Dicembre 2006

Capacità innovativa

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Miracolo americano
ritardo europeo
M.B. - D.M.B.  
 
 

 

 

Esiste il rischio concreto che
il successo
americano possa essere replicato
a lungo nel futuro, configurando per l’Europa un ruolo economico
di secondo piano.

 

A partire dalla metà degli anni Novanta non solo la produttività negli Stati Uniti è cresciuta molto, ma l’Europa ha sperimentato un marcato rallentamento, concentrato in alcune grandi economie dell’area occidentale del Vecchio Continente (Italia, Germania), ma tendenzialmente comune a quasi tutta l’Unione a Quindici. Inoltre, l’allargamento ha generato timori diffusi di possibili conseguenze negative, che, per quanto scarsamente fondati, hanno contribuito a rallentare il passo dell’integrazione europea e dell’adozione delle riforme previste dalla strategia di Lisbona. Le ragioni di questo rallentamento sono state al centro di un dibattito molto ampio, sia a livello europeo nell’ambito del processo di Lisbona, sia a livello dei singoli Stati.
Alcuni autori (tra i quali spicca Blanchard, 2004) sostengono che la crisi della produttività europea sia più che altro congiunturale e si configuri come una crisi di crescita, in buona misura imputabile non all’immobilità del modello europeo, quanto proprio al processo di riforma del mercato del lavoro, che ha fatto aumentare il tasso di partecipazione e le ore lavorate, deprimendo nel breve periodo la crescita della produttività. La maggioranza degli osservatori, così come le istituzioni europee, ritiene invece che i dati negativi dal 1995 ad oggi riflettano un problema di natura strutturale, che risiederebbe, da un lato, nella specializzazione dell’Europa in settori tradizionali a media tecnologia (tessile, meccanico, agro-alimentare) e solo in pochi settori, ormai maturi, ad alta tecnologia; dall’altro, nel funzionamento insoddisfacente del sistema ricerca-innovazione-diffusione.

Per quanto riguarda il primo punto, nel confronto con gli Stati Uniti l’Europa appare relativamente specializzata in settori a medio-alta tecnologia, che non si trovano più sulla frontiera tecnologica e produttiva, sebbene lo fossero due o tre decenni fa. Secondo uno studio effettuato per la Commissione europea sulla composizione della spesa in ricerca e sviluppo e i suoi riflessi sulla crescita della produttività, l’Europa concentra gran parte della spesa in R&S nell’industria e, all’interno di questa, in settori ad alta tecnologia (auto, chimica, energia, costruzioni), che però sono ormai maturi e mostrano una bassa crescita della produttività; gli Stati Uniti, al contrario, investono una quota maggiore dei fondi per la ricerca e sviluppo nei servizi e in settori industriali ad alta tecnologia, nonché alta crescita della produttività (elettronica e semiconduttori, hardware e software, biotecnologie).
Scomponendo la crescita della produttività in 56 settori, è stato osservato che l’Europa mostra un dato migliore di quello americano in 37 di essi, ma in tutti i casi (tranne le telecomunicazioni) si tratta di piccoli aumenti e in settori che contribuiscono soltanto marginalmente al Prodotto interno lordo e alla crescita totale della produttività; gli Stati Uniti, invece, hanno visto un’accelerazione della produttività notevole in pochi settori, la cui incidenza sul Pil è però molto grande (intermediazione finanziaria, commercio al dettaglio e all’ingrosso) o in cui la crescita della produttività è molto marcata (semiconduttori, automazione d’ufficio, difesa, aerospazio).
L’Europa, in particolare i grandi Paesi dell’Europa continentale, sembra non essere riuscita ad “entrare nel XXI secolo”, a incanalare cioè le risorse verso i settori a più alta crescita, modificando la propria struttura produttiva, com’è accaduto invece negli Stati Uniti. Come questo sia potuto succedere richiama nuovamente l’attenzione verso un punto preciso, vale a dire la capacità innovativa del sistema produttivo europeo. Questo sembra essere inferiore al suo omologo americano in più di una dimensione.
In primo luogo, gli Stati Uniti spendono in ricerca e innovazione molto più dell’Europa, il 2,8 per cento del Pil nel 2005, rispetto al 2 per cento dell’Europa a Quindici; in particolare, spendono molto per grandi progetti sulla frontiera tecnologica, spesso collegati ad applicazioni militari. Questa spesa in ricerca di base non porta a ricadute dirette sulla produzione e diffusione di beni innovativi, ma sposta in avanti le frontiere del possibile, contribuisce a ridurre i costi e consente nel medio periodo a imprese innovative di sfruttarne i principali risultati. Inoltre, i cospicui investimenti pubblici permettono di fare ricerca in settori veramente nuovi. In Europa la ricerca, specie quella privata, è fortemente concentrata nei settori maturi di medio-alta tecnologia, gli stessi che costituiscono l’ossatura della specializzazione produttiva europea e mostrano tassi di crescita molto bassi; per quanto questo fatto sia intuitivo (se un Paese è specializzato nella chimica, le sue imprese faranno ricerca in quel settore), bisogna osservare che, con un modello di questo tipo, un aumento della spesa in ricerca e sviluppo non necessariamente porta a innovazioni radicali in tecnologie di applicazione generale in grado di avviare una rivoluzione tecnologica.

Il modello americano appare superiore a quello europeo lungo altre due dimensioni. Per innovare sembra infatti necessaria una massa critica di investimenti in ricerca che permetta di spostare avanti la frontiera; solo in un secondo tempo le innovazioni si diffondono all’interno di alcune imprese (solitamente nuove imprese), dando luogo a vantaggi tangibili nei settori che producono i prodotti innovativi; e solo in un tempo ancora più lontano, cioè quando queste innovazioni si sono diffuse fino a diventare standard e si sono combinate e integrate con altre innovazioni, appaiono nell’economia i vantaggi di produttività più consistenti, concentrati nei settori che utilizzano le nuove tecnologie.
Gli Stati Uniti hanno dimostrato negli anni Novanta di possedere sia una struttura produttiva più adatta di quella europea a trasformare le nuove tecnologie in prodotti vendibili, superando la critica fase di produzione e diffusione in massa delle innovazioni, sia le caratteristiche necessarie a stimolare l’adozione delle nuove tecnologie in ampi settori dell’economia nazionale, per gli usi più disparati e spesso al di là delle intenzioni di chi sviluppò la tecnologia.
I vantaggi americani in questi due campi sembrano essere collegati a una serie di istituzioni in grado di produrre quello che Edmund Phelps in un suo recente intervento ha definito dinamismo. Per Phelps, si tratta della capacità dell’economia di generare un flusso di innovazioni tale da permettere quei «cambiamenti discontinui nell’utilizzo del lavoro» che sono alla base della crescita economica. Il dinamismo sarebbe reso possibile dall’operare in una serie di istituzioni capitalistiche e di elementi culturali che consentono al meccanismo della distruzione creatrice di funzionare, alle risorse finanziarie di indirizzarsi verso i progetti innovativi, alla popolazione di possedere i mezzi culturali necessari a capire, e quindi accogliere, le innovazioni e a generarne di nuove. Le riforme di Lisbona puntano proprio nella dimensione di un maggior dinamismo, salvaguardando e rinnovando allo stesso tempo lo Stato sociale, che Phelps vede invece come un insieme di istituzioni corporative, disegnate per attenuare gli effetti distruttivi della distruzione creatrice.
Alla luce di tutto questo, la “cura” proposta dai detrattori del modello europeo non sembra essere appropriata alle circostanze. Nonostante il fallimento finora registrato dalla strategia di Lisbona, e la pressante necessità per l’Europa di ricalibrare il proprio sistema di Welfare, soprattutto in vista dell’invecchiamento della sua popolazione e delle nuove esigenze di una società più flessibile, la proposta di smantellare il modello europeo per seguire quello americano non è sostenuta dai fatti, specialmente una volta che si tenga conto della peculiarità dei singoli Stati europei, delle possibili conseguenze positive dell’allargamento e delle cause del balzo di produttività americano e dell’arretramento relativo europeo.
Se i ritardi dell’Europa rispetto agli Stati Uniti discendono da scelte della popolazione europea riguardo l’uso delle risorse umane e materiali del proprio Continente e da problemi nella capacità di innovazione, una possibile risposta sta nel rilanciare il processo di riforme concordato a Lisbona, accentuandone i capitoli relativi alla ricerca e sviluppo, introducendovi elementi di dinamismo e affiancandovi una chiara opera di informazione tra gli europei riguardo i costi (in termini di sviluppo, competitività, ma soprattutto di potere economico) delle scelte che stanno compiendo.
Compito di un programma di riforma non deve essere modificare radicalmente le scelte di fondo degli europei sul modo in cui desiderano vivere il lavoro o il territorio, ma piuttosto individuare un percorso di crescita che tenga conto di queste scelte, nello stesso tempo vigilando sulla loro sostenibilità. Gli europei sicuramente non possono scegliere di lavorare meno ore, tutelare il territorio, mantenersi stretti i loro campioni nazionali sussidiandoli, e non investire in ricerca ma in svago e in tempo libero; occorre costruire una consapevolezza diffusa delle circostanze in cui l’Europa si trova, consapevolezza che recentemente, come dimostrano i “no” riformisti nel referendum francese sulla Costituzione europea e l’arenarsi nelle sabbie delle varie politiche nazionali delle riforme dell’agenda di Lisbona, è spesso mancata.
Parte della consapevolezza sta nel pesare in modo accurato i “costi del non-Lisbona”, una quota consistente dei quali sta in un possibile ulteriore arretramento della nostra capacità di innovazione. Esiste infatti il rischio concreto che il successo americano possa essere replicato a lungo nel futuro, configurando per l’Europa un ruolo economico di secondo piano.
Ma la storia non ci condanna: la leadership giapponese nella tecnologia degli anni Ottanta non permise al Giappone di essere leader nella rivoluzione degli anni Novanta, così come i produttori di carrozze della fine dell’Ottocento non si trasformarono nei produttori di automobili dell’inizio del Novecento. Nonostante la leadership americana nelle tecnologie attuali, la prossima rivoluzione tecnologica potrebbe essere “made in Europa”. Ma questo dipende dalla nostra capacità di coniugare le scelte dei popoli europei con le riforme necessarie a garantire che scelte simili possano essere compiute in futuro.

 

   
   
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