Dicembre 2006

Un altro mondo

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(S)fratelli d’Europa
Zygmunt Bauman Storico e sociologo polacco
 
 

 

 

 

 

Fino a tempi
abbastanza recenti, l’Europa era il centro che faceva del resto del
pianeta una
periferia.

 

Oggi il nostro pianeta non è accogliente per l’Europa. Noi europei viviamo questa scarsa accoglienza come un problema, cioè come una deviazione da ciò che ci si potrebbe legittimamente aspettare, un’anomalia che è necessario rimettere a posto. Dico “rimettere”, perché in passato, presumibilmente, ci sentivamo chez nous sul pianeta: pensavamo che la sua accoglienza nei confronti nostri e delle nostre audaci imprese ci spettasse per diritto, e davamo per scontato che quel sentirsi “a casa nostra” sarebbe durato come se fosse nell’ordine naturale delle cose. L’ospitalità veniva talmente naturale da non balzarci mai all’occhio come un problema che richiedesse una particolare attenzione.
Ryszard Kapuscinski fa notare un cambiamento molto gravido di conseguenze, ancorché surrettizio e sotterraneo, intervenuto nell’umore del pianeta. Nel corso degli ultimi cinque secoli, il dominio militare ed economico dell’Europa ha teso ad essere accompagnato dalla posizione indiscussa dell’Europa stessa come punto di riferimento per giudicare, esaltare o condannare tutte le altre forme, passate e presenti, di vita umana, e come tribunale supremo in cui tali giudizi venivano autorevolmente pronunciati e resi vincolanti.
Era sufficiente essere europei, dice Kapuscinski, per sentirsi padroni e dominatori in ogni altro luogo. Persino una persona mediocre, di umile condizione e di reputazione discutibile nel suo Paese natale (purché europeo!), poteva assurgere ai massimi livelli della società non appena sbarcata in un Paese come la Malaysia o lo Zambia... Ma ora, osserva, non è più così.

L’epoca attuale è contraddistinta dall’autoconsapevolezza sempre più sicura di sé e più esplicita da parte di popoli che, appena mezzo secolo fa, si genuflettevano ancora dinanzi all’altare di culti cargo, mentre oggi dimostrano un senso sempre più marcato del proprio valore, e un’ambizione sempre più evidente di conquistare e conservare un ruolo indipendente e di peso in questo nuovo mondo, sempre più policentrico e multiculturale. Un tempo, chiunque abitasse una contrada lontana poneva domande sull’Europa, mentre adesso non lo fa più nessuno. Oggi i “nativi” hanno compiti e problemi loro, che esigono la loro attenzione, e soltanto questa. Nessuno sembra più attendere con impazienza notizie dall’Europa. Che cosa mai potrebbe accadere in Europa che possa cambiare qualcosa nella loro vita? Eventi davvero significativi possono verificarsi ovunque: l’Europa non è più un luogo preferenziale. La “presenza europea” è sempre meno visibile: sul piano fisico, come su quello spirituale.
Ma nel pianeta è intervenuto anche un altro profondo cambiamento che ci rende apprensivi e che ci mette a disagio. Oggi il vasto mondo “là fuori” (all’altro capo di un volo a lungo raggio da Roma, Londra, Parigi e Amsterdam) ci appare di rado, per non dire mai, come un parco giochi, un territorio avventuroso, irto di sfide emozionanti, ma sicuro con un lieto fine certo e garantito.
A meno che il volo in questione non rientri in uno di quei pacchetti vacanze tutto compreso, che ci conducono nelle località preferite dai turisti, i luoghi che si trovano “all’altro capo” ci appaiono più come un deserto disseminato di pericoli non detti e indicibili, un po’ come le zone interdette, no-go, off-limits, che gli antichi romani contrassegnavano sulle loro mappe del mondo con la scritta “Hic sunt leones”...
Questo è un grande cambiamento: è abbastanza scioccante e traumatico da mandare in pezzi la sicurezza di sé, il coraggio e l’ardimento degli europei.
Effettivamente, fino a tempi abbastanza recenti (i più anziani fra noi li ricordano ancora), l’Europa era il centro che faceva del resto del pianeta una periferia. Nella brillante formulazione di Denis de Rougemont, l’Europa ha scoperto tutte le terre della Terra, ma nessuno ha mai scoperto l’Europa: essa ha dominato tutti i continenti, uno dopo l’altro, ma non è mai stata dominata da alcuno di essi; e ha inventato una civiltà che il resto del mondo ha tentato di imitare, mentre non è mai avvenuto (almeno finora) il processo inverso. Potremmo aggiungere: le guerre degli europei, e soltanto quelle, sono state guerre mondiali.
Fino a tempi abbastanza recenti, l’Europa si poteva ancora definire come Rougemont suggeriva non molto tempo fa, vale a dire in base alla sua “funzione globalizzante”. Per gran parte dei suoi ultimi secoli, l’Europa è stata un continente diverso da tutti gli altri per la sua natura singolarmente avventurosa. Infatti, dopo essere stata la prima ad abbracciare lo stile di vita che successivamente è stato etichettato come “moderno”, l’Europa ha creato localmente problemi che nessuno al mondo aveva mai sentito nominare e che nessuno aveva la minima idea di come risolvere. Ha anche inventato il modo di risolverli, sebbene si trattasse di un modo inidoneo ad essere universalizzato e utilizzato da tutti coloro che sono stati investiti da questi problemi originariamente europei.
L’Europa ha risolto i problemi da essa stessa creati trasformando altre parti del pianeta in fonti di energia o di minerali a basso prezzo, di manodopera poco costosa e docile, e in discariche per i suoi prodotti (e i suoi abitanti) ridondanti e in sovrappiù. In sintesi, l’Europa ha inventato soluzioni globali a problemi prodotti localmente, e ciò facendo, con la pratica, ha costretto tutti gli altri a ricercare, disperatamente e invano, soluzioni locali ai problemi prodotti globalmente.
Adesso tutto questo è finito: di qui lo shock e il trauma, l’ansia e la perdita di fiducia. È finito perché le soluzioni globali ai problemi prodotti localmente sono disponibili soltanto per pochi abitanti del pianeta, e solo finché questi godono di un privilegio di potere sul resto, in quanto beneficiano di un differenziale di potere abbastanza cospicuo da restare indiscusso (o, almeno, messo in discussione in modo inefficace) e ritenuto indiscutibile, e che costituisce perciò un fondamento apparentemente affidabile e rassicurante per un futuro lungo e sicuro. Ma l’Europa non gode più di tale privilegio, né può seriamente sperare di recuperare ciò che ha perduto.
Di qui, un brusco calo della sicurezza di sé dell’Europa, la subitanea esplosione di un acuto interesse per una “nuova identità europea” e per una “ridefinizione del ruolo” dell’Europa nel gioco planetario, in cui le regole e le poste sono drasticamente cambiate e continuano a cambiare, sebbene non siano più sotto il controllo dell’Europa, anzi subiscano un influsso tutt’al più minimo da parte sua.
Di qui anche un’ondata di sentimenti neotribali che s’ingrossa da Copenhagen a Roma e da Parigi a Praga, amplificata e alimentata da allarmi e timori per il “nemico alle porte” e per le “quinte colonne”, e dallo “spirito da fortezza assediata” che ne consegue e che si manifesta nel rapido aumento di popolarità delle frontiere strettamente sorvegliate, dei muri rialzati e dei cancelli sprangati.

 

   
   
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