Dicembre 2006

La lezione di Einaudi

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Contro le trincee
del mercato
Mario Draghi Governatore di Bankitalia
 
 

 

 

Tema ricorrente nei suoi scritti
è la denuncia
dei monopoli
privati, e di ogni tentativo delle
imprese private
di introdurre
restrizioni
di mercato.

 

Luigi Einaudi ebbe vita lunga e attivissima. Quando pubblicò i primi saggi, nel 1893, Giuseppe Verdi aveva appena ultimato il “Falstaff”; quando morì, a 87 anni, Federico Fellini aveva appena impressionato il pubblico italiano con “La dolce vita”.
Figura di assoluto rilievo nella vita pubblica nazionale, Einaudi credette fermamente nell’interazione tra i circoli intellettuali italiani, europei e americani. Fu amico di personaggi quali Hayek, Huizinga e Röpke; ebbe un ruolo fondamentale nella traduzione in italiano di molti autori, tra cui Beveridge; e svolse un’intensa attività di consulente per la Fondazione Rockefeller, con grande beneficio per molti giovani italiani, che poterono studiare presso le università britanniche e americane anche durante il periodo fascista. Per tre decenni fu corrispondente dell’Economist dall’Italia: fu dunque anche attraverso i suoi occhi che politici e uomini d’affari di tutto il mondo percepivano le questioni italiane.
In un famoso scritto, Einaudi celebrò la «bellezza della lotta»: lotta pacifica, s’intende: tra persone, idee e operatori di mercato; anche tra classi sociali. Lo sforzo individuale e collettivo, la concorrenza, generano progresso; la regolamentazione eccessiva, il collettivismo forzato, la pianificazione dall’alto lo ostacolano. Egli vedeva con favore qualunque provvedimento, regola o istituzione che fosse volta a promuovere la creatività umana; ma qualsiasi istituto giuridico, o d’altra natura, che rischiasse di bloccare deliberatamente o meno l’evoluzione della società imbrigliando l’iniziativa umana, era per lui occasione per le sue analisi accurate e pignole; finiva sempre per metterne in evidenza tutti i limiti e i problemi. Sostenne e difese l’idea di un sistema giuridico basato su poche, semplici leggi e sulla loro rigida applicazione.

Nonostante la sua grande autorevolezza intellettuale, non riuscì sempre, e forse nemmeno spesso, a persuadere i legislatori e i “policymaker” del suo tempo. Per quasi tutta la vita, la sua fu la voce di una minoranza: rispettata, ma minoranza. In molti casi, la giustezza delle sue posizioni è stata riconosciuta più tardi. Ma la lezione è stata compresa solo a metà; in larga misura il pensiero di Einaudi è oggi attuale quanto ai suoi tempi. In gran parte dell’Europa continua ancora l’illusoria ricerca della regolamentazione perfetta e del piano perfetto.
Sebbene fermo nelle sue convinzioni fondamentali sul liberalismo economico e politico, Einaudi non fu un dogmatico; per quel che riguarda il libero mercato, la sua posizione può essere descritta come quella di un ottimista, non di un ingenuo. Chiarì che vedeva l’idea del “laissez faire” non tanto come un principio scientifico inequivocabilmente dimostrato, quanto come una norma insegnata dall’esperienza. Col tempo, gli sviluppi dell’economia del welfare ci hanno resi più sensibili alle esternalità e ai fallimenti del mercato di quanto lo potesse essere Einaudi. Nondimeno, egli ebbe chiara consapevolezza dell’importanza, per il buon funzionamento dei mercati, della qualità del quadro giuridico e della regolamentazione. Credeva profondamente nell’idea di una parità dei punti di partenza, e accettava che dovessero esservi forme di redistribuzione del reddito.
Scrisse che l’esistenza di ostacoli all’innovazione (“trincee”, così li definiva), benché ubiquitaria, in Italia era molto più diffusa che altrove. Questi ostacoli assumono forme molteplici: dazi doganali, norme che impediscono l’entrata di nuovi concorrenti nei mercati esistenti, leggi che pongono ostacoli all’introduzione di prodotti innovativi, accordi di cartello tra i produttori per limitare la concorrenza e l’innovazione. Tutto va a detrimento del consumatore. Tema ricorrente nei suoi scritti è la denuncia dei monopoli privati, e di ogni tentativo delle imprese private di introdurre restrizioni di mercato. Ma in Italia per lui la fonte principale di restrizione nei mercati era, in una forma o nell’altra, lo Stato medesimo; le posizioni dominanti di molte imprese costituivano, in molti casi, il risultato di normative restrittive.
Nel 1947, come membro dell’Assemblea Costituente della Repubblica di cui sarebbe poi divenuto il primo Presidente a pieno titolo, Einaudi propose di inserire nella Costituzione una clausola anti-monopolio: «La legge non è strumento di formazione di monopoli economici; ed ove questi esistano li sottopone a pubblico controllo a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta».
La sua proposta fu respinta con argomentazioni non convincenti; una normativa nazionale antitrust arrivò molto dopo la morte di Einaudi. Ma l’alleanza tra corporazioni pubbliche e interessi privati per creare privilegi ha perseguitato l’Italia fino ai nostri giorni.

Non mancò di estendere le sue convinzioni a favore del mercato al settore bancario. In un articolo del 1935, egli manifestò la propria sfiducia nei confronti delle opinioni di un personaggio fittizio, che chiamò il “razionalizzatore”, secondo il quale occorreva regolamentare minuziosamente dall’alto l’industria bancaria, giungendo fino a stabilire il numero preciso delle banche sul mercato. Aveva anche scarsa simpatia per le numerose restrizioni all’attività bancaria (geografiche, settoriali, relative alla tipologia di credito), che sarebbero rimaste in vigore fino agli anni Novanta.
Per quanto riguarda la vigilanza bancaria, era favorevole a un approccio flessibile piuttosto che a norme eccessivamente rigide e minuziose. Scrisse che se la normativa regola troppo rigidamente, finisce con l’ostacolare transazioni utili, ed è impotente a impedire quelle pericolose. In questo modo di pensare si possono trovare temi e orientamenti che sono stati presenti, a livello internazionale, nell’evoluzione dell’attività di vigilanza in tempi recenti.
In Italia, gran parte dell’impulso verso riforme orientate al mercato è venuto nel corso degli anni dalle istituzioni europee. L’Europa fu un tema ricorrente dei suoi scritti, fin da un’epoca assai precoce. Sostenne l’idea di una federazione europea subito dopo la Prima guerra mondiale. Dalle colonne del Corriere della Sera, con lo pseudonimo di Junius, scrisse che la Società delle Nazioni sarebbe stata inefficace perché dipendeva troppo dalla buona volontà dei singoli Stati; perorò la causa di una federazione delle nazioni europee.
All’epoca, questi scritti passarono virtualmente inosservati. Tornò sullo stesso argomento verso la fine della Seconda guerra mondiale. Quali devono essere i compiti di una federazione europea? Su questo ebbe idee ambivalenti; gli argomenti contrastanti che espresse ricordano certi temi del dibattito europeo di oggi. Einaudi parla in modo chiarissimo dell’urgenza di «unificare alcune questioni economiche», tra le quali la moneta. Delegare alla federazione la normativa sulla moneta e sui suoi sostituti sembra indiscutibile, scriveva, (eppure, ci sono voluti 45 anni). Elenca i vantaggi dell’unione monetaria europea in termini inequivocabilmente simili a quelli utilizzati nel dibattito sull’euro, che ha avuto luogo quasi mezzo secolo dopo. Sostiene con vigore che la principale virtù di un’unione monetaria risiede nel suo porre fine alla sovranità monetaria dei singoli Stati, e ai relativi rischi di «falsificare la moneta», così diceva, per mezzo dell’inflazione o dell’iperinflazione.
Nel 1939 i pensieri di Einaudi sull’Europa trovarono due attenti lettori che avrebbero poi avuto un ruolo chiave nel federalismo europeo. Ernesto Rossi e Altiero Spinelli – il primo amico e studente di Einaudi, il secondo ex membro del partito comunista – erano stati imprigionati per dieci anni dal Governo fascista e poi esiliati a Ventotene. Spinelli rimase immediatamente affascinato dagli articoli di Junius; Rossi riuscì a fargli avere materiale sul dibattito sul federalismo in Inghilterra, incluse le opere di Lionel Robbins. Si può dire che Einaudi contribuì indirettamente alla nascita nel 1941 del Manifesto di Ventotene, una delle basi fondanti del movimento politico federalista europeo.
Anche se non avesse avuto alcun ruolo di “policymaker”, Luigi Einaudi verrebbe ricordato come un grande comunicatore ed educatore. In realtà, anche i successi che conseguì nella sua attività al servizio dello Stato furono in parte non piccola dovuti al suo modo chiaro ed efficace di scrivere e parlare in pubblico. Il suo stile di comunicazione franco e diretto, la sua scelta di spiegare, con linguaggio semplice, le decisioni di “policy” in uno specifico capitolo della Relazione annuale della Banca d’Italia – le Considerazioni finali da lui inaugurate – costituirono un significativo passo in avanti nella direzione di una maggiore “accountability” nelle scelte di politica monetaria.
Sessant’anni fa Einaudi parlò per l’ultima volta come Governatore della Banca d’Italia. Nella democrazia italiana allora nuova, fu sotto la sua leadership che la Banca d’Italia, già un’istituzione prestigiosa e rispettata, cominciò ad assumere un ruolo speciale, forse unico tra le Banche centrali. Un ruolo custodito da tutti i successori di Einaudi: quello di un consulente indipendente e fidato del Parlamento, del Governo, della pubblica opinione.

 

   
   
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