Dovremmo
cercare istituzioni alternative
piuttosto che
affidare tutte
le nostre speranze
a un solo sistema di governance
globale.
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La crescente penuria delle risorse – dai minerali al petrolio,
all’acqua, alla sicurezza collettiva, al funzionamento di un
complesso sistema internazionale – ci impone di riflettere
sul modo in cui il sistema globale riuscirà ad affrontare
il problema. Appare subito evidente che l’adattamento a questa
nuova realtà ha a che fare con il tipo di istituzioni internazionali
che saremo in grado di sviluppare e di far funzionare.
Molti dei problemi distributivi creati dalla penuria di risorse
saranno risolti da meccanismi di mercato. Ma ci sono anche interessi
pubblici, risorse materiali e immateriali, che reclameranno l’intervento
dei Governi, e la cooperazione fra gli Stati nel contesto del sistema
internazionale.
Ci sono diversi bisogni di base che dovranno essere assicurati per
masse di persone. In cima alla lista abbiamo avuto per un lungo
periodo la sicurezza di approvvigionamento di risorse naturali,
cosa che oggi significa soprattutto la sicurezza di forniture energetiche.
Per nostra sfortuna, i maggiori esportatori di energia sono concentrati
in una regione del mondo fra le più instabili; e l’aumento
dei prezzi del greggio ha spostato l’equilibrio globale del
potere a vantaggio di Paesi autoritari che non condividono necessariamente
la visione di europei e americani.
Un altro punto riguarda il mantenimento del sistema commerciale
globale, indispensabile se vogliamo che il meccanismo dei prezzi
funzioni. Infine, esistono potenti fattori esterni negativi, come
le emissioni di carbonio e altre forme di inquinamento che determinano
da parte di alcuni Paesi l’imposizione di costi e di condizionamenti
su altri.
Mancur Olson sosteneva che il bene pubblico può essere garantito
sia da un’autorità gerarchica capace di imporre regole
al gruppo sia da un protagonista molto più forte di altri,
in grado di provvedere unilateralmente quei beni per sé e
soprattutto disposto a tollerare incursioni da parte dei soggetti
minori, poiché questo contribuisce a lasciargli mano libera
e a tutelare il proprio interesse.

In assenza di una fonte gerarchica di regole capaci di farsi rispettare,
gli Stati Uniti per molti anni hanno agito unilateralmente nel rifornirsi
di alcuni beni vitali. Lo hanno fatto perché erano i più
forti e perché avevano troppo da perdere nel caso di una
concertazione collettiva che non fosse riuscita a funzionare. Durante
la Guerra Fredda, il caso classico di questa impostazione fu un’America
che sopportava simultaneamente il peso sproporzionato di mantenere
una vasta rete di alleanze e un sistema commerciale aperto. Agendo
da importatore di ultima istanza, ha consentito ad alleati non comunisti
come il Giappone di ottenere molti vantaggi dall’alto di una
generosità dettata, per gli Usa, da motivi di sicurezza.
E in un certo senso questo ruolo è continuato in anni più
recenti con la Cina, della quale gli Stati Uniti hanno assorbito
il surplus produttivo, assicurando in questo modo stabilità
al sistema commerciale globale.
Esistono però due problemi con un’America che esercita
questo ruolo unilaterale: prima di tutto è necessario che
gli statunitensi considerino sempre che assicurare questo interesse
generale faccia parte delle proprie esigenze nazionali; e poi occorre
che il resto del mondo consideri legittimo questo procedere americano.
Entrambi i capisaldi sono attualmente sotto sfida.
Per quanto possa sembrare strano a molti, lanciando la guerra in
Iraq l’amministrazione Bush era convinta di provvedere a un
bene comune globale – l’eliminazione di un pericolo di
armi di distruzione di massa in mano a uno “Stato canaglia”
in un’area critica per i rifornimenti energetici – che
il resto della comunità internazionale non avrebbe potuto
assicurare. Il problema era che molti non-americani vedevano le
cose in modo diverso, sia dal punto di vista della legittimità
dell’intervento sia soprattutto non avevano fiducia nella valutazione
e nella competenza di un’America che si autoproclamava leader.
Il tono offeso delle reazioni americane riflette la convinzione
statunitense di aver agito allora per l’interesse generale.
Se si guarda al futuro, è difficile non pensare che l’ipotesi
di un’America che continua ad assicurare unilateralmente risorse
di interesse generale sarebbe alquanto arrischiata: basta pensare,
ad esempio, a che cosa potrebbe accadere se in futuro gli Stati
Uniti decidessero di affrontare il problema nucleare iraniano in
modo non coordinato con gli altri Paesi.
Quale soluzione per questo problema di azione collettiva? Credo
che difficilmente istituzioni internazionali globali come le Nazioni
Unite saranno in condizioni di far fronte al compito; l’Onu
soffre di un grave problema di azione collettiva già adesso
al suo interno; le diverse proposte di riforma (ad esempio, nuovi
membri nel Consiglio di Sicurezza) potranno probabilmente aumentarne
la legittimità, ma la renderanno ancora meno efficace. Il
problema è destinato a peggiorare, prima di riuscire a trovare
una via d’uscita: a mano a mano che l’influenza cinese
sul sistema internazionale aumenta, Pechino sembra portata ad assumere
atteggiamenti di difesa della sovranità statale che saranno
molto differenti dalle posizioni assunte da Stati Uniti ed Europa,
più sensibili ai diritti umani. Il Darfur è un buon
esempio.

Una strada più promettente potrebbe essere lo sviluppo di
quello che ho chiamato un “multi-multilateralismo”. Cioè
l’avvio di una serie di istituzioni internazionali diverse
e parzialmente sovrapposte che possano affrontare casi che richiedono
un’azione collettiva, compresi quelli che hanno a che fare
con la scarsità di risorse, di sicurezza energetica e del
traffico marittimo, e via di seguito. Il Kosovo 1999 è un
esempio: quando il veto russo impedì al Consiglio di Sicurezza
dell’Onu di agire, Stati Uniti ed Europa fecero entrare in
scena la Nato, dove tale veto non poteva scattare. Ovviamente la
Nato può essere una soluzione soltanto per una piccola parte
dei problemi; il punto è che dovremmo cercare istituzioni
alternative piuttosto che affidare tutte le nostre speranze a un
solo sistema di governance globale.
Alla fine, mi sembra evidente che gli Stati Uniti dovranno continuare
ad offrire una serie di beni globali agendo in proprio; anche perché
la maggior parte delle istituzioni multilaterali non funzioneranno
senza una partecipazione americana.
Molti europei responsabili, indipendentemente dal livello di opposizione
che possono manifestare nel caso iracheno, si rendono conto di questo:
temono il ritiro degli Stati Uniti dal sistema internazionale, esattamente
come non amano il peso eccessivo della superpotenza americana. Il
problema è quindi quello di motivare gli Stati Uniti a partecipare
attivamente alla creazione di un mondo multi-laterale. Per fare
questo, occorrerà lavorare per superare la tendenza “souverainiste”
della cultura politica americana: una tendenza probabilmente rafforzata
dagli avvenimenti degli ultimi anni.
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