Dicembre 2006

L’orgoglio musulmano secondo Bernard Lewis

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Perché siamo Satana
Monica Marano - Ennio Barca - Valeria Morelli
 
 

 

 

I rischi maggiori non li corrono
gli Stati Uniti,
ma l’Europa
occidentale,
che è ormai sede stabile di una vasta comunità musulmana in
rapido aumento.

 

Bernard Lewis è senza dubbio il maggiore studioso del Vicino Oriente e della religione islamica. Di recente ha pubblicato The Crisis of Islam, edizione che ha ampliato un lungo saggio già apparso sulla rivista americana New Yorker. L’autore spiega in modo sintetico quali sono i motivi per cui gli estremisti islamici si propongono di distruggere il nostro modo di vivere, che ritengono offensivo dei princìpi fondamentali, morali e religiosi, propri dell’uomo. Identificandoci con Satana, dunque con l’anti-Dio, siamo oggetto di conquista dell’Islam o, in alternativa, oggetto di distruzione, di assoggettamento militare e di dominio finalizzato alla purificazione, che ovviamente è proiezione dello stile di vita islamico.
Intanto, l’Islam si considera unico depositario della verità di Dio. La divinità stessa ha affidato all’Islam il compito preciso di diffondere la sua parola – scritta nel Corano – tra gli infedeli. È tutto qui il significato del termine “jihad”: sforzo di conquista spirituale, predicazione, tensione verso il proprio e l’altrui miglioramento; ed è qui anche l’equivoco interpretativo dello stesso termine, inteso come spinta bellica, conquista con le armi di uomini e terre che non intendano assoggettarsi all’Islam.
È stata in particolare questa comunità islamica a subire una serie di sconfitte sia militari che politiche. A partire dall’azione del XV secolo (la “reconquista”, l’espulsione dei mori dalla Spagna) fino al più recente colonialismo, passando per le disastrose disfatte di Lepanto e sotto le mura di Vienna, considerata la porta d’ingresso verso l’Europa. Nell’età medioevale la civiltà islamica era la più opulenta, la più creativa e la più potente del mondo. Questo grande passato, questa sorta di età dell’oro è ancora oggi rimpianta. Nei Paesi musulmani è ancora viva la memoria del Califfato arabo, nelle diverse successioni dinastiche persiane, siriane, ottomane.

L’imperialismo europeo dei secoli XIX e XX ha portato alla successiva spartizione del mondo arabo e turco (o turcofono). Algeria, Tunisia e Marocco erano francesi. Egitto e aree del Golfo Persico erano inglesi. Quando si concluse la prima Guerra mondiale non caddero soltanto l’Impero Germanico e quello Austro-Ungarico, ma anche quello Ottomano: sicché Siria e Libano vennero amministrati dalla Francia, mentre la Palestina toccò alla Gran Bretagna. Scrive Lewis che l’imperialismo europeo portò anche frutti positivi: Egitto e Algeria, ad esempio, hanno goduto non solo di infrastrutture civili, di servizi pubblici e di sistemi educativi, ma anche di mutamenti sociali come l’immediata abolizione della schiavitù, che in Arabia Saudita, Paese che non aveva mai perso l’indipendenza, sarebbe stata soppressa soltanto nel 1962!
Un secondo motivo di frustrazione è nel fatto che ogni tentativo di porre fine alla decadenza islamica si è rivelato inadeguato. Imputato alla politica occidentale, il fallimento ha alimentato il rancore. È stato scritto che il mondo islamico è rimasto indietro dal punto di vista economico e tecnologico, e oggi subisce anche una formidabile umiliazione da parte delle “tigri” dell’Oriente, dell’India e della Cina, seguite dalla Corea, da Taiwan e da Singapore. I mezzi di comunicazione hanno reso i muslim consapevoli dei propri ritardi civili, che imputano ai propri governanti, i quali, a loro volta, li girano e li dirottano sull’Occidente cinico e sfruttatore: dunque, su Satana, immagine esorcizzatrice di tutte le frustrazioni dell’universo musulmano.
Secondo Lewis, altro motivo di scontro è una sorta di orgoglio ritrovato alla fine del secolo scorso. Nel 1973 i Paesi arabi produttori di greggio appoggiarono l’Egitto nella guerra contro Israele, agendo sulle forniture e sul prezzo del petrolio, e orchestrando una crisi che ebbe conseguenze devastanti sull’economia europea e occidentale. Per la prima volta il petrolio si rivelò non solo una fonte di ricchezza, ma anche un’efficace arma di ritorsione e di ricatto, e diede ai musulmani la sensazione che la riscossa fosse realisticamente realizzabile.
Il mondo islamico ritrovò l’antico orgoglio e tornò a coltivare la fiducia in se stesso. Fino a che non dovette prendere atto che l’Occidente aveva trovato i mezzi per superare la crisi e per venir fuori dall’iniziale depressione.
Altro motivo di profondo risentimento: per i muslim, l’Occidente è degenerato e corrotto. Gli Stati Uniti d’America sono il massimo esempio di immoralità. I nostri costumi, che esportiamo con l’odiatissima globalizzazione, rischiano di corrompere la società musulmana. Sayyd Qutb, ideologo dei Fratelli Musulmani, dopo un viaggio negli Usa descrive così una sala da ballo: «Un vortice di cosce, braccia che circondano fianchi, labbra che sfiorano seni, e l’aria è satura di lussuria». Noi, figli di Satana, siamo dunque dissoluti, promiscui, materialisti, e in quanto tali destinatari potenziali di attentati (nei club, nelle discoteche, nei luoghi d’incontro dei giovani).
I musulmani ritengono l’Arabia la Terra Santa per antonomasia: qui era nato e vissuto il profeta Maometto, qui avevano agito i suoi immediati successori, vale a dire i Califfi, autorità supreme della Umma, la Comunità dei Credenti. Anche l’Iraq è un luogo sacro, anche se di secondo grado. La sua capitale, Baghdad, era stata sede del Califfato per cinquecento anni. Il concetto di sacralità territoriale è comunque esclusivo e imperforabile. Sul letto di morte, Maometto aveva detto: «Che non ci siano due religioni in Arabia». Lo si è interpretato alla lettera.

I non-muslim possono visitare il Regno Saudita, ma non possono ottenere la residenza. È vietato praticarvi la propria religione. Per i fondamentalisti, la presenza attuale di un esercito occidentale nella regione è un gravissimo crimine. Nella Penisola Araba gli americani hanno importanti basi strategiche, il che non aggrada a Osama bin Laden, il quale ha scritto nel 1998: «Uccidere gli americani e i loro alleati sia civili sia militari è un dovere individuale di ciascun musulmano in grado di farlo, in ogni Paese dove ciò sia possibile, finché la moschea di al-Aqsa (Gerusalemme) e la moschea di Haram (La Mecca) non siano liberate dalle loro grinfie e finché i loro eserciti, disfatti e stremati, non abbandonino tutte le terre dell’Islam e non possano più minacciare nessun musulmano».
Sesta ragione dell’odio, la parola del Libro. Maometto non fu soltanto un profeta, ma anche un soldato e uno statista. Uno dei compiti di fondo lasciati in eredità ai muslim è il jihad. Ambiguissima parola, che può simultaneamente significare impegno, sforzo, lotta, battaglia. Nel Corano il significato militare del termine è inequivocabile, come dimostra la sura 4.95:
«Quei credenti che restano a casa, e non sono invalidi, non sono uguali a quelli che lottano sul sentiero di Dio con i loro beni e con la loro persona [...]. Dio premia quelli che combattono, rispetto a quelli che restano a casa, con una ricompensa maggiore».
La Guerra Santa contro gli Infedeli e gli apostati, gli atei e i politeisti, è un dovere religioso per chiunque sia fisicamente valido.
E chi mette sullo stesso piano jihad e crociate compie un errore. Scrive Lewis: «Nella lunga lotta fra l’Islam e la Cristianità, la crociata fu un episodio tardivo, limitato e di durata relativamente breve. Il jihad è presente fin dall’inizio della storia islamica: nelle Scritture, nella vita del Profeta e nelle azioni dei suoi compagni e immediati successori. È rimasto durante tutta la storia islamica, e ancora oggi conserva il suo richiamo».
Altro motivo conflittuale: l’Occidente, in particolare l’America, protegge Israele, cioè il Piccolo Satana. Lo Stato sionista è uno dei punti (Nigeria, Sudan, Bosnia, Kosovo, Macedonia, Cecenia, Kashmir, Timor, ecc.) in cui si scontrano gli universi islamico e non-islamico. Gerusalemme è fra i luoghi sacri dei muslim. Lì è la Cupola della Roccia, il più antico edificio religioso musulmano ancora esistente fuori dell’Arabia (691 d.C.). Venne costruita sulla sede di un tempio ebraico, nelle immediate vicinanze del Santo Sepolcro e della Chiesa dell’Ascensione. Il suo innalzamento, dunque, è stato una sfida a cristiani ed ebrei.
Ma la questione palestinese ha assunto importanza strategica per altre ragioni: «In realtà – chiarisce Lewis – Israele serve da utile surrogato della protesta per le privazioni economiche e la repressione politica in cui molti uomini musulmani vivono, e come sistema per dirottare la collera che ne consegue». Israele alla stregua di un vero e proprio parafulmine. Il fatto, poi, che sia l’unica democrazia dell’area, complica le cose, non solo perché è un esempio pericoloso, ma anche perché l’informazione è libera e la società è aperta. Gli errori (del governo, dell’esercito, dei coloni, di chiunque) non sono censurati, ma fanno addirittura il giro del pianeta. «La maggior parte degli antagonisti di Israele – nota ironicamente Lewis – non soffre di una simile difficoltà nei rapporti con la pubblica opinione». L’antisemitismo muslin è anche un’eredità ricevuta dal Vecchio Continente. I Paesi arabi erano buoni alleati di Hitler, in chiave anti-inglese e anti-francese. Il pensiero nazista ebbe quindi vasta risonanza nel Vicino Oriente negli anni Trenta e Quaranta, e influenzò i circoli nazionalisti arabi, in particolare il partito Ba’th siriano e iracheno (ne sarà leader Saddam Hussein).
E i musulmani moderati? Anch’essi hanno qualcosa da rimproverarci, ad esempio la mancanza di democrazia in casa propria. La nostra opinione pubblica è accusata di ignorare «le più flagranti violazioni dei diritti civili, della libertà politica e perfino della dignità umana» (Lewis). Insomma, l’Occidente non è credibile, perché, se il tiranno è compiacente non ci dà fastidio, non è oggetto di alcuna ritorsione o sanzione economica. I governi di Siria, d’Algeria, del Sudan, del Niger, e via dicendo, massacrarono i propri cittadini e massacrarono con particolare predilezione i cristiani, ma noi li invitiamo al tavolo della Commissione Onu per i diritti umani!
Ancora, la rete saudita. Muhammad ibn’Abd al-Wahhab (1703-1792) era un teologo arabo che predicava il ritorno all’Islam autentico, duro e puro. Il wahhabismo è l’ideologia ufficiale del regime saudita, a parole alleato dell’Occidente. In numerosi Paesi musulmani l’istruzione è del tutto in mani wahhabite, con docenti locali sovvenzionati dai regnanti dell’Arabia Saudita, gli stessi che diffondono milioni di copie del Corano all’anno in tutto il mondo e che finanziano la costruzione di moschee nei cinque continenti. In questo modo il fondamentalismo si spande a macchia d’olio, perché le scuole islamiche di questo tipo sono ovunque e, secondo Lewis, «sono nella maggioranza centri di indottrinamento al fanatismo e alla violenza».
Infine, il disprezzo della democrazia. Dice bin Laden: se i muslim sparano nel mucchio, se uccidono indiscriminatamente anche donne e bambini, è colpa della democrazia. Chiosa Lewis: «L’espressione “libere elezioni” significa che il popolo sceglie liberamente i suoi governanti e quindi può essere considerato responsabile e punibile per i misfatti di quei governanti: in altri termini, non ci sono “civili innocenti”». Per i terroristi non esistono “danni collaterali”, tutti quanti noi meritiamo la morte. La nostra cultura e la nostra civiltà si sono macchiate di un reato collettivo incancellabile: la separazione fra Stato e Chiesa. Abbiamo creato leggi a nostro arbitrio. «Voi separate la religione dalla politica – dice bin Laden – contraddicendo l’ordine che attribuisce autorità assoluta al vostro Signore e Creatore». Perciò – conclude – «siete la civiltà peggiore che si sia mai vista nella storia dell’umanità».
Alla resa dei conti: i rischi maggiori non li corrono gli Stati Uniti, li corre l’Europa, «e in particolare l’Europa occidentale – scrive Lewis – che è ormai sede stabile di una vasta comunità musulmana in rapido aumento», mentre «molti europei cominciano a sentire la sua presenza come un problema, altri come una minaccia». Strategia dei fondamentalisti: conquistare il potere con la democrazia, poi abolirla e instaurare una teocrazia islamica. È la prospettiva dell’Eurabia. Cioè della morte dell’Europa e della sua identità cristiana.

 

I cristiani secondo l’Islam

Alcune sure del Corano parlano dei cristiani, che sono innanzitutto inseriti fra la “Gente del Libro” e in un secondo momento sono considerati quali seguaci di Cristo. La sura 29.46 così si rivolge a loro: «Noi crediamo in ciò che è stato mandato dall’alto a voi. Il nostro Dio e il vostro Dio è uno solo, e noi gli siamo totalmente dediti». Il Libro sacro dell’Islam considera Gesù uno dei profeti: «Egli [Iddio] ha prescritto a voi, della religione, ciò che abbiamo ordinato a Noè. E ciò che abbiamo rivelato a te [Maometto] e ordinato ad Abramo, a Mosè e a Gesù». E ancora: «Sulle loro [dei profeti] orme facemmo seguire Gesù, figlio di Maria, confermatore della Torah che lo aveva preceduto, guida e consiglio dei timorati» (5.46).
Come la Torah, anche il Vangelo fornisce direzione e luce ai credenti. Ciò è tanto vero che a Maometto viene detto: «Se hai qualche dubbio intorno a ciò che ti abbiamo mandato dall’alto, interroga coloro che leggono le Scritture a te anteriori» (10.94). «Per i cristiani “timorati” il Vangelo è guida e consiglio. Ma purtroppo non tutti i cristiani sono timorati. Non pochi di essi, anzi, si affiancano ai miscredenti sostenendo che Iddio non è Uno ma è Tre: miscredenti sono invero coloro i quali dicono: “Iddio è il terzo dei Tre”» (5.73). A costoro il Corano dà questo ammonimento: «Credete in Dio e nei suoi inviati e non dite: “Tre”. Desistetene, sarà meglio per voi. Iddio non è che un Dio solo» (4.171).
Il Corano considera ignoranti del Vangelo i cristiani che affermano: «Iddio si è preso dei figli» (2.116), oppure: «Dio è il Messia, figlio di Maria, quando [invece] il Messia disse: “O figli di Israele, adorate Iddio, Signor mio e Signor vostro”» (5.72). Nella sura 5.116-117 è scritto: «Ricorda quando Dio disse: “O Gesù figlio di Maria, sei tu che hai detto agli uomini: – Prendete me e mia madre come dèi, accanto a Dio? –. “Gloria a Te”, risponde Gesù, “non posso dire ciò che non ho il diritto di dire. Se l’avessi detto, tu lo sapresti perché tu sai quello che è nell’anima mia, mentre io non so quello che è nell’anima tua [...]. Non ho detto loro se non ciò che tu mi hai ordinato di dire, e cioè: “Adorate Dio, Signore mio e vostro”, e finché sono stato fra di loro, sono stato testimone a loro riguardo”; Il Messia, figlio di Maria, non è altro che un Inviato, come ce ne sono stati prima di lui. Sua madre era semplicemente una giusta. Entrambi prendevano cibo» (5.75).
Secondo il Corano, pochi cristiani hanno accolto le esortazioni a non eccedere (5.77). Gli altri, invece, hanno subìto il castigo di Dio perché divisi da discordie e accesi da odio reciproco. Così afferma testualmente il Libro dell’Islam: «Anche da coloro che dicono di essere cristiani riceveremmo giuramento, ma anch’essi hanno dimenticato una parte di ciò che fu loro detto. Poiché abbiamo suscitato fra di loro inimicizie e odio».
Il Corano insegna come giungere ritualmente alla purità: «O credenti. Quando vi accingete alla preghiera lavatevi la faccia e le mani fino ai cubiti, e i piedi fino ai malleoli, con una passata sulla testa e se siete in stato di polluzione, purificatevi. Se siete malati o in viaggio, o di ritorno dalla latrina, o avete toccato donne, e non trovate acqua, cercate della polvere pulita e passatevela sulla faccia e sulle mani. Iddio non vi vuole dar fastidio, ma vi vuole semplicemente purificare e completare la grazia che vi ha concessa» (5.6).
Se l’impurità è grave, si deve provvedere all’abluzione di tutto il corpo. Essa è accompagnata dalla recitazione di preghiere con le quali si chiede ad Allah il suo aiuto e il perdono dei peccati. Gli islamici sono “testimoni di Dio”. La loro comunità è sorta animata e sospinta da questo spirito. Essa mira ad estendersi su tutta la terra. Il Corano è la parola di Allah diretta a tutti gli uomini. Esso è stato dettato dall’arcangelo Gabriele al Profeta. È composto, infatti, da un insieme costante di esortazioni, insegnamenti, rievocazioni, suggerimenti, parole di conforto, rampogne, lodi, sentenze, ordini, anatemi, stimoli nel nome di Dio Clemente e Misericordioso.
Il Corano parla agli uomini in «limpida lingua araba». Ogni volta che lo cita, il musulmano afferma e pronuncia a se stesso, ai credenti e ai non credenti, la parola definitiva dettata da Allah alla comunità intera degli uomini. Essa è composta da due gruppi. Il primo comprende gli islamici, il secondo i non-musulmani. Questi ultimi si distinguono in due categorie: una rappresentata da politeisti e miscredenti, l’altra composta da coloro che, avendo ricevuto prima del Corano la parola di Dio e avendola conservata, formano la Gente del Libro.
Nei rapporti con i politeisti e con i miscredenti (kafiruna) l’islamico procede in ordine discendente: dalla proclamazione del Corano, rammentando il patto che lega l’uomo a Dio sin dal principio, all’ammonimento, all’anatema, fino all’esecrazione e all’avvertimento pieno di minaccia. Un esempio chiarissimo è fornito dalla sura 27. Essa narra che Salomone, il sapiente re-profeta, essendogli stato riferito che la regina di Saba e il suo popolo adoravano il Sole, non già l’unico Dio, utilizzando come messaggero un’upupa inviò alla sovrana una lettera, per ammonirla così: «Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso. Non v’insuperbite contro di me e venite a me abbandonandovi pienamente [quali nuovi musulmani]» (27.31). La regina, dopo essere stata testimone di episodi miracolosi, si convertì, pronunciando queste parole: «Signore mio, ho fatto torto a me stessa. Mi dedicherò totalmente, insieme con Salomone, al Re dei Mondi» (27.44).
Se non si accoglie il messaggio del Corano, giunge dalla parola di Dio un avvertimento: «Iddio non perdona che gli si diano degli associati, mentre perdona, a chi vuole, ciò che è al di sotto di questo. Chi dà associati a Dio è profondamente traviato» (4.116). L’ammonizione ha un duplice significato: concerne una punizione immediata, terribile, che piomba sulla terra, e una punizione eterna che sarà inflitta il giorno del giudizio: «Essi avranno come ospizio la Geenna e non troveranno modo di evitarla» (4.21). Se le minacce non hanno effetto, il dialogo va troncato. Se poi gli infedeli rispondono con la violenza, saranno usate le armi: «Fate guerra, per la causa di Dio, a coloro che vi fanno guerra, ma non siate aggressori. Iddio non ama chi aggredisce. Uccideteli ovunque li incontrate» (2.190-191).

Riferendosi alla Gente del Libro, la sura 21 afferma: «Questa è la vostra comunità: una comunità unica, e io sono il vostro Signore. Servitemi, dunque. Invece si sono divisi! Ma tutti ritorneranno a noi» (21.92-93). Ciò significa che: a) la Gente del Libro e gli islamici sono destinati a formare un’unica comunità; b) purtroppo ebrei, cristiani e musulmani sono divisi e vivono in discordia tra di loro; c) un giorno, tuttavia, formeranno quell’unità che è nella mente di Dio. Consideriamo inoltre le espressioni di benevolenza rivolte dal Corano agli ebrei e ai cristiani: «O figli di Israele, ricordate i benefici che vi ho elargito e il fatto che vi ho preferiti all’universo intero (2.122); noi ponemmo nei cuori dei suoi discendenti (di Gesù) mitezza e misericordia» (57.27). Estremamente significativa è, quindi, l’affermazione secondo la quale alcuni ebrei e cristiani erano musulmani prima di conoscere il Corano. «Coloro ai quali avevano dato in passato una scrittura, credono nella presente e, quando essa viene loro letta, esclamano: – Ci crediamo –. È la verità che viene dal nostro Signore. Eravamo musulmani già fin da prima» (23.52-53).
Il Corano aggiunge: «Non disputate con i Possessori della Scrittura se non nella maniera migliore, tranne con quelli che agiscono ingiustamente» (5.51). In questo passo il Corano consente al musulmano di disputare sul piano dottrinario con la Gente del Libro, ma a condizione che la disputa avvenga nel modo migliore e che gli interlocutori non siano persone che agiscono ingiustamente. Manca tuttavia un’esplicita spiegazione di cosa sia il modo migliore e chi siano le persone che agiscono ingiustamente. Questi concetti vanno dedotti dall’insegnamento coranico letto nel suo complesso. Questo compito è affidato ai dottori di Kalam, coloro che in Occidente sono definiti erroneamente “teologi dell’Islam”.
È noto che il pensiero spirituale e religioso dell’Islam è espresso da scuole autonome e talvolta in contrasto fra di loro, perché nell’Islam non esiste una scuola di carattere universale che possa esercitare il suo magistero sull’intera Comunità dei credenti. L’unica garanzia di unità dottrinale che supera divisioni e conflitti teorici è l’ijma, che trae la sua legittimazione da un hadith del Profeta, secondo cui la Umma (comunità dei credenti) non potrà mai cadere in errore. Carattere peculiare dell’ijma è la sua immediatezza, da un lato, e dall’altro la sua notevole lentezza nell’elaborazione dei princìpi dottrinali mediante una lunga sedimentazione. Questa “ruminatio” opera l’eliminazione di ciò che non è più attuale e la sostituzione con il nuovo e con l’utile.
Il dialogo con i non-islamici si svolge, secondo l’interpretazione dei maestri, nel “modo migliore” solo rispettando rigorosamente la Parola di Allah affermata nel Corano. Questa Parola si trovava già nel Pentateuco, nei Salmi e nel Vangelo. L’islamico reputa, invero, che tali Libri non siano più integri, essendo andati perduti gli originali prima della venuta di Maometto. Soltanto nel secolo XIX esponenti del pensiero riformista, quali Jamal al-Din al-Afghana, hanno accolto i moderni metodi filologici.
La generalità degli islamici è tenuta a diffidare delle discussioni e dispute sollevate da ebrei e da cristiani perché costoro, come osserva il Corano, intendono imporre i loro errori: «Gli ebrei e i cristiani non saranno contenti di te finché non avrai abbracciato la loro religione. Dì loro: – La direzione di Allah è la direzione –». «Se tu seguissi i loro errori pur avendo ricevuto la Scienza [divina], non avresti nei confronti di Allah alcun patrono o protettore» (5.120). “La maniera migliore” di disputare, sempre che sia opportuno, con Gente del Libro è attenersi rigorosamente al testo coranico che rappresenta la “direzione di Dio”, la “Scienza per eccellenza”. L’uomo dell’Islam non accetterà mai di disputare con gli appartenenti alla Gente del Libro che agiscano ingiustamente.
Peraltro, il Corano non fa una distinzione fra giusto e ingiusto. Comunque, una volta accertata la presenza di entrambi i presupposti, una volta che ci siamo avvalsi della “maniera migliore” e dell’osservanza del “giusto”, è possibile avviare il dialogo. Alla maggioranza degli islamici, come già detto, il Corano rivolge questo divieto: «Non solidarizzino i Credenti con gli Infedeli invece che con i Credenti, perché chi fa ciò non ha nulla a che fare con Allah, a meno che non temiate qualcosa [un male] da parte loro» (3.28).
Gli islamici, in particolare gli sciiti, fondano su queste argomentazioni la “taqiyya”, un modo di essere prudenti, opportunisti, con una necessaria dose di ipocrisia che si rivela necessaria nelle situazioni in cui il muslim intravede pericoli, o quanto meno, un disagio notevole, se non addirittura insostenibile. Applicandola, il muslim recita all’interno della coscienza la sua professione di fede (shahada), sicché il dialogo con l’Infedele avviene solo in superficie e non scalfisce minimamente l’integrità della fede del musulmano.
Il Corano afferma altresì: «O voi che credete, non considerate i vostri padri e i vostri fratelli come vostri consorti [destinati alla stessa sorte – avvlijà], se essi preferiscono la miscredenza alla fede. «Chi di voi li prende a propri consorti, si comporta da iniquo» (9.23). Dopo aver stabilito come gli islamici debbano comportarsi con i musulmani, il Libro Sacro in realtà ingloba in un’unica categoria, in una visione complessiva la Gente del Libro, i miscredenti e i politeisti, sicché l’umanità va distinta in due parti separate: da un lato gli islamici, dall’altro i non-muslim (Infedeli).
Il Corano contiene tuttavia esortazioni affinché gli islamici tentino di trovare un accordo con la Gente del Libro. «Dì, o Gente della Scrittura. Venite a una parola comune [cioè a un accordo] fra noi e voi» (3.64). «Tale accordo consiste nel non adorare se non Iddio e nel non associargli nessuno» (3.64). Per conseguire questo risultato ci si deve richiamare alla storia religiosa dell’umanità, muovendo dalla comune discendenza da Abramo, che non era ebreo né cristiano, bensì “monolatre” (hanif) e musulmano (muslim) e nutriva quella fede nel Dio unico che è impressa nel cuore di ciascun uomo e che il Corano conferma. Il Corano insegna che l’autentica fede «non consiste nel voltare il viso verso Occidente o Oriente [durante la preghiera]: più è chi crede in Dio, nell’Ultimo Giorno, negli Angeli, nel Libro, nei Profeti» (2.177).
Se non si perviene a un accordo, la responsabilità è esclusivamente degli ebrei e dei cristiani, cui il Corano si riferisce con queste parole: «In maggioranza siete perversi» (5.99). Essendo necessario che ebrei e cristiani si riconoscano in Abramo, che non era né ebreo né cristiano, ma hanif (musulmano), la “Parola comune” espressa dal Corano esige che ebrei e cristiani cessino di differenziarsi dagli islamici (3.67). Nei confronti dei politeisti e degli idolatri non solo non è possibile alcun dialogo, ma vi deve essere una netta contrapposizione. Se necessario, vi sarà uno scontro armato senza quartiere: «Combatteteli, affinché Allah li punisca e li confonda per mano vostra e vi faccia trionfare su di essi» (9.15).
I politeisti non meritano dialogo, vanno combattuti duramente: «Non si addice al Profeta né ai Credenti implorare perdono a favore dei politeisti, anche se congiunti, quando ormai hanno visto chiaro che sono votati all’Inferno» (9.113). Combattere contro i politeisti è un dovere per un muslim, morire combattendo è l’onore più alto: «Di coloro che sono morti per la causa di Allah non dite che sono morti: essi sono vivi, senza che voi ne siate consapevoli» (2.154).
Tra le prescrizioni rivolte alla Umma nella sua totalità, il jihad, lo “sforzo sul cammino di Allah” definito dai non-islamici “guerra santa”, è collocato al primo posto; la Comunità islamica nella sua totalità ha il dovere di lottare perché sulla terra si diffonda sempre più l’osservanza rigorosa dei «diritti di Allah».
Da alcuni anni abbiamo sperimentato nella maniera più drammatica e luttuosa quanto il termine “jihad” sia stato inteso in un’accezione totalizzante e sanguinosamente cruenta da gruppi di fanatici integralisti animati da un odio pervasivo verso quelli che considerano Infedeli. Come è lontana, purtroppo, l’esegesi in chiave spirituale che del jihad diede al-Ghazali: il pensatore islamico di cultura persiana, basandosi su un hadit, affermò che il primo grande jihad è quello che ogni credente deve combattere spiritualmente contro gli istinti malvagi e le cattive tendenze con una lotta interiore. Quello armato, secondo il grande mistico islamico, è solo «un leggero soffio di vento sul mare agitato».
Il Sudan, l’Indonesia e altri Paesi continuano ad essere teatro agghiacciante della realizzazione del principio di conquista religiosa (ideologica) con centinaia di migliaia di cristiani e “politeisti” uccisi, vittime di chi considera il jihad come dovere di un muslim di sterminare gli Infedeli.
La figura dell’Infedele nel Corano tende a dilatarsi, fino ad assorbire in sé quella degli idolatri e della stessa Gente del Libro. Il Corano, infatti, stabilisce innanzi tutto: «O credenti, non fate lega con coloro che hanno preso la vostra religione a scherno e a ludibrio, siano essi coloro che vi hanno preceduto nel ricevere il Libro, siano invece i miscredenti» (5.57). Pone, inoltre, il seguente perentorio divieto: «O voi che credete. Non fate lega con i Giudei e con i Cristiani, che sono in Lega gli uni con gli altri. Chi di voi fa lega con loro è dei loro. Iddio non dirige gli iniqui» (5.51). Ordina poi di combattere pure la Gente del Libro se non si sottomette all’Islam: «Combattete coloro che non credono in Dio e nell’Ultimo Giorno, non dichiarano illecito quello che hanno dichiarato illecito Iddio e il suo Inviato, e non professano la religione vera fra coloro che hanno ricevuto la Scrittura finché, umilmente, non paghino alla mano la gizya» (9.29). La gizya è l’imposta che la Gente del Libro è tenuta a pagare per ottenere il “compenso” (questo il suo significato etimologico) per poter osservare la propria religione, ottenendo protezione dalla comunità islamica. Questa imposta di capitazione è stata abolita in molte nazioni musulmane. Ma la libertà religiosa è comunque intesa dai muslim come abbandono nell’errore in cui incorre chi vuole rimanerci ostinatamente.
Prescindendo dalle diverse tesi interpretative della nozione di jihad, la comunità islamica nel volgere dei secoli ha avuto e ha, in larga misura, ancora pregiudizi, remore, nei confronti del non-muslim e gli ha sempre imposto restrizioni e divieti. Estremamente duro, anche se sottovalutato dai non musulmani, è, ad esempio, il divieto per i non-muslim di accedere ai santuari dell’Islam. Reciso è il Corano al riguardo: «Non è lecito a politeisti stare nei templi [masagid] di Dio, confessando la propria miscredenza» (9.18).
Quello della Mecca è il territorio più sacro che si possa immaginare ed è assolutamente proibito (haram) non solo al non-musulmano, ma anche all’islamico che non si trova in stato di purità legale (ihram). Il territorio vietato è circoscritto da colonnine segnaletiche collocate sulle arterie principali. Prima di superare questi confini, i pellegrini islamici sono tenuti a conseguire la purità legale mediante un’abluzione e la recita della formula: «Eccomi a Te, eccomi a Te, o Dio, che non hai compagno. Tua è la lode e la grazia, Tuo il Regno. Eccomi a Te».
A chi non è muslim è vietato anche il territorio dell’Higiaz. Pertanto, il non-muslim non può visitare buona parte della penisola arabica. Nel VII e VIII secolo d.C. alcuni califfi della dinastia degli omniadi sospesero il divieto, per avvalersi dell’opera di artigiani cristiani, che avrebbero eseguito opere destinate ad abbellire con nuovi ornamenti l’area della Ka’ba. In condizioni normali, chi non è islamico non potrà mai varcare i confini dell’haram. A memoria d’uomo, nessun cristiano ha assistito allo svolgimento di un “grande pellegrinaggio” islamico.

 

   
   
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