Dicembre 2006

 

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Gogol fra noi
Aldo Bello  
 
 

 

 

Gogol è fra noi perché la Storia ha realizzato
i desideri di una generazione
(i suoi sogni, le sue utopie) in una forma perversa.

 

Il passato remoto, per esempio. La decadenza post-rinascimentale resta il grande problema della nostra storia. Tra l’orrendo sacco di Roma nel maggio 1527 e l’ancor più orrendo – se possibile – sacco di Mantova nel luglio 1630, l’Italia, che da tre o quattro secoli per vita civile e per cultura era stata la prima d’Europa e tale era considerata e ammirata, divenne un Paese di secondo piano, arretrato nell’economia, nelle scienze, nella tecnica, nello sviluppo del pensiero e dello spirito moderno, e totalmente dipendente dalla politica delle Grandi Potenze. La si apprezzava ormai come regione di antiche, gloriose memorie e per varie abilità artistiche, per la vitalità dei singoli e per il forte colore locale della vita popolare, per la bellezza dei suoi paesaggi e per la sua opulenta archeologia, per i suoi monumenti e per le opere d’arte; ma la si considerava poco o per nulla quanto a vita e a consistenza morale. Un Paese essenziale per la formazione e per l’esperienza dei giovani, delle classi colte, dei ceti dirigenti del Vecchio Continente, ma, simultaneamente, una terra che ancora in pieno Ottocento uno scrittore del prestigio di Lamartine definiva una terra di morti. Giuseppe Giusti gli replicò. Ma con quali argomenti? Più o meno: noi eravamo civili quando voi eravate barbari; cioè, con la rievocazione del passato, non con argomenti di valore attuale. Lo ricorda Gregory Hanlon nel suo volume “Storia dell’Italia moderna. 1550-1800”.
Lo storico afferma a ragione che a metà del Settecento l’Italia appariva «sempre più arcaica» ai nordeuropei. Non una Penisola disancorata dal contesto continentale, ma sempre più attardata, sempre più lontana dalla vetta prima occupata. Anche se in qualche modo il Paese si muoveva e si trasformava, non restando del tutto estraneo ai mutamenti che coinvolgevano l’Europa.

Si trasformava anche il Sud, dove ciò che Hanlon definisce come “arcaicità” di quell’Italia era più forte e generale che al Nord, ma che cambiava anch’esso, configurando l’Italia come un Paese a due velocità. Nel ciclo negativo iniziato col Seicento, Hanlon vede «un progresso» consistente «almeno in parte nel fatto che una percentuale rilevante di persone prese a vivere, oltre che in famiglia, in comunità sempre più allargate e articolate (borghi e villaggi) e che lo Stato moderno, la religione controriformata, una morale più civile fecero venir fuori gli italiani da una logica delle fazioni per inserirle in più ampie entità politiche e sociali». Un elemento positivo si scorgerebbe pure nell’attività dell’Inquisizione: grazie ad essa fu operata, secondo Hanlon, una «metamorfosi», che «si tradusse in una pietà più tiepida», ma «rafforzò la graduale secolarizzazione della società occidentale».
Secondo lo storico, dunque, è nell’economia che si annidava il tarlo che poi determinò la nostra decadenza. Sono lontane, quasi remote, le motivazioni dedotte da chi (De Sanctis, Chabod, Valeri, Morandi...), osservando la tradizione italiana, vi aveva visto soprattutto un problema della coscienza morale e civile della nostra gente. A me sembra, infatti, che il problema morale, etico-politico, di coscienza civile e religiosa posto dalla storiografia sia sempre centrale per la storia dell’Italia post-rinascimentale. Ridurre tutto questo a un fatto marginale, oppure espungerlo dal contesto, significa mutilare quella storia del suo cuore. Al di là di mentalità e di comportamenti, la storia esige sempre una spinta di altro ordine per qualsiasi salto di qualità. Tutti i mutamenti registrabili nella complessa vicenda italiana ebbero bisogno di una spinta del genere perché – per esempio – potesse avviarsi il Risorgimento, che non fu, perciò, una continuazione, ma una rottura con la precedente storia della Penisola. Anch’essa inutile per il riscatto del Sud.
Il passato medio, ancora per esempio. A riscattare il Mezzogiorno non servì proprio il Risorgimento, che anzi culminò, dall’Unità fin quasi alla fine del secolo XIX, in una sanguinosa guerra civile per la “riconquista” del Reame. Le stragi dei bersaglieri a cavallo, le fucilazioni dopo processi sommari, le condanne a lunghe o a perpetue detenzioni, le devastazioni di borghi e villaggi approfondirono il solco che separava la civiltà meridionale da tutte le altre, grazie alla protezione, a nord, dell’acqua santa (lo Stato pontificio), e, a sud, dell’acqua salata (il Mediterraneo).

Non servì neanche il primo conflitto mondiale, che anzi lasciò per il Sud una lugubre scia di morti sui fronti alpini e una massa enorme di invalidi nelle regioni d’origine. Come non servì il fascismo, che pure aveva puntato sul nazionalismo come cemento unificatore; né servì il “vento del nord”, che si infranse tra la linea Gotica e la Gustav; né servirono ricostruzioni, interventi straordinari, anni di frontiera, progetti di Californie, e quant’altro. Certo, non è, non può essere solo quella economica la dimensione unificatrice; ma non può esserlo neanche l’infinito purgatorio dell’attesa, l’eterno stare in bilico, l’ingannevole catena automatica di speranze prospettate e di delusioni sistematicamente presenti in calce al conto del dare e dell’avere. E non credo (non è giusto) che debba proseguire una storia di speranza dopo speranza, di un atto consolatorio dopo un altro atto consolatorio perché chi ha determinato la nostra rovina (e causato formazioni di mafie, decadenza morale, anarchismo individualista, cinismo carsico, malamente compensato dal nostro risvolto di medaglia che rappresenta la disponibilità al sacrificio, l’abilità creativa, la fantasia propositiva, la vocazione all’amicizia e all’ospitalità...) ci considera soltanto delle anime morte, e tutt’al più i soliti diavoli che abitano il paradiso paesaggistico e monumentale che alimenta il nostro romantico orgoglio e tocca le corde più segrete del cuore.
Per costoro, noi restiamo – come diceva Fiore – un’espressione archeologica, che ha bisogno di eterne manutenzioni, protezioni e messe a punto, diventando una macchina mangiasoldi che sollecita i livori (e svela tutta l’ignoranza della realtà) dei grassi popoli che abitano le terre del mais. Gogol è fra noi perché la Storia ha realizzato i desideri di una generazione (i suoi sogni, le sue utopie) in una forma perversa. I contestatori dei miei tempi credevano che, smantellando le istituzioni, si potessero produrre delle comunità: relazioni faccia a faccia di fiducia e di solidarietà, costantemente rinegoziate e rinnovate; un mondo orientato in senso comunitario, nel quale ciascuno sarebbe diventato sensibile ai bisogni degli altri.
Niente di tutto questo è avvenuto. Ha ammesso il grande sociologo americano Richard Sennet: la frammentazione delle grandi istituzioni ha fatto sì che molte persone vivano in una condizione anch’essa frammentata.
I luoghi dove la gente lavora (e certe volte dove anche vive) assomigliano più a stazioni ferroviarie o a piste di decollo che a villaggi, e le esigenze del lavoro hanno indotto anche un disorientamento della vita familiare. L’emigrazione è l’icona dell’epoca globale che ci spinge ad andare avanti anziché assestarci. Smantellare le istituzioni (negare certi antichi valori) non ha prodotto più comunità.
Chiunque sia incline a sentimenti nostalgici – e quale anima sensibile, non-morta, non lo è? – potrebbe rammaricarsi per questo stato di cose. Comunque, lo scorso mezzo secolo ha rappresentato anche un’epoca nella quale è stata creata ricchezza, in Asia, in America Latina, nei Paesi del Nord: una nuova ricchezza strettamente connessa allo smantellamento di strutture statali e di burocrazie industriali rigide. Anche la rivoluzione tecnologica dell’ultima generazione è fiorita nelle istituzioni meno sottoposte a controlli centralizzati. Una crescita siffatta ha senza alcun dubbio un prezzo elevato, uguale a una diseguaglianza economica sempre più evidente e una sempre maggiore instabilità, appunto, economica. Tuttavia, se pensassimo che questa esplosione economica non sarebbe mai dovuta avvenire non saremmo ragionevoli.
È qui che entra in scena la cultura, intesa in senso antropologico, più che in senso artistico. Quali valori e quali pratiche possono tenere assieme le persone se le istituzioni nelle quali esse vivono (e i valori che erano stati fondanti) si frammentano o si smarriscono? La mia generazione ha dimostrato scarsa fantasia nel rispondere a questa domanda, puntando sulle virtù delle piccole comunità. La comunità non è l’unico modo di mantenere coesa una cultura. È evidente che anche gli abitanti di una città vivono in una cultura comune, sebbene non si conoscano tra loro. Ma il problema del vincolo culturale non è una pura e semplice questione di dimensioni.
Dunque: è in grado di prosperare in condizioni sociali instabili e frammentate solo l’individuo che riesce a fronteggiare tre sfide: la prima, che riguarda il tempo, è come gestire relazioni a breve termine e se stessi vagando da un’attività all’altra, da un lavoro all’altro, da un luogo all’altro, creando per se stessi una biografia su accadimenti estemporanei; la seconda è come sviluppare nuove abilità e dischiudere nuove capacità, se mutano le esigenze della realtà, visto che nell’economia dei nostri giorni, compresi la tecnologia, le scienze e i settori più avanzati della produzione, i lavoratori sono costretti ad aggiornarsi, cambiando radicalmente il loro modo di lavorare mediamente ogni otto-dodici anni: il nuovo ordine sociale emergente, infatti, combatte contro l’ideale del lavoro artigiano, che impara benissimo a fare una cosa soltanto, con conseguenze ritenute dai più distruttive; la terza riguarda la disponibilità a rinunciare alle abitudini e a staccarsi dal passato: è necessario essere inclini a tenere in scarsa o nulla considerazione le esperienze che un essere umano ha fatto già.
In estrema sintesi: l’ideale culturale promosso dalle nuove istituzioni danneggia molte persone che vivono in esse. E ciò contribuisce a determinare l’allargamento di territori desolati, di deserti senza neanche un tartaro. Di anime morte.

 

   
   
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