Dicembre 2006

Un altro mondo

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Addio cortile di casa
Ralph Fisher  
 
 

 

 

 

 

Dal Messico alla Bolivia, dal Perù al Guatemala,
gli indigeni
conquistano
posizioni di potere, in terre spesso ricche di materie prime, di petrolio, di gas.

 

Era il backyard, il cortile di casa degli Stati Uniti. Un continente che la dottrina Monroe, enunciata al Congresso Usa il 2 dicembre 1823 da quel presidente americano, aveva di fatto trasformato in un protettorato che garantiva a Washington l’accesso esclusivo alle materie prime e ai mercati a sud del Rio Grande-Rio Bravo. Una sfera d’influenza mantenuta per tanti decenni con ogni mezzo a disposizione della Casa Bianca: pressioni politiche, interventi della Cia, azioni militari, colpi di Stato, accordi commerciali.
Oggi, basta uno sguardo alla carta geografica per capire che quell’epoca è finita. Molti Paesi latino-americani sono per la prima volta simultaneamente retti da governi nazionalisti o di sinistra, moderati o radicali, che la superpotenza del Nord non è più in grado di controllare.
Impegnata sui fronti medio-orientali, distratta dalla guerra al terrorismo islamico, l’America ha quel “cortile” ormai pieno di nemici. Primi fra tutti, i fautori della “rivoluzione bolivarista” (guidati dal Venezuela e dai petrodollari venezuelani), che stigmatizzano l’imperialismo “yanqui” e guadagnano crescenti consensi in quel 40 per cento di popolazione latino-americana che vive al di sotto della soglia della povertà.
Dunque: cinque secoli dopo la conquista europea, l’America Latina riafferma la propria indipendenza: esulta l’intellettuale americano più amato dalla “izquierda”, dalla sinistra, Noam Chomsky, secondo il quale il naufragio del modello liberista degli anni Novanta è stato fondamentale nella genesi della marea rossa che ha investito il sub-continente. Alle ricette del Fondo monetario e della Banca mondiale (stretta finanziaria, privatizzazioni, tagli alla spesa) che, complici le crisi monetarie, avevano amplificato le diseguaglianze sociali, accresciuto la disoccupazione e gettato sul lastrico le classi medie, i leader premiati dalle urne hanno risposto riappropriandosi delle risorse nazionali e rafforzando il ruolo dello Stato.
I sistemi politici sono diversi, le pulsioni ideologiche spesso discordanti: nazionalismo energetico e indigenista, socialismo pragmatico, laburismo riformista... Gli Stati Uniti restano il principale mercato di sbocco dell’America Latina. Ma se i nuovi leader sanno di non poter rischiare uno scontro con Washington, nessuno è più disposto ad abitare e a prendere ordini nel backyard della Casa Bianca.
Merito anche – o soprattutto – della presa di coscienza delle popolazioni autoctone. «Tornerò e saremo milioni», aveva promesso nel 1782 Tùpac Amaru, ultimo leader degli indios inca del Perù, poco prima di essere ucciso dagli spagnoli. La profezia, 235 anni dopo, sembra avverarsi. Dal Messico alla Bolivia, dal Perù al Guatemala, gli indigeni (aymara, maya, inca, Quichè, meticci) conquistano posizioni di potere, in terre spesso ricche di materie prime, di petrolio, di gas.
Ai tempi di Cristoforo Colombo i latino-americani originari erano 90 milioni. Oggi sono solo 50 milioni, in buona parte concentrati in Bolivia (66,2 per cento della popolazione), in Guatemala (43 per cento), in Perù (40,2 per cento), in Messico (12 per cento), in Cile (7 per cento), in Ecuador (40,2 per cento), in Belize (18,7 per cento), in Nicaragua (7,7 per cento), in Honduras (7,2 per cento), in Salvador (10 per cento).
In America Latina, sostengono gli esperti di antropologia dell’università del Chiapas, non esiste ancora un progetto comune indigeno, anche se si pensa di vararlo: il movimento attuale è la somma di molte correnti che si rifanno a tre aspetti fondamentali, cioè la lotta agraria, l’identità, l’antiliberismo. Ma c’è chi è disposto a finanziare rivoluzioni nuove, ma dal nome antico: quella degli aymara e dei quechuas che dovrebbero prendere il potere in Chinchaysuyo (Ecuador e parte della Colombia), in Contisuyo (Perù), in Antisuyo (parte di Bolivia e Brasile) e in Coyasullo (parte di Bolivia, Cile e Argentina), avendo come obiettivo l’antico “impero inca”.
La miccia che favorisce la crescita del movimento indigeno è la povertà. I nativi in miseria sono il 64,3 per cento in Bolivia, l’86,6 in Guatemala, l’80,6 in Messico. E lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa lancia l’allarme: «Sta nascendo un nuovo razzismo appoggiato dalla sinistra stupida, quello degli indios contro i bianchi». Una sinistra, però, da non confondere con il castrismo e con il suo anacronistico impasto di repressione sociale e di economia centralizzata: modello ormai ampiamente superato.
Le nuove sinistre latino-americane, nel loro insieme, hanno altri tratti distintivi: un’ampia pluralità delle forme di organizzazione (partiti, fronti, movimenti); una ricerca di multiculturalismo estranea alla vecchia ideologia comunista; il riconoscimento dell’economia di mercato temperata da profondi interventi sociali: tutta roba indigesta per il vecchio “lider maximo”, inguaribilmente prigioniero della mitologia marxista, ma convinto che tutto quel che sta accadendo nel subcontinente possa vedere in lui il collante per il Sud del mondo che respinge le teorie neoliberiste.

 

   
   
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