Dicembre 2006

Un altro mondo

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Fuga dei cervelli africani
Wole Soyinka Premio Nobel per la Letteratura
 
 

 

 

 

 

Dopo avere speso non so quanto per fare il giro del mondo, conclusero che questo tour non andava fatto:
la fuga dei cervelli non era
un problema.

 

Nel mio Paese – la Nigeria – durante uno dei regimi militari, venne istituita una Commissione, destinata a indagare perché mai la nazione fosse afflitta dalla fuga dei cervelli. Da noi, c’è un proverbio che dice: “Ohun ti a nwa lo si Sokoto, o wa ni sokoto”. Sokoto è il nome di una città del nord, mentre sokoto è il termine in lingua yoruba per indicare i pantaloni (in questo caso, si riferisce alle tasche). Il senso è semplicemente: quel che stiamo cercando lontano spesso si trova nelle tasche dei nostri pantaloni.
Questo ci fa capire quale impegno si assunse quella Commissione di alto livello, guidata dal numero due di quel regime militare, quando si imbarcò in un giro del mondo per scoprire perché mai nel Continente africano, e soprattutto in Nigeria, ci fosse questo fenomeno della fuga dei cervelli. La risposta avrebbe potuta darla anche un neonato. La delegazione visitò il Messico, fece un giro negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, quindi andò in Russia e in Zimbabwe. Non so proprio se ci fu un posto che non visitò.
Alla fine, ecco la relazione: la fuga dei cervelli non era un problema. Non c’era motivo di preoccuparsi per la perdita di potere professionale o intellettuale. Quel che accadeva era che, senza rendersene conto, la Nigeria era diventata una specie di riserva africana di volontari della pace. In altre parole, non avremmo dovuto preoccuparci per l’indebolimento produttivo causato dalla fuga di cervelli, non avremmo dovuto preoccuparci per la perdita di medici e di agronomi, per il fatto che alcuni dei nostri migliori tecnici lavorassero ormai per la Nasa e per altre istituzioni hi-tech, che alcuni dei nostri migliori specialisti – chirurghi, ecc. – operassero in Arabia Saudita e alcuni dei nostri migliori piloti lavorassero in qualche Paese dell’Africa orientale, come lo Zimbabwe. No, la Nigeria doveva essere contenta, per non dire orgogliosa, di rendersi utile al mondo intero mandando all’estero la sua forza-lavoro più qualificata.

Riuscite a immaginare che gli Stati Uniti abbiano bisogno delle conoscenze tecnologiche nigeriane, e che il Sudafrica, che è stato un pioniere della cardiochirurgia, richieda cardiochirurghi nigeriani? Dopo avere speso non so quanto per fare il giro del mondo, conclusero che questo tour non andava fatto. Sebbene tale insegnamento fosse destinato ad un uso più cinico e perverso, questi degni cittadini non avevano fatto che cercare a Sokoto ciò che si trovava già nelle tasche dei loro sokoto; ovviamente sapevano che la loro “risposta” non era veritiera, ma era piuttosto il caso del diavolo che sa citare la Bibbia per i suoi scopi. Essi conoscevano la verità anche prima di partire per la loro insensata missione, e la verità era che la causa che stavano ricercando intorno al mondo si trovava entro i confini della nazione e delle sue politiche di sviluppo.
Lascerò che siate voi a trarre conclusioni da questo piccolo racconto edificante. La mia risposta personale alla questione è che le nazioni africane non mancano di forza-lavoro qualificata, com’è provato dal fatto che essa è molto richiesta ovunque, nel mondo. Quel che invece manca è un’iniziativa della leadership, un impegno politico che crei entro le nazioni stesse le condizioni per ottimizzare le competenze locali e dare uno sbocco lavorativo ai quadri specializzati che abbiamo nel Continente. Manca la creazione di incentivi. Qualsiasi iniziativa che tenda a rinnovare, a rigenerare e risollevare il Continente africano verso un “Rinascimento africano”, può consistere soltanto nell’accordare la precedenza alla creazione delle condizioni adatte ad usare effettivamente la forza-lavoro esistente.
Non è questione di aiuti, ma semplicemente di strategie consapevoli, volte a creare le condizioni adatte all’impiego delle competenze di cui già si dispone, nelle imprese o nelle campagne, forse facendo risorgere la tradizione dell’industria a conduzione familiare e adattandola alle tecnologie avanzate, creando modesti, decentralizzati sistemi di produzione, e lasciando perdere l’idea di progetti di sviluppo pantagruelici, per orientarsi invece – per esempio – verso il modello indiano, che ha messo la gente comune in grado di valorizzare la propria innata, inventiva intelligenza, tramite piccole imprese.
Perché scelgo questa opzione produttiva? Perché è stata molto trascurata, a favore della sua alternativa, che ha ampiamente dimostrato di essere disastrosa. Per convincersene, basterà studiare la storia della siderurgia in Nigeria: un elefante bianco, un assoluto spreco, uno sperpero di miliardi per non produrre un solo lingotto o una barra d’acciaio degna di finire nel libro mastro. Continuo a non essere persuaso che la salvezza del Continente africano sia in iniziative oppure in imprese mastodontiche.
È il momento di intraprendere una decentralizzazione, la diffusione di iniziative produttive e di opportunità di piccole dimensioni, che libereranno lo spirito creativo e intraprendente dei nostri popoli.

 

   
   
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