Esiste il rischio concreto che
il successo
americano possa essere replicato
a lungo nel futuro, configurando per lEuropa un ruolo economico
di secondo piano.
|
|
A partire dalla metà degli anni Novanta non solo la produttività
negli Stati Uniti è cresciuta molto, ma lEuropa ha
sperimentato un marcato rallentamento, concentrato in alcune grandi
economie dellarea occidentale del Vecchio Continente (Italia,
Germania), ma tendenzialmente comune a quasi tutta lUnione
a Quindici. Inoltre, lallargamento ha generato timori diffusi
di possibili conseguenze negative, che, per quanto scarsamente fondati,
hanno contribuito a rallentare il passo dellintegrazione europea
e delladozione delle riforme previste dalla strategia di Lisbona.
Le ragioni di questo rallentamento sono state al centro di un dibattito
molto ampio, sia a livello europeo nellambito del processo
di Lisbona, sia a livello dei singoli Stati.
Alcuni autori (tra i quali spicca Blanchard, 2004) sostengono che
la crisi della produttività europea sia più che altro
congiunturale e si configuri come una crisi di crescita, in buona
misura imputabile non allimmobilità del modello europeo,
quanto proprio al processo di riforma del mercato del lavoro, che
ha fatto aumentare il tasso di partecipazione e le ore lavorate,
deprimendo nel breve periodo la crescita della produttività.
La maggioranza degli osservatori, così come le istituzioni
europee, ritiene invece che i dati negativi dal 1995 ad oggi riflettano
un problema di natura strutturale, che risiederebbe, da un lato,
nella specializzazione dellEuropa in settori tradizionali
a media tecnologia (tessile, meccanico, agro-alimentare) e solo
in pochi settori, ormai maturi, ad alta tecnologia; dallaltro,
nel funzionamento insoddisfacente del sistema ricerca-innovazione-diffusione.

Per quanto riguarda il primo punto, nel confronto con gli Stati
Uniti lEuropa appare relativamente specializzata in settori
a medio-alta tecnologia, che non si trovano più sulla frontiera
tecnologica e produttiva, sebbene lo fossero due o tre decenni fa.
Secondo uno studio effettuato per la Commissione europea sulla composizione
della spesa in ricerca e sviluppo e i suoi riflessi sulla crescita
della produttività, lEuropa concentra gran parte della
spesa in R&S nellindustria e, allinterno di questa,
in settori ad alta tecnologia (auto, chimica, energia, costruzioni),
che però sono ormai maturi e mostrano una bassa crescita
della produttività; gli Stati Uniti, al contrario, investono
una quota maggiore dei fondi per la ricerca e sviluppo nei servizi
e in settori industriali ad alta tecnologia, nonché alta
crescita della produttività (elettronica e semiconduttori,
hardware e software, biotecnologie).
Scomponendo la crescita della produttività in 56 settori,
è stato osservato che lEuropa mostra un dato migliore
di quello americano in 37 di essi, ma in tutti i casi (tranne le
telecomunicazioni) si tratta di piccoli aumenti e in settori che
contribuiscono soltanto marginalmente al Prodotto interno lordo
e alla crescita totale della produttività; gli Stati Uniti,
invece, hanno visto unaccelerazione della produttività
notevole in pochi settori, la cui incidenza sul Pil è però
molto grande (intermediazione finanziaria, commercio al dettaglio
e allingrosso) o in cui la crescita della produttività
è molto marcata (semiconduttori, automazione dufficio,
difesa, aerospazio).
LEuropa, in particolare i grandi Paesi dellEuropa continentale,
sembra non essere riuscita ad entrare nel XXI secolo,
a incanalare cioè le risorse verso i settori a più
alta crescita, modificando la propria struttura produttiva, comè
accaduto invece negli Stati Uniti. Come questo sia potuto succedere
richiama nuovamente lattenzione verso un punto preciso, vale
a dire la capacità innovativa del sistema produttivo europeo.
Questo sembra essere inferiore al suo omologo americano in più
di una dimensione.
In primo luogo, gli Stati Uniti spendono in ricerca e innovazione
molto più dellEuropa, il 2,8 per cento del Pil nel
2005, rispetto al 2 per cento dellEuropa a Quindici; in particolare,
spendono molto per grandi progetti sulla frontiera tecnologica,
spesso collegati ad applicazioni militari. Questa spesa in ricerca
di base non porta a ricadute dirette sulla produzione e diffusione
di beni innovativi, ma sposta in avanti le frontiere del possibile,
contribuisce a ridurre i costi e consente nel medio periodo a imprese
innovative di sfruttarne i principali risultati. Inoltre, i cospicui
investimenti pubblici permettono di fare ricerca in settori veramente
nuovi. In Europa la ricerca, specie quella privata, è fortemente
concentrata nei settori maturi di medio-alta tecnologia, gli stessi
che costituiscono lossatura della specializzazione produttiva
europea e mostrano tassi di crescita molto bassi; per quanto questo
fatto sia intuitivo (se un Paese è specializzato nella chimica,
le sue imprese faranno ricerca in quel settore), bisogna osservare
che, con un modello di questo tipo, un aumento della spesa in ricerca
e sviluppo non necessariamente porta a innovazioni radicali in tecnologie
di applicazione generale in grado di avviare una rivoluzione tecnologica.

Il modello americano appare superiore a quello europeo lungo altre
due dimensioni. Per innovare sembra infatti necessaria una massa
critica di investimenti in ricerca che permetta di spostare avanti
la frontiera; solo in un secondo tempo le innovazioni si diffondono
allinterno di alcune imprese (solitamente nuove imprese),
dando luogo a vantaggi tangibili nei settori che producono i prodotti
innovativi; e solo in un tempo ancora più lontano, cioè
quando queste innovazioni si sono diffuse fino a diventare standard
e si sono combinate e integrate con altre innovazioni, appaiono
nelleconomia i vantaggi di produttività più
consistenti, concentrati nei settori che utilizzano le nuove tecnologie.
Gli Stati Uniti hanno dimostrato negli anni Novanta di possedere
sia una struttura produttiva più adatta di quella europea
a trasformare le nuove tecnologie in prodotti vendibili, superando
la critica fase di produzione e diffusione in massa delle innovazioni,
sia le caratteristiche necessarie a stimolare ladozione delle
nuove tecnologie in ampi settori delleconomia nazionale, per
gli usi più disparati e spesso al di là delle intenzioni
di chi sviluppò la tecnologia.
I vantaggi americani in questi due campi sembrano essere collegati
a una serie di istituzioni in grado di produrre quello che Edmund
Phelps in un suo recente intervento ha definito dinamismo. Per Phelps,
si tratta della capacità delleconomia di generare un
flusso di innovazioni tale da permettere quei «cambiamenti
discontinui nellutilizzo del lavoro» che sono alla base
della crescita economica. Il dinamismo sarebbe reso possibile dalloperare
in una serie di istituzioni capitalistiche e di elementi culturali
che consentono al meccanismo della distruzione creatrice di funzionare,
alle risorse finanziarie di indirizzarsi verso i progetti innovativi,
alla popolazione di possedere i mezzi culturali necessari a capire,
e quindi accogliere, le innovazioni e a generarne di nuove. Le riforme
di Lisbona puntano proprio nella dimensione di un maggior dinamismo,
salvaguardando e rinnovando allo stesso tempo lo Stato sociale,
che Phelps vede invece come un insieme di istituzioni corporative,
disegnate per attenuare gli effetti distruttivi della distruzione
creatrice.
Alla luce di tutto questo, la cura proposta dai detrattori
del modello europeo non sembra essere appropriata alle circostanze.
Nonostante il fallimento finora registrato dalla strategia di Lisbona,
e la pressante necessità per lEuropa di ricalibrare
il proprio sistema di Welfare, soprattutto in vista dellinvecchiamento
della sua popolazione e delle nuove esigenze di una società
più flessibile, la proposta di smantellare il modello europeo
per seguire quello americano non è sostenuta dai fatti, specialmente
una volta che si tenga conto della peculiarità dei singoli
Stati europei, delle possibili conseguenze positive dellallargamento
e delle cause del balzo di produttività americano e dellarretramento
relativo europeo.
Se i ritardi dellEuropa rispetto agli Stati Uniti discendono
da scelte della popolazione europea riguardo luso delle risorse
umane e materiali del proprio Continente e da problemi nella capacità
di innovazione, una possibile risposta sta nel rilanciare il processo
di riforme concordato a Lisbona, accentuandone i capitoli relativi
alla ricerca e sviluppo, introducendovi elementi di dinamismo e
affiancandovi una chiara opera di informazione tra gli europei riguardo
i costi (in termini di sviluppo, competitività, ma soprattutto
di potere economico) delle scelte che stanno compiendo.
Compito di un programma di riforma non deve essere modificare radicalmente
le scelte di fondo degli europei sul modo in cui desiderano vivere
il lavoro o il territorio, ma piuttosto individuare un percorso
di crescita che tenga conto di queste scelte, nello stesso tempo
vigilando sulla loro sostenibilità. Gli europei sicuramente
non possono scegliere di lavorare meno ore, tutelare il territorio,
mantenersi stretti i loro campioni nazionali sussidiandoli, e non
investire in ricerca ma in svago e in tempo libero; occorre costruire
una consapevolezza diffusa delle circostanze in cui lEuropa
si trova, consapevolezza che recentemente, come dimostrano i no
riformisti nel referendum francese sulla Costituzione europea e
larenarsi nelle sabbie delle varie politiche nazionali delle
riforme dellagenda di Lisbona, è spesso mancata.
Parte della consapevolezza sta nel pesare in modo accurato i costi
del non-Lisbona, una quota consistente dei quali sta in un
possibile ulteriore arretramento della nostra capacità di
innovazione. Esiste infatti il rischio concreto che il successo
americano possa essere replicato a lungo nel futuro, configurando
per lEuropa un ruolo economico di secondo piano.
Ma la storia non ci condanna: la leadership giapponese nella tecnologia
degli anni Ottanta non permise al Giappone di essere leader nella
rivoluzione degli anni Novanta, così come i produttori di
carrozze della fine dellOttocento non si trasformarono nei
produttori di automobili dellinizio del Novecento. Nonostante
la leadership americana nelle tecnologie attuali, la prossima rivoluzione
tecnologica potrebbe essere made in Europa. Ma questo
dipende dalla nostra capacità di coniugare le scelte dei
popoli europei con le riforme necessarie a garantire che scelte
simili possano essere compiute in futuro.
|