Dicembre 2006

L'Europa utile

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Il “navigatore” di Roma
Mario Pinzauti  
 
 

 

 

 

 

Date le premesse, prevedere o solo immaginare
soluzioni radicali
e rapide non
sarebbe realistico e nemmeno serio.

 

Il 2007, cinquantesimo dalla firma dei trattati di Roma, anno europeo delle pari opportunità, quasi certo momento di crescita della famiglia comunitaria da 25 a 27 membri, potrebbe essere, per l’Unione, un grande anno, l’anno della resurrezione del processo d’integrazione entrato in grave crisi nel 2005 con i referendum (francese e olandese) che bloccarono la corsa del progetto di Costituzione.
Le premesse favorevoli non sono poche e – almeno secondo gli eurottimisti – sembrano avere un notevole peso. A Berlino, dove il 25 marzo i capi di Stato e di governo dei 25 Paesi membri e dei 2 Paesi candidati (Bulgaria e Romania) si riuniranno per celebrare il mezzo secolo della Comunità, nata con i trattati di Roma, non ci sarà soltanto la solenne, commossa celebrazione di un momento importante, forse il più importante della storia dell’integrazione europea. Verrà annunciato e festeggiato l’allargamento della famiglia comunitaria, la crescita dei suoi membri da 25 a 27, l’aumento dei suoi cittadini da 453 milioni a poco meno di mezzo miliardo. Se ci saranno, come tutti si augurano, i primi risultati positivi dell’azione di pace che, su mandato dell’ONU, molti Paesi dell’Unione stanno conducendo in Libano, si prenderà atto e – è da ritenere – con generale soddisfazione, dell’utilità del primo esperimento di politica internazionale comune realizzato in cinquant’anni. Si elaborerà infine una dichiarazione sottoscritta dai rappresentanti dei 27 Paesi, in cui non ci si limiterà ad approvare il passato e il presente, ma ci si impegnerà per il futuro. L’impegno per il futuro, se tutto andrà per il verso giusto, sarà la resurrezione e il rilancio dell’integrazione da realizzare, tra l’altro, portando sul traguardo, e in tempi non biblici, la Costituzione europea.

Sarà davvero possibile questa conclusione, che potrebbe fare del 2007 un grande anno europeo? Il momento, e lo spirito che l’accompagna – o dovrebbe accompagnarlo – incoraggiano un moderato ottimismo: che è sostenuto anche dalla suggestione che alcuni luoghi e persone dovrebbero esercitare. Berlino, sede del vertice del cinquantesimo, fu la capitale di una sanguinaria dittatura che tentò di soggiogare l’Europa e gli europei con le armi e la prepotenza e oggi è la capitale di uno dei Paesi che più hanno lavorato per unire gli europei con la certezza della pace e la volontà di collaborare tra di loro.
La riunione sarà presieduta da uno statista, il cancelliere Angela Merkel, che da sempre, come i suoi predecessori del dopoguerra, da Adenauer in poi, è in prima fila nella battaglia per l’integrazione e può contare sull’alleanza con un buon numero di altri leader europei – ad esempio, il Presidente del Consiglio italiano, Romano Prodi, che per cinque anni è stato Presidente della Commissione europea – come lei determinati a mettere in archivio la crisi del 2005, l’anno terribile dell’Europa.
Questo ragguardevole insieme di circostanze e posizioni favorevoli non basta tuttavia a dare la certezza sull’esito del risultato. I nostalgici del 2005 sono ancora numerosi e agguerriti, come confermano recenti proposte e ipotesi francesi, chiaramente dirette, nonostante gli equilibrismi dialettici, ad affossare definitivamente il progetto di Costituzione e a imporre all’integrazione un mortificante – e per molti inaccettabile – passo da lumaca.
Il rischio di una dichiarazione finale fatta di uno spreco di parole generiche, somma di compromessi che bene che vada consentano rinvii sine die, sarà dunque sicuramente in agenda a Berlino. Gli uomini e le donne che il 25 marzo chiederanno il semaforo verde per l’integrazione e la Costituzione potranno, però – sempre che lo vogliano – ricorrere a una sorta di asso pigliatutto.
Quest’asso è l’ultima prodezza dell’Europa utile alla quale, da qualche anno, su queste pagine, dedichiamo la nostra attenzione. L’Europa utile, cioè l’insieme delle iniziative comunitarie per migliorare le condizioni di vita dei cittadini dell’Unione, ha scelto proprio il 2007 come data di partenza per quella che finora è forse la sua impresa di maggiore dimensione e significato: uno stanziamento di 308 miliardi di euro da spendere, dal 2007 al 2013, per finanziare la politica europea di coesione, cioè per ridurre i dislivelli economici tra zone prospere e zone in fase di sviluppo, per favorire l’occupazione e migliorare la formazione professionale, per incrementare la ricerca e per molto altro ancora, con lo scopo di permettere ovunque alla società europea un progressivo salto nella qualità delle condizioni di vita dei cittadini.
Nonostante l’imponenza della somma, questa iniziativa è stata definita inadeguata da un buon numero di deputati europei e ci sono dati che confermano la fondatezza del rilievo. Secondo una ricerca della Commissione europea, i lavoratori non specializzati, tra i quali c’è, proporzionalmente, il maggior numero di disoccupati, sono arrivati, nell’Unione, a 80 milioni. Dotare tutti loro, o gran parte di essi, di una buona formazione professionale e facilitare il loro ingresso (o ritorno) nel mondo del lavoro richiede una spesa da capogiro.

Enormi sarebbero anche i finanziamenti necessari per la soluzione di altri problemi, come i seguenti, recentemente segnalati in una dichiarazione da Danuta Hubner, commissario europeo per la politica regionale: a) il 10 per cento della popolazione che risiede nelle zone più povere incide soltanto in misura dell’1,5 per cento sul prodotto interno lordo di queste stesse zone; b) in 47 delle 254 regioni dell’Ue la spesa destinata alla ricerca e allo sviluppo è inferiore allo 0,5 per cento, mentre la media dell’Ue è del 3 per cento.
Date le premesse, di cui nelle dichiarazioni della Hubner si fornisce solo un limitato numero di esempi, prevedere o solo immaginare soluzioni radicali e rapide non sarebbe realistico e nemmeno serio. È invece realistico e serio – e grazie non a speranze ma ai dati sull’esito di precedenti interventi della politica di coesione (su cui daremo qualche particolare tra poco) – prevedere, non solo immaginare, interessanti risultati intermedi in un vicino futuro e un accorciamento sostanziale dei successivi tempi di attesa di un bilancio positivo finale.
Dei 308 miliardi che costituiscono il totale del pacchetto delle misure per la politica di coesione sociale nel periodo 2007-2013, l’81 per cento andrà per l’Obiettivo Convergenza, cioè a favore di 84 regioni in cui 154 milioni di abitanti hanno un Pil pro-capite inferiore al 75 per cento della media europea e di 16 regioni, con una popolazione di 16,4 milioni di abitanti, in cui il Pil supera di poco la soglia prima indicata (75 per cento della media comunitaria), unicamente per gli effetti statistici dell’Unione allargata.
Il grosso, oltre quattro quinti, sarà quindi un’operazione di pronto soccorso di cui beneficeranno, in misura maggiore, i Paesi appena entrati nell’Unione, o in fase d’ingresso (alla Polonia ad esempio andranno circa 59 miliardi, all’Ungheria 20, alla Romania 17, alla Repubblica Ceca 23, alla Slovacchia 9,600, alla Bulgaria 5,800), senza tuttavia ignorare le esigenze di zone e settori in difficoltà dei Paesi considerati più prosperi. Nel caso che ci riguarda più da vicino, quello dell’Italia, per gli stanziamenti Obiettivo Convergenza a nostro favore sono previsti circa 19 miliardi.
Oltre alle spese per l’Obiettivo Convergenza (complessivamente 251 miliardi), il piano per la politica di coesione 2007-2013 stabilisce altri interventi per favorire la crescita dell’occupazione e della formazione professionale, il miglioramento e il rafforzamento delle collaborazioni transfrontaliere e tra le varie regioni, la ricerca, la competitività tra le amministrazioni locali: altri 57 miliardi, per un totale di 308 miliardi.
Quali utili ci si attendono da questo colossale investimento, il maggiore, finora, della politica di coesione europea? In generale, una riduzione del dislivello tra zone avvantaggiate e zone svantaggiate economicamente, con crescite particolarmente apprezzabili (dal 7 al 12 per cento del Pil) nei nuovi Stati membri dell’Europa centro-orientale. Poi successi sensibili nella lotta alla disoccupazione. Si parla della creazione di 2 milioni e mezzo di nuovi posti di lavoro. Poi l’apertura di nuove vie di comunicazione, di passi da gigante nella diffusione e nell’uso delle più recenti tecnologie. E tanto altro.
Sembrano promesse da prendere in seria considerazione? I precedenti inducono a rispondere affermativamente. Dal 1988 a oggi l’Unione ha investito 480 miliardi di euro per la politica di coesione. La somma, pur essendo notevole, è proporzionalmente inferiore, considerando il periodo coperto, a quella di 308 miliardi stanziata con il piano 2007-2013. Eppure, grazie ad essa, è stato possibile conseguire i seguenti risultati:
a) il divario tra le regioni più povere e la media Ue si è ridotto di un sesto e in qualche Paese si sono ottenuti risultati ancora più apprezzabili (nel periodo 1989-1999 l’aumento del Pil per effetto della politica di coesione è stato dell’8,5 per cento in Portogallo e del 10 per cento in Grecia;
b) nello stesso lasso di tempo l’Irlanda è passata dalla condizione di Paese povero alla condizione di Paese prospero (tanto è vero che non riceverà un solo centesimo dei 251 miliardi stanziati per l’Obiettivo Convergenza per il periodo 2007-2013);
c) il sistema di comunicazioni interne spagnole è stato letteralmente rivoluzionato, grazie ai fondi Ue, con la moltiplicazione di strade e autostrade, l’istituzione di un’efficiente rete di mezzi di trasporto urbano e di treni ad alta velocità, permettendo facili e rapidi collegamenti con ogni parte del Paese e un’impennata delle presenze turistiche, fonte primaria dell’economia nazionale;
d) massicci afflussi di denaro europeo per la sostituzione di mezzi di trasporto urbani inquinanti e per la depurazione delle acque fluviali hanno ridato limpidezza a cieli e a corsi d’acqua in Grecia, Polonia, Lituania, Estonia;
e) in Finlandia, in Francia, Germania, Irlanda e Svezia sono stati promossi e in numerosi casi realizzati – sempre grazie alla politica di coesione – poli e imprese di alta tecnologia.
Non è poco. Ma potrà essere di più con i 308 miliardi del piano 2007-2013.
L’ultima impresa dell’Europa ha dunque quanto basta e avanza per rappresentare al vertice di Berlino, in caso di bisogno, l’asso pigliatutto, il colpo di grazia alle resistenze e alle manovre dilatatorie dei governi e delle forze politiche che vorrebbero rendere permanente la crisi del 2005. A condizione che di questa carta sia reso evidente e ampiamente pubblicizzato il peso politico, siano cioè impiegate nelle dichiarazioni e, se possibile, con il sostegno dei principali mezzi di comunicazione, la convinzione e l’enfasi che sono assolutamente necessarie per ottenere la vittoria e che, del resto, in un certo senso, i trattati istitutivi dell’Unione europea rendono obbligatorie imponendo ai governi nazionali di dare la massima evidenza e pubblicità possibili ai benefici che i cittadini ottengono dagli interventi comunitari.
Giocata la partita di Berlino, speriamo con esito favorevole, l’Europa utile della politica di coesione dovrà poi mettersi al lavoro per realizzare al meglio i suoi impegni per migliorare le condizioni di esistenza nella società europea e, se sarà possibile, anche per dare ulteriori contributi al processo d’integrazione. Una serie di correzioni, di aggiustamenti, anche di ripensamenti permetterà di ottimizzare la marcia verso i prossimi obiettivi. Nella sua straordinaria e rigogliosa crescita l’Europa utile ha ottenuto, com’è stato, crediamo, documentato su queste pagine, grandi, enormi successi che le hanno fatto guadagnare un alto numero di consensi. Sia pure raramente, le è accaduto però anche di impantanarsi in errori, imperfezioni, piccoli fallimenti e delusioni che hanno, sia pure eccezionalmente, appannato la sua immagine.
In progress, mentre i lavori per la crescita dell’Europa utile continuavano il loro corso, i fatti e gli atti oggetti di spesso (non sempre) giustificate critiche si sono progressivamente ridotti di numero e di spessore. Ma talvolta, per responsabilità delle istituzioni europee, di governi, regioni e altre amministrazioni locali, si verificano ancora.
Guardando ai casi nostri, ad esempio, sono ben 239 le procedure aperte nei confronti dell’Italia dalla Commissione europea per mancata applicazione del diritto comunitario e per mancato recepimento di direttive europee. Situazioni di questo genere, che si ripetono purtroppo in altri Paesi, costano ritardi se non l’annullamento di interventi dell’Unione, in qualche caso procedimenti presso la Corte di Giustizia, con la perdita di altro tempo e denaro (tra l’altro per le penalità che possono essere inflitte agli inadempienti).
Non siamo più agli eclatanti e scandalosi episodi verificatisi alcuni anni fa, quando parecchie centinaia di miliardi destinati a diversi Paesi dell’Unione, tra cui l’Italia, andarono letteralmente in fumo per errori e ritardi sia delle istituzioni europee sia dei governi nazionali e delle amministrazioni locali. Ma il problema, come dice il dato prima riferito, quello delle 239 procedure aperte nei confronti dell’Italia, è ancora lontano dalla soluzione.
Meno male che per avvicinarlo sempre di più alla soluzione tutte le parti interessate si sono messe seriamente al lavoro, come sembrano confermare una serie di recenti iniziative in gran parte dirette a ridurre e a rendere più facilmente comprensibili e applicabili le procedure che regolano i due binari (quello delle istituzioni europee e quello gestito dai governi nazionali e dalle amministrazioni locali) sui quali viaggia la collaborazione tra i vari soggetti interessati.
Ecco, in proposito, le novità più recenti, tra cui una, secondo noi di particolare interesse, made in Italy, più precisamente made in Roma, a Palazzo Chigi.
La Commissione europea ha di recente annunciato di avere semplificato e alleggerito le procedure che via Bruxelles-capitali nazionali-capoluoghi regionali e viceversa consentono l’apertura, l’esame e le decisioni sulle richieste per ottenere i finanziamenti previsti dal Piano di Coesione. Tre nuovi strumenti di ingegneria finanziaria faciliteranno questo dialogo-collaborazione: “Jaspers” (per l’assistenza a progetti in regioni europee); “Jeremie” (per l’utilizzo delle risorse disponibili per piccole e medie imprese); “Jessica” (per assistenza alle iniziative per lo sviluppo sostenibile delle aree urbane). Chi fosse interessato a sapere qualcosa di più oltre agli scarni titoli da noi forniti può rivolgersi a: http//:ec.europa/regional.policy.
E per finire, un’occhiata all’oggetto nostrano: il CIACE (Centro Interministeriale per gli Affari Comunitari). Nato con una legge di un anno fa è, si può dire, una sorta di “navigatore” che assiste e consiglia uomini e istituzioni che in Italia si occupano dell’Europa, della sua politica, anche dei suoi benefici accompagnandoli, quando è necessario guidandoli, nei meandri degli organi, dei meccanismi, delle leggi e delle regole dell’Unione europea. È stato definito una sorta di «cabina di regia e di monitoraggio» del rapporto Italia-istituzioni europee. Secondo Emma Bonino, ministro per le politiche europee, il Centro – che ha sede presso la Presidenza del Consiglio – svolge un lavoro della massima importanza «data la crescente complessità delle tematiche trattate a livello europeo, la molteplicità degli interlocutori, l’esigenza d’intervenire tempestivamente nel processo decisionale, la necessità di definire una strategia negoziale complessiva stringendo alleanze con gli altri partners».
Se come “navigatore” europeo dell’Italia funzionerà al meglio, il CIACE potrebbe forse evitarci la ripetizione di problemi come quelli che ci sono costati le 239 procedure aperte dalla Commissione europea nei confronti del nostro Paese. Sarebbe uno straordinario risultato. Speriamo che sia davvero possibile.

 

   
   
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