Gogol è fra noi perché la Storia
ha realizzato
i desideri di una generazione
(i suoi sogni, le sue utopie) in una forma perversa.
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Il passato remoto, per esempio. La decadenza post-rinascimentale
resta il grande problema della nostra storia. Tra lorrendo
sacco di Roma nel maggio 1527 e lancor più orrendo
se possibile sacco di Mantova nel luglio 1630, lItalia,
che da tre o quattro secoli per vita civile e per cultura era stata
la prima dEuropa e tale era considerata e ammirata, divenne
un Paese di secondo piano, arretrato nelleconomia, nelle scienze,
nella tecnica, nello sviluppo del pensiero e dello spirito moderno,
e totalmente dipendente dalla politica delle Grandi Potenze. La
si apprezzava ormai come regione di antiche, gloriose memorie e
per varie abilità artistiche, per la vitalità dei
singoli e per il forte colore locale della vita popolare, per la
bellezza dei suoi paesaggi e per la sua opulenta archeologia, per
i suoi monumenti e per le opere darte; ma la si considerava
poco o per nulla quanto a vita e a consistenza morale. Un Paese
essenziale per la formazione e per lesperienza dei giovani,
delle classi colte, dei ceti dirigenti del Vecchio Continente, ma,
simultaneamente, una terra che ancora in pieno Ottocento uno scrittore
del prestigio di Lamartine definiva una terra di morti. Giuseppe
Giusti gli replicò. Ma con quali argomenti? Più o
meno: noi eravamo civili quando voi eravate barbari; cioè,
con la rievocazione del passato, non con argomenti di valore attuale.
Lo ricorda Gregory Hanlon nel suo volume Storia dellItalia
moderna. 1550-1800.
Lo storico afferma a ragione che a metà del Settecento lItalia
appariva «sempre più arcaica» ai nordeuropei.
Non una Penisola disancorata dal contesto continentale, ma sempre
più attardata, sempre più lontana dalla vetta prima
occupata. Anche se in qualche modo il Paese si muoveva e si trasformava,
non restando del tutto estraneo ai mutamenti che coinvolgevano lEuropa.

Si trasformava anche il Sud, dove ciò che Hanlon definisce
come arcaicità di quellItalia era più
forte e generale che al Nord, ma che cambiava anchesso, configurando
lItalia come un Paese a due velocità. Nel ciclo negativo
iniziato col Seicento, Hanlon vede «un progresso» consistente
«almeno in parte nel fatto che una percentuale rilevante di
persone prese a vivere, oltre che in famiglia, in comunità
sempre più allargate e articolate (borghi e villaggi) e che
lo Stato moderno, la religione controriformata, una morale più
civile fecero venir fuori gli italiani da una logica delle fazioni
per inserirle in più ampie entità politiche e sociali».
Un elemento positivo si scorgerebbe pure nellattività
dellInquisizione: grazie ad essa fu operata, secondo Hanlon,
una «metamorfosi», che «si tradusse in una pietà
più tiepida», ma «rafforzò la graduale
secolarizzazione della società occidentale».
Secondo lo storico, dunque, è nelleconomia che si annidava
il tarlo che poi determinò la nostra decadenza. Sono lontane,
quasi remote, le motivazioni dedotte da chi (De Sanctis, Chabod,
Valeri, Morandi...), osservando la tradizione italiana, vi aveva
visto soprattutto un problema della coscienza morale e civile della
nostra gente. A me sembra, infatti, che il problema morale, etico-politico,
di coscienza civile e religiosa posto dalla storiografia sia sempre
centrale per la storia dellItalia post-rinascimentale. Ridurre
tutto questo a un fatto marginale, oppure espungerlo dal contesto,
significa mutilare quella storia del suo cuore. Al di là
di mentalità e di comportamenti, la storia esige sempre una
spinta di altro ordine per qualsiasi salto di qualità. Tutti
i mutamenti registrabili nella complessa vicenda italiana ebbero
bisogno di una spinta del genere perché per esempio
potesse avviarsi il Risorgimento, che non fu, perciò,
una continuazione, ma una rottura con la precedente storia della
Penisola. Anchessa inutile per il riscatto del Sud.
Il passato medio, ancora per esempio. A riscattare il Mezzogiorno
non servì proprio il Risorgimento, che anzi culminò,
dallUnità fin quasi alla fine del secolo XIX, in una
sanguinosa guerra civile per la riconquista del Reame.
Le stragi dei bersaglieri a cavallo, le fucilazioni dopo processi
sommari, le condanne a lunghe o a perpetue detenzioni, le devastazioni
di borghi e villaggi approfondirono il solco che separava la civiltà
meridionale da tutte le altre, grazie alla protezione, a nord, dellacqua
santa (lo Stato pontificio), e, a sud, dellacqua salata (il
Mediterraneo).

Non servì neanche il primo conflitto mondiale, che anzi
lasciò per il Sud una lugubre scia di morti sui fronti alpini
e una massa enorme di invalidi nelle regioni dorigine. Come
non servì il fascismo, che pure aveva puntato sul nazionalismo
come cemento unificatore; né servì il vento
del nord, che si infranse tra la linea Gotica e la Gustav;
né servirono ricostruzioni, interventi straordinari, anni
di frontiera, progetti di Californie, e quantaltro. Certo,
non è, non può essere solo quella economica la dimensione
unificatrice; ma non può esserlo neanche linfinito
purgatorio dellattesa, leterno stare in bilico, lingannevole
catena automatica di speranze prospettate e di delusioni sistematicamente
presenti in calce al conto del dare e dellavere. E non credo
(non è giusto) che debba proseguire una storia di speranza
dopo speranza, di un atto consolatorio dopo un altro atto consolatorio
perché chi ha determinato la nostra rovina (e causato formazioni
di mafie, decadenza morale, anarchismo individualista, cinismo carsico,
malamente compensato dal nostro risvolto di medaglia che rappresenta
la disponibilità al sacrificio, labilità creativa,
la fantasia propositiva, la vocazione allamicizia e allospitalità...)
ci considera soltanto delle anime morte, e tuttal più
i soliti diavoli che abitano il paradiso paesaggistico e monumentale
che alimenta il nostro romantico orgoglio e tocca le corde più
segrete del cuore.
Per costoro, noi restiamo come diceva Fiore unespressione
archeologica, che ha bisogno di eterne manutenzioni, protezioni
e messe a punto, diventando una macchina mangiasoldi che sollecita
i livori (e svela tutta lignoranza della realtà) dei
grassi popoli che abitano le terre del mais. Gogol è fra
noi perché la Storia ha realizzato i desideri di una generazione
(i suoi sogni, le sue utopie) in una forma perversa. I contestatori
dei miei tempi credevano che, smantellando le istituzioni, si potessero
produrre delle comunità: relazioni faccia a faccia di fiducia
e di solidarietà, costantemente rinegoziate e rinnovate;
un mondo orientato in senso comunitario, nel quale ciascuno sarebbe
diventato sensibile ai bisogni degli altri.
Niente di tutto questo è avvenuto. Ha ammesso il grande sociologo
americano Richard Sennet: la frammentazione delle grandi istituzioni
ha fatto sì che molte persone vivano in una condizione anchessa
frammentata.
I luoghi dove la gente lavora (e certe volte dove anche vive) assomigliano
più a stazioni ferroviarie o a piste di decollo che a villaggi,
e le esigenze del lavoro hanno indotto anche un disorientamento
della vita familiare. Lemigrazione è licona dellepoca
globale che ci spinge ad andare avanti anziché assestarci.
Smantellare le istituzioni (negare certi antichi valori) non ha
prodotto più comunità.
Chiunque sia incline a sentimenti nostalgici e quale anima
sensibile, non-morta, non lo è? potrebbe rammaricarsi
per questo stato di cose. Comunque, lo scorso mezzo secolo ha rappresentato
anche unepoca nella quale è stata creata ricchezza,
in Asia, in America Latina, nei Paesi del Nord: una nuova ricchezza
strettamente connessa allo smantellamento di strutture statali e
di burocrazie industriali rigide. Anche la rivoluzione tecnologica
dellultima generazione è fiorita nelle istituzioni
meno sottoposte a controlli centralizzati. Una crescita siffatta
ha senza alcun dubbio un prezzo elevato, uguale a una diseguaglianza
economica sempre più evidente e una sempre maggiore instabilità,
appunto, economica. Tuttavia, se pensassimo che questa esplosione
economica non sarebbe mai dovuta avvenire non saremmo ragionevoli.
È qui che entra in scena la cultura, intesa in senso antropologico,
più che in senso artistico. Quali valori e quali pratiche
possono tenere assieme le persone se le istituzioni nelle quali
esse vivono (e i valori che erano stati fondanti) si frammentano
o si smarriscono? La mia generazione ha dimostrato scarsa fantasia
nel rispondere a questa domanda, puntando sulle virtù delle
piccole comunità. La comunità non è lunico
modo di mantenere coesa una cultura. È evidente che anche
gli abitanti di una città vivono in una cultura comune, sebbene
non si conoscano tra loro. Ma il problema del vincolo culturale
non è una pura e semplice questione di dimensioni.
Dunque: è in grado di prosperare in condizioni sociali instabili
e frammentate solo lindividuo che riesce a fronteggiare tre
sfide: la prima, che riguarda il tempo, è come gestire relazioni
a breve termine e se stessi vagando da unattività allaltra,
da un lavoro allaltro, da un luogo allaltro, creando
per se stessi una biografia su accadimenti estemporanei; la seconda
è come sviluppare nuove abilità e dischiudere nuove
capacità, se mutano le esigenze della realtà, visto
che nelleconomia dei nostri giorni, compresi la tecnologia,
le scienze e i settori più avanzati della produzione, i lavoratori
sono costretti ad aggiornarsi, cambiando radicalmente il loro modo
di lavorare mediamente ogni otto-dodici anni: il nuovo ordine sociale
emergente, infatti, combatte contro lideale del lavoro artigiano,
che impara benissimo a fare una cosa soltanto, con conseguenze ritenute
dai più distruttive; la terza riguarda la disponibilità
a rinunciare alle abitudini e a staccarsi dal passato: è
necessario essere inclini a tenere in scarsa o nulla considerazione
le esperienze che un essere umano ha fatto già.
In estrema sintesi: lideale culturale promosso dalle nuove
istituzioni danneggia molte persone che vivono in esse. E ciò
contribuisce a determinare lallargamento di territori desolati,
di deserti senza neanche un tartaro. Di anime morte.
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