanza fondamentale. La gente ha bisogno di un coinvolgimento intellettivo e di un’occupazione stabile per rilevare il proprio talento, per sfruttare appieno le proprie capacità e per essere stimolata da nuovi problemi da risolvere. Vuole quella crescita interiore che deriva dal lavoro a contatto con gli altri. E per molti è importante un’attività economica che li faccia sentire nel cuore dello sviluppo sociale. Non ultima, viene una buona remunerazione del proprio lavoro. Per questi motivi, non solo la disponibilità, ma anche la qualità dei posti di lavoro in un Paese, così come il livello dei salari e quindi la produttività, sono tra i beni primari dell’esistenza.

Questo porta a un problema di fondo: quali strutture istituzionali economiche possono meglio garantire questi beni primari? In altre parole, il capitalismo è il sistema migliore dal punto di vista dei lavoratori? Negli anni Cinquanta, quando ero studente di Economia, ci si poteva porre questa domanda. Il capitalismo era ritenuto superiore, anche se non nettamente, al comunismo e al fascismo. Il capitalismo stimolava la produttività, ma era più instabile; alcuni Paesi potevano rifiutarsi di adottarlo, e qualcuno dubitava che fosse un sistema più dinamico. Milton Friedman difendeva il capitalismo come indispensabile per assicurare anche le libertà politiche. Henry Wallich scriveva che le economie comuniste potevano tenere il passo, ma che le libertà individuali offerte dal capitalismo erano senza prezzo.
In ogni caso, prima degli anni Novanta è diventato chiaro il fallimento delle economie comuniste e a socialismo di mercato nell’Europa centro-orientale. In quegli anni, lavorando alla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, sono partito dall’ipotesi che la diffusione della proprietà privata andasse di pari passo con l’aumento della produttività, ipotesi poi confermata dall’analisi incrociata di 40 economie nazionali. Ma non basta la proprietà privata, sono fondamentali anche le istituzioni economiche di base e il livello dei beni primari che forniscono. È importante, anzi cruciale, vedere come i proprietari possono utilizzare le loro disponibilità.
Un fattore chiave, ad esempio, è la libertà per il capitale privato di entrare o uscire da un’industria, senza particolari vincoli da parte dello Stato. Un altro è il diritto degli azionisti di estromettere il management inadeguato. In generale, in un sistema capitalistico ben funzionante gli imprenditori devono avere accesso al capitale di rischio, e quest’ultimo necessita di un mercato azionario ben sviluppato. Agli imprenditori vanno affiancati manager qualificati, che a loro volta hanno bisogno di una formazione adeguata.
A metà degli anni Novanta ho iniziato ad analizzare le istituzioni economiche caratteristiche dell’Italia e di altri Stati dell’Europa occidentale, come la Germania e l’Austria. Questi Paesi presentano sistemi economici relativamente bloccati, con alcune grandi società e forti sindacati, con Governi interventisti e rapporti stretti con grandi banche, un sistema che ho definito “corporativismo”.
Le economie molto corporative mostrano elevati costi di entrata e di uscita nei vari settori. Naturalmente, ogni economia di mercato è un insieme di istituzioni, alcune genuinamente capitaliste, e altre più corporative. E le distinzioni a volte non sono così nette: un sistema molto capitalista può anche presentare un esteso apparato di welfare e necessita allora di regole per mantenere un buon funzionamento; e un’economia molto corporativa può anche avere una scarsa inclinazione per elevate spese sociali.
Ma quali sono le istituzioni in grado di fornire meglio i beni primari, e quali invece le peggiori? In Italia, almeno in passato, l’elevata disoccupazione e la scarsa partecipazione della forza lavoro sono derivate dall’assenza di alcune istituzioni capitalistiche e dalla presenza di altre più corporative, con un conseguente abbassamento della produttività e una minore creazione di buoni posti di lavoro.
Questo ha frenato la diffusione della straordinaria esperienza che ha caratterizzato la seconda metà degli anni Novanta: il boom di investimenti strutturali creato dall’esplosione di Internet e dalle parallele innovazioni nell’industria delle telecomunicazioni. Un fenomeno di queste proporzioni non si verificava dagli anni Venti negli Stati Uniti e dagli ultimi decenni dell’Ottocento in Europa. L’occupazione e la produttività hanno ricevuto una forte spinta, senza alimentare l’inflazione.
Il boom degli investimenti ha coinvolto soprattutto alcune economie, inizialmente Stati Uniti, Regno Unito, Australia e Canada, poi Olanda e Svezia, mentre ha avuto molte più difficoltà a diffondersi in Paesi come Germania, Italia, Francia, Belgio, Spagna e Austria. La prima impressione è che le economie più dinamiche e con le istituzioni più adeguate siano anche quelle più capitalistiche, mentre le altre sarebbero state frenate dal corporativismo. Una conferma viene da un’analisi comparata di 12 Paesi dell’Ocse, tra i quali i più lenti sono quelli con un apparato burocratico più sviluppato e con la legislazione più incisiva di tutela del posto di lavoro.
Un altro indice è dato dallo sviluppo della Borsa, essenziale per la raccolta del capitale di rischio e per il finanziamento delle imprese start-up. In generale, i Paesi a forte crescita hanno una capitalizzazione di Borsa elevata in rapporto al Prodotto interno lordo.
Inoltre, sono anche quelli in testa alle classifiche dell’istruzione universitaria, fattore chiave per la preparazione dei manager. Naturalmente, un altro discorso andrebbe poi fatto su come, e in quanto tempo i Paesi meno dinamici riescono a colmare il gap iniziale, e anche qui il ruolo fondamentale è il tipo di struttura economica, più o meno capitalistico o corporativo.
Si apre, in ogni caso, una fase molto stimolante degli studi economici, in cui il centro dell’analisi si sposta dal comportamento dei vari mercati all’influenza delle istituzioni economiche sul business. Un po’ come la differenza che passa tra Ricardo e Schumpeter.

 

   
   
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