Dicembre 2006

Storia controluce

Indietro
Graeci sumus
Tonino Caputo - Franco De Palma
 
 

 

 

 

L’Italia unita
costruì la propria immagine
accentuando Roma
e marginalizzando la memoria della «Grecia che aveva dentro il cuore».

 

C’è molto di greco in Italia, così come c’è molto di romano in Grecia, ricorda Salvatore Settis, analizzando i percorsi delle due maggiori civiltà mediterranee del mondo antico. In una lezione tenuta a Chicago nel 1985, riferisce lo studioso, Arnaldo Momigliano rifletteva sull’uso del passato classico in un Paese – appunto – “classico” come il nostro; ma altrettanto si può fare per il Paese che fra tutti è il più “classico”, vale a dire la Grecia. In effetti, la storia del rapporto dei Greci con il proprio passato transita attraverso due parole-chiave, Hellenismòs e Romiosyni.
Il primo termine si riferisce alla Grecia più classica, quella di Pericle e di Sofocle, mentre il secondo (che letteralmente significa “Romanità”) ne evoca il passato bizantino. Quelli che da noi per definizione sono Bizantini, infatti, chiamavano se stessi Romaioi, vale a dire Romani, e a buon diritto: perché Costantinopoli era la seconda Roma, non meno importante della prima non soltanto in senso amministrativo e politico, ma anche religioso e simbolico.
Sottolinea lo studioso: la traccia di questa denominazione, e dello spessore storico che implica, rimase a lungo viva, e non soltanto in greco, ma anche in arabo e in turco, anche dopo la caduta di Costantinopoli, mentre per tutti gli altri veniva preferito il termine Yunanniyan (“Ioni”); allo stesso modo, fino al 1922 i Turchi distinguevano nettamente tra Yunan (“Ioni”, cioè i Greci della Greci indipendente) e Rum (“Romani”), cioè i sudditi greci dello Stato turco. De resto, a lungo i Fanarioti (cioè i Greci di Istanbul rivendicarono per se stessi (contro gli altri sudditi greci dell’Impero Ottomano) il nome di Romaioi. Insomma, si potrebbe dire senza tema di smentita che per essere Greci era necessario essere “Romani”.

Sappiamo che la guerra d’indipendenza greca durò dal 1821 al 1827. In quell’arco di tempo, il termine Romiòs, che designava i Greci nella lingua popolare, venne sostituito: si inventò, o meglio si reinventò la tradizione dal “nuovo” nome del popolo e della Nazione, ripescato dal greco antico: Hellenes, da Hellas. Dunque, Romiòs tendeva a sparire dall’uso corrente, e a volte addirittura ebbe un senso e un significato peggiorativi, designando i Greci “alla vecchia maniera”, come ai tempi dell’Impero Ottomano, privi della cultura dei popoli dell’Europa occidentale. Afferma lo studioso: «Ma la Romiosyni, nel senso di struggimento del sentirsi Romiòs, membro di una grecità mutilata dalla caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi, fu un leit motiv ricorrente in tutta la letteratura neogreca dall’indipendenza al pieno Novecento». Romiosyni finì con l’indicare il carattere nazionale della Grecia moderna nella sua continuità con Bisanzio, interrotta ma non bruciata dalla “Turcocrazia”: in questa accezione la parola sembra essere quasi un’ultima traccia dell’Impero Romano d’Oriente, anche se nel 1998 venne avanzata la proposta di vietarne ufficialmente l’uso, sostenendo che era stata introdotta dai Turchi allo scopo di sottrarre agli Hellenes il loro glorioso nome e di conseguenza il loro passato.
Fu chiamato Impero Bizantino quello che forse con maggiore rispondenza fu l’Impero Romano d’Oriente, nato fra il 330 e il 395, con capitale la “Seconda Roma”, con politica parallela a quella della “Prima Roma”, dalla quale si affrancò nell’800 (incoronazione di Carlo Magno), e durato fino al 1453 (caduta di Costantinopoli) e sopravvissuto nell’Impero di Trebisonda fino al 1461.
L’Impero Bizantino nacque dalla necessità che si impose ad un certo punto ai Romani di assicurare la difesa dei possedimenti orientali contro la doppia pressione dei barbari germanici, poi slavi, sul Danubio, e dei Persiani sulla grande ansa dell’Eufrate.
A tal fine, era necessario dare all’Impero un nuovo centro politico e militare che offrisse il vantaggio di essere più vicino di Roma al fronte delle operazioni e che per la sua posizione geografica fosse facilmente difendibile. Ciò spiega la scelta di Costantino quando fondò nel luogo dell’antica Bisanzio la città alla quale diede il suo nome: Costantinopoli. Questa “Seconda Roma”, edificata sulle rive del Bosforo all’estremità di una penisola facilmente fortificabile, presentava anche il vantaggio eccezionale di trovarsi nel punto d’incontro delle due vie marittime del Ponte Eusino (per cui passavano il grano della Scizia e i prodotti orientali) e del Mediterraneo, e delle due vie continentali provenienti l’una dall’Europa, l’altra dall’Asia Minore e dalla Siria. Questa situazione geografica naturale destinava dunque Costantinopoli ad essere la capitale di un Impero insieme continentale e marittimo, e che richiedeva stretti legami fra l’Asia e l’Europa, fra la cultura greco-romana e le civiltà orientali.
Tre furono le grandi fasi storiche di questo Impero. Quella dell’Impero Romano Universale (395-641) prolungò l’età classica senza soluzione di continuità. Giustiniano riconquistò il bacino occidentale del Mediterraneo, pubblicò il Corpus Juris, costruì grandiosi monumenti (l’Ippodromo, che poteva contenere decine di migliaia di persone; Santa Sofia, che per la prima volta presentò strutture influenzate dall’Oriente asiatico). Basandosi sulla sua posizione geografica privilegiata, Costantinopoli trasse tutti i possibili vantaggi: le carovane dalla Cina portavano seta ad Antiochia e nelle altre città situate lungo i confini comuni all’Impero e alla Persia (Callinico, Nisibi, Artaxata); sul Mar Rosso, a Klysma (presso l’attuale Suez) e ad Aila (attuale Eilat) arrivarono avorio dall’Africa, mirra, incenso e profumi dal paese d’Himyar (odierno Yemen), legni preziosi dall’Asia meridionale e numerosissimi prodotti dall’India, particolarmente apprezzati dalla società bizantina; i porti della Crimea, Cherson (odierna Sebastopoli) e Bosporos (attuale Kerc) stabilivano il contatto con i popoli dell’Europa centrale: vi si scambiavano i prodotti dell’industria bizantina con ambra e con pellicce.
Il periodo dell’Impero Romano Ellenico (641-1204) portò a compimento l’ellenizzazione. Gli Arabi giunsero fin sotto le mura di Costantinopoli, gli Slavi si stanziarono nei Balcani, l’Italia cadde in potere dei Longobardi: anche formalmente l’Occidente cessò di dipendere da Bisanzio il giorno in cui, nel Natale dell’800, nacque il Sacro Romano Impero.

Terzo e ultimo periodo, quello dell’Impero Diviso, che vide le lotte fra Latini, Bizantini e Turchi, che crearono le cause della crisi irreversibile per l’impero che era esistito per più di mille anni, esattamente per undici secoli, durante i quali arte e letteratura divennero a mano a mano espressione di una civiltà nuova e ben differenziata nel quadro della storia globale dell’ellenismo, con l’incontro, arricchito anche da numerosi apporti orientali, della grecità pagana con la nuova spiritualità cristiana, analogo a quello avvenuto in Occidente tra la cristianità e l’universo romano, con la conseguente fusione del nuovo e del vecchio mondo in un’unità culturale autonoma e originale. Merito di questa civiltà nella prospettiva storica fu la trasmissione dell’eredità greco-classica, che essa affidò, alla caduta dell’Impero d’Oriente, al nuovo mondo europeo occidentale, rimasto all’oscuro della cultura greca fin dal primo Medioevo.
Il testimone sarebbe passato di mano in pieno secolo XX, quando Kemal Ataturk avrebbe trasferito la capitale della Turchia dal Bosforo all’altopiano anatolico, ad Ankara, vecchia Angora, antica Ancira, che derivava il nome dal greco, con riferimento all’àncora che sarebbe stata trovata sul luogo da Mida, re dei Frigi, succeduti agli Ittiti nel dominio dell’area. Ad Ankara fu rinvenuto il Monumentum Ancyranum, con testo originale in latino e con traduzione in greco.
Fu scoperto, questo documento, nel 1555, iscritto sulle pareti di una moschea costruita sull’antico tempio di Roma e di Augusto: costituiva una copia pressoché completa dell’Index Rerum Gestarum, l’ampio testamento politico e apologetico che Augusto compose prima di morire disponendo che venisse inciso su colonne di bronzo da collocarsi dinanzi al suo mausoleo. Frammenti di copie analoghe furono rinvenuti ad Apolonia e ad Antiochia di Pisidia, città che Augusto volle, col titolo di colonia e con il nome di Cesarea, capoluogo della Galazia Inferiore.
E la componente greca nel nostro Paese, nell’Italia moderna? Prima dell’ascesa di Roma (e anche dopo) l’Italia antica era un mosaico di popoli, dai Liguri ai Sardi, dai Veneti agli Etruschi e ai Celti, e via dicendo, con una fortissima presenza greca nel Meridione e in Sicilia, e con città puniche in Sicilia e in Sardegna. Il latino vi si affermò lentamente, ma il greco rimase a lungo dominante anche in metropoli come Napoli e Taranto; e anche quando il latino divenne la lingua della Chiesa di Roma, il greco continuò ad essere praticato nella liturgia in monasteri e in chiese, soprattutto in Puglia, in Basilicata e in Calabria, ma anche altrove. Quando il movimento umanistico che più tardi prese il nome di Rinascimento (alimentato dai greci rifugiatisi in Italia) cominciò a riflettere sull’antichità “classica”, la Penisola era divisa in una galassia di Stati, alcuni dei quali molto piccoli, anche se a volte con brillante vita intellettuale (si pensi a Urbino, a Ferrara, a Mantova): più che il latino, lingua franca dell’Europa occidentale, li unificava l’uso dell’italiano, che dopo l’exploit del “vulgare” nella corte di Federico II, giganti come Dante, Petrarca, Boccaccio avevano forgiato come la vera lingua nazionale.
La secolare riflessione italiana sul proprio passato si gioca tutta fra l’idea (o la meta) di una sostanziale unità culturale nel nome di Roma (l’Italia culla dell’Impero, sede del Papa) e la rivendicazione delle identità locali, fondate sull’antica Italia multietnica dei Veneti, dei Sanniti, degli Oschi, degli Irpini, dei Lucani, dei Sabelli, dei Dauni, dei Messapi... In essa, i Romani non erano che un popolo fra gli altri, la cui cultura, per di più, aveva forti debiti con quella degli Etruschi, e soprattutto dei Greci. Dopo il Settecento (definito il “secolo senza Roma”, tanti furono allora gli studi che cercarono nelle popolazioni preromane la radice degli orgogli e delle differenze municipali italiane), l’Ottocento aggiunse il largo ventaglio di altre e molteplici presenze nel Medioevo italiano: i Longobardi e i Goti, i Tedeschi e i Bizantini (ancora Greci), gli Arabi di Sicilia, i Francesi e gli Aragonesi.
Dopo l’evento decisivo della nascita dell’Italia unita, con l’annessione del Regno di Napoli alla Corona dei Savoia (1860), quasi metà del nuovo Regno aveva un passato più greco che romano; ma, in particolare, dopo l’annessione di Roma (1870), la costruzione di un’identità nazionale finì col passare piuttosto attraverso il mito e la memoria della Città Eterna (essa stessa oscillante tra Repubblica e Impero). Ciò che aveva contrassegnato la rete di poleis in Magna Grecia e in Sicilia (Taranto, Gallipoli, Siri, Sibari, Crotone, Reggio, Metaponto, Siracusa, e cento altri centri greci), e le aree fenicie in Sicilia e in Sardegna, prima ancora che sulle coste spagnole e francesi, finì con la caduta in un cono d’ombra dal quale ancor oggi è complicato riemergere. L’unità d’Italia si verificò qualche decennio dopo l’indipendenza della Grecia, ma nel recupero del passato dovette seguire un percorso ben diverso. Per i “nuovi” Greci riscattati dal dominio ottomano era cruciale riannodare il filo con la Grecia classica, come del resto avevano già fatto i Filelleni alla Byron; e per questo motivo essi cancellarono spesso le tracce di altre presenze, come sull’Acropoli di Atene, dove rasero al suolo non soltanto i resti della moschea turca, ma anche quelli bizantini e la torre dei fiorentini Acciaiuoli. Il passato greco di buona parte d’Italia, al contrario, non sembrava un buon ingrediente per la nuova coscienza nazionale dell’Italia unita (che aveva in Roma il suo centro di gravità), e si prestava male anche alla definizione di coscienze locali, contraddittorie rispetto all’idea unificante di un’Italia tutta governata da Roma.
A questo scopo, era funzionale molto di più il passato autoctono, romano, italico o etrusco. Le antichità regionali della Penisola furono comunque esplorate come componenti di una “futura” identità nazionale; ma quella greca, in una visione del genere, non poteva che essere una fra esse, (al modo della sarda, dell’italica, della veneta, dell’etrusca), e in ogni caso interessava solo l’Italia continentale meridionale e la Sicilia: dove, contribuendo a definire identità sub-nazionali, si presentava tuttavia come u dato potenzialmente centrifugo.
In ultima analisi. L’Italia unita costruì la propria immagine e la propria tradizione accentuando Roma e marginalizzando la memoria della «Grecia che aveva dentro il cuore», che in ogni caso vi ha lasciato impronte di straordinaria, formidabile portata e durata (non solo i templi di Paestum e di Agrigento, che gareggiano con quello dell’ateniese Acropoli, ma anche le isole linguistiche neogreche, vive più che mai, dalla grecanica calabrese alla grica salentina); la Grecia indipendente costruì la propria identità marginalizzando la memoria di Roma implicita nella Romiosyni e sostituendola con il collante più potente (perché ritenuto autoctono) del proprio Hellenismòs.
Queste avventure (e disavventure) della memoria del “classico” non sono finite. La domanda che, secondo il saggista, Greci e Italiani devono oggi rivolgere a se stessi in quanto cittadini d’Europa è se non sia venuto il momento di comprendere che le identità nazionali sono più ricche (e più autentiche) se costruite non per esclusione e per selezione, ma mediante un principio di molteplicità e di inclusione. Ci sono molta Grecia e molta Roma in ogni molecola della cultura europea, e le culture della Grecia moderna e dell’Italia moderna devono l’una all’altra almeno quanto entrambe devono ai loro antenati in grandissima parte comuni.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2006