Dicembre 2006

Un altro mondo

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Sei Sorelle più una
B.S.  
 
 

 

 

A dispetto
dei loro bilanci straordinari,
le Sette Sorelle
di oggi non
somigliano in niente a quelle
di ieri, né esiste alcun tipo di
parentela tra loro.

 

I profitti delle sette maggiori società petrolifere, tra le quali c’è l’italiana Eni, continuano ad essere molto elevati; ma il loro potere non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello delle Sette Sorelle contro le quali era sceso in campo il creatore dell’Eni, Enrico Mattei. Esse controllavano il 50 per cento delle riserve mondiali di greggio, mentre oggi le “nuove” Sette Sorelle ne controllano il 4 per cento, e le loro possibilità di espansione sono frenate da vincoli ecologici e dalle politiche dei Paesi produttori. Queste difficoltà forse preannunciano una nuova ondata di fusioni. Dietro i profitti a cascata, infatti, attualmente si nascondono dilemmi di sopravvivenza e di vulnerabilità che mai come adesso rendono i grandi attori occidentali del petrolio e del gas un pallido ricordo dei “grandi” di ieri.
Per buona parte del XX secolo, il mondo del petrolio fu controllato dalle sette grandi multinazionali occidentali: Exxon, Shell, BP, Chevron, Mobil, Gulf e Texaco. Forse fu proprio Mattei a ribattezzarle Sette Sorelle, dopo che un’indagine condotta dall’antitrust americano ne ebbe svelato l’immenso potere. Al loro apogeo esse giunsero a controllare su scala globale oltre il 50 per cento delle riserve e della produzione di greggio, e circa il 70 per cento della raffinazione e della distribuzione di prodotti petroliferi. Potevano determinare o influenzare l’andamento dei prezzi internazionali del petrolio, l’offerta di greggio, risolvere crisi internazionali, fare e disfare la fortuna di interi Stati, dei quali tenevano sotto controllo le risorse più importanti in un regime di sostanziale extraterritorialità.

Poi vennero gli anni Settanta, il primo (1973) e il secondo (1980) shock petrolifero e l’ondata di nazionalizzazioni. Di colpo le Sorelle persero il controllo del centro di gravità del mondo del greggio – le riserve del Golfo Persico – come pure quello di altre aree importanti, in Venezuela e nel mondo arabo. Non solo. Il Senato americano avviò una storica indagine contro di esse, accusandole di aver tramato con i Paesi arabi per provocare lo shock del ‘73 e di aver plasmato per quasi trent’anni i destini della politica estera americana, piegandola ai loro interessi. L’indagine dimostrò che le accuse erano infondate, ma l’immagine delle Sette Sorelle ne uscì a pezzi, proprio mentre il loro potere si sgretolava in modo definitivo. Negli anni successivi alcune di esse scomparvero, assorbite dalle Sorelle più forti: Gulf è acquistata dalla Chevron nel 1983, Mobil si fonde con Exxon nel 1999, Texaco con Chevron nel 2001.
Nell’immaginario collettivo, tuttavia, è sopravvissuta l’idea che il controllo del petrolio sia ancora oggi nelle mani di un ristretto club di grandi multinazionali occidentali. Gli eccezionali risultati di questi ultimi anni non hanno fatto che rafforzare questa convinzione, provocando nello stesso tempo un coro di critiche e di ritorsioni (minacciate o attuate): dalle proposte di tassazione sui loro windfall profits (profitti a cascata) alle nazionalizzazioni dei loro giacimenti, dalle proteste per i troppi soldi restituiti agli azionisti, attraverso dividendo e il riacquisto di azioni proprie, alle accuse di aver limitato gli investimenti per fare più cassa, fino a quelle di manipolare i prezzi alla pompa di benzina e gasolio.
Con il prezzo del petrolio (e del gas) alle stelle, con chi prendersela, se non con un comodo capro espiatorio come i giganti dell’industria petrolifera, da sempre invisi all’opinione pubblica e ai Governi e facili bersagli per tutti? Ma le cose sono un po’ meno semplici. È vero, i bilanci delle società petrolifere fanno impressione, in particolare quelle delle prime sette multinazionali occidentali (tra cui, ancora una volta, l’Eni). Tra il 2000 e il 2005 essi mostrano flussi di cassa e profitti netti cumulati rispettivamente di 720,7 e 464,5 miliardi di dollari, oltre a un monte di dividendi e riacquisto di azioni proprie che supera i 300 miliardi di dollari. Nello stesso periodo, tuttavia, gli investimenti di queste sette società (inclusi quelli per l’acquisizione di altre società) hanno superato i 540 miliardi di dollari: una cifra che eccede di gran lunga i loro profitti netti complessivi. Alcune sono state più prodighe e virtuose di altre nell’investire, ma nel complesso sarebbe assurdo sostenere che non lo abbiano fatto in dimensioni rilevanti.

Il vero problema è che quell’immenso fiume di denaro è stato assorbito in buona parte da progetti ambiziosi e difficili, in aree costose e spesso ambientalmente ostili. Aree dove produrre un barile di petrolio costa quattro, cinque o perfino dieci volte più di quanto costi produrlo nel Golfo Persico: dove, però, le società straniere non possono detenere riserve e produzioni di greggio, se non in misura ridottissima.
In realtà, a dispetto dei loro bilanci straordinari, le Sette Sorelle di oggi non somigliano in niente a quelle di ieri, né esiste alcun tipo di parentela tra loro. Prese nel loro insieme, controllano appena il 4 per cento delle riserve provate di greggio nel mondo e il 5 per cento di quelle di gas naturale; va un po’ meglio per la produzione di greggio (16 per cento) e di gas naturale (17 per cento), e per la raffinazione del petrolio (25 per cento). Il loro futuro è gravato dalla spada di Damocle di come rimpiazzare le riserve consumate ogni giorno, mentre nei Paesi in cui operano i Governi locali incamerano ormai mediamente tra il 60 e l’80 per cento del prezzo del barile venduto. Men che mai hanno alcun grado di controllo sul mercato petrolifero, né possono in alcun modo influenzare l’offerta di petrolio e gas, ormai appannaggio dei Paesi produttori e delle loro società nazionali.
D’altra parte, anche investire negli altri pilastri tradizionali del loro modello di business non è così facile. Raffinazione e petrolchimica hanno solo di recente offerto opportunità interessanti, dopo quasi due decenni di margini bassi o negativi. Ma su entrambi i settori continua a gravare l’ostilità delle comunità locali – soprattutto nei Paesi industrializzati – che colpisce anche i rigassificatori e qualunque impianto ambientalmente invasivo, rendendo di fatto impossibile costruirne uno (l’ultima raffineria Usa è stata costruita nel 1976). E questo, mentre la distribuzione di prodotti petroliferi (le stazioni di benzina, per esemplificare) è ormai satura nei Paesi avanzati, in un panorama di ipercompetizione e di legislazioni spesso bizzarre che complicano ulteriormente i progetti d’investimento.
In sostanza, gli spazi di espansione delle grandi società petrolifere passano attraverso porte molto strette e atti di coraggio che richiedono di gettare il cuore al di là di ostacoli difficilissimi, ancor di più oggi a causa dell’avanzata di una stirpe aggressiva di società sotto controllo statale che, dalla Cina alla Russia e al Medio Oriente, cerca il suo posto al sole nel grande gioco del petrolio e del gas. Per questo, contrariamente a quanto si pensa, molte di esse attendono come un’epifania la caduta dei prezzi del greggio. Da un lato essa costringerebbe i Paesi produttori a mitigare le loro politiche, dettate, in fasi come questa, da un comprensibile “nazionalismo delle risorse”.
Ma, soprattutto, essa spianerebbe la strada a un nuovo processo di consolidamento dell’industria, nel quale i più deboli o i non sufficientemente robusti diventerebbero fatalmente prede dei più grandi. E, vista l’ampiezza dei problemi che gravano sull’industria petrolifera occidentale, non è detto che una nuova ondata di acquisizioni non si realizzi anche prima che i prezzi del greggio mostrino segni di decisa inversione.

 

   
   
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