Noi possiamo
rigettare lipotesi
del conflitto di
civiltà, possiamo anche metter
su scenari
di pacifismo
oltranzista,
ma non ci è dato
rinunciare alla
nostra identità, alla nostra
cultura, alla
nostra civiltà.
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Il grido dallarme è stato lanciato in tempi diversi
e in più direzioni: Occidente ed Europa sono in caduta libera.
Oriana Fallaci aveva scritto della nascita di unEurabia, vale
a dire del Vecchio Continente in fase di resa allIslam. Sabino
Acquaviva ha denunciato il disordine consumistico che sostituisce
i valori autentici della nostra tradizione civile e culturale. Sulla
rinuncia allidentità cristiana sono stati versati fiumi
dinchiostro, e la sintesi delle più svariate tesi è
stata fatta da Gianfranco Morra e da Rodney Stark. Ha scritto Alberoni:
tutti concordano sullidea di fondo che «senza valori
forti, senza ideali trascendenti, senza Dio», e in ultima
analisi senza unutopia possibile, non può esserci alcuna
civiltà. Il che significa che, mentre Occidente ed Europa
continuano a rinnegare i propri valori, emergono civiltà
e culture come quella islamica e quella cinese brutalmente
sicure di sé. «LEuropa è invertebrata»,
accusa Morra. «La Cina e lIslam, no».
Chi non ci sta, e ha ragionevoli dubbi sul declino del Nord e dellOvest,
sostiene che tutte le idee cristiano-occidentali (tutti gli uomini
fratelli, i diritti umani universali, il concetto di libero arbitrio,
il diritto alla scelta del lavoro della politica dellamore,
lautogoverno, la fede nella scienza e nei suoi limiti morali...)
si vanno lentamente ma inesorabilmente diffondendo, e contagiano
anche «le arroganti civiltà che le hanno sempre ignorate».
Si chiedono, e chiedono, gli storiografi: Ma davvero per
noi, figli di Montesquieu, possono essere faro di civiltà
un Califfato islamico seguace della sharia e con i poteri
indivisi, oppure un gran Mandarinato cinese fondato sul dispotismo
orientale? .
Qualche anno fa si proclamava la fine della Storia. Era stato appena
abbattuto il Muro di Berlino, e questa era la dottrina messa in
circolazione da Francis Fukuyama. Ma poco fa, le immagini di Saddam
Hussein con il cappio al collo ci hanno ammonito: la Storia prosegue
drammaticamente il suo corso.
Che ne è, invece, della storiografia? Allo stato delle cose,
a volte, le armi degli storici sembrano essersi spuntate nelleccesso
di libri neri, nelle strategie propagandistiche di parte,
o anche nel primato dellimpressionismo giornalistico. Domande
a prescindere: Di quali chiavi disponiamo per interpretare
il mondo globalizzato? Quali modelli possiamo importare dal passato
per spiegare il presente? Gli scontri epocali tra Oriente e Occidente,
come quelli tra Greci e Persiani, come quelli tra Romani e Cartaginesi,
come quelli tra lEuropa carolingia, fortezza cristiana, e
lOriente arabo e maomettano hanno qualcosa da dirci sul mondo
emerso dopo le Twin Towers dell11 settembre? .
Lambizione di una Storia Universale, che saldi in un unico
filo passato e presente, e che getti un ponte fra scenari e contesti
geopolitici differenti, non è solo contemporanea. Cercare
interconnessioni tra le Storie di vari Paesi e civiltà apparteneva
già ai Greci. Anche il saggio sui costumi e lo spirito delle
nazioni di Voltaire era un tentativo di comprensione delle vicende
del mondo in chiave comparativa. E nellOtto e Novecento le
Storie Universali sono state costanti della storiografia: si pensi
ad Arnold Toynbee, o a Fernand Braudel.

Dunque, il mondo antico ha esordito, nel campo della storiografia,
con tentativi di racconto totale, onnicomprensivo. Da Ecateo a Erodoto
il fenomeno appare molto chiaramente. Ciò che allora si venne
costituendo fu una Storia Universale orientata, cioè dotata
di un centro. E questo centro cambiava secondo i punti di vista:
con laffermarsi delle poleis e della democrazia
in Grecia, fu lEllade lombelico del mondo; col dispiegarsi
della potenza romana nel Mediterraneo e oltre, centro fu necessariamente
lUrbe. Non cè da stupirsi, dunque, se anche le
moderne Storie Universali conservano le stesse caratteristiche,
dal momento che hanno posto al centro lEuropa, e meglio ancora,
le grandi potenze dellEuropa occidentale, poi lAmerica,
infine lOccidente euroatlantico tout court. Il
che ha infastidito non pochi studiosi, secondo i quali quasi mai
lAsia è stata considerata alla stregua del mondo occidentale.
Sicché i continenti europeo e asiatico, più che confinare,
avevano finito per fronteggiarsi.
Quando il passato non si ritrae decorosamente in se stesso, continua
a proporsi come punto di confronto. Allora bisogna conoscerlo, interpretarlo
nei suoi segni misteriosi, per non doverlo rivivere. Questo era
accaduto per lOriente e lOccidente: ignorando il passato
dellaltro, o temendolo, e volendolo in qualche modo esorcizzare,
ciascuno aveva alimentato il conflitto che aveva dato origine ad
una contrapposizione non soltanto simbolica fra civiltà che
già Eschilo non per nulla un autore di tragedie
aveva preconizzato: da una parte il senso laico dello Stato, la
razionalità, la sobrietà, lordine; dallaltra
la confusione idolatrica dei poteri, la tirannide, larbitrio,
la lussuria. Le sterminate genti dellarco erano state opposte
agli organizzati popoli della lancia e del gladio, e i nomadi schiavi
di re barbari ai coscienti cittadini che difendevano in armi la
propria libertà. Di là grandiose metropoli, babeliche
costruzioni, fiumi giganteschi, deserti sconfinati; di qua città
dove tutto, compresi i templi, era a misura delluomo e dei
suoi campi coltivati.
Di questi scenari incompatibili aveva finito per prendere coscienza
lo stesso Erodoto, che aveva fornito lavallo della sua dotta
parola, descrivendo il valore ittita come disumana ferocia, la magia
persiana come notte della ragione, il ritualismo egizio come matrice
di dispotismo. E sulla sua scia gli intellettuali greci avevano
enfatizzato nella cultura mediterranea la leggenda di un Alessandro
Magno traditore della purezza ellenica, adulteratore dellarmonia
mediterranea, creatore di un mostruoso incubo eurasiatico. E ciò,
sebbene per Esiodo Asia ed Europa, figlie di Oceano, racchiudessero
nei nomi la chiave di lettura della loro essenza: Asia, dallaccadico
Asu, ossia Alba; Europa, dallaccadico Erebu,
ossia Tramonto. Luna e laltra avevano preordinato per
luomo la misura del tempo e il senso della vita.
Per contrappasso, negli scenari ideologici vicino-orientali e musulmani
limmagine dellOccidente era diventata quella di una
cultura demoniaca: Calvino aveva preso il posto del profeta Gesù,
e il pragmatismo produttivo aveva scalzato ogni forma di spiritualità
tramandata dalla tradizione apostolica. Lo testimoniava il destino
di Babilonia, Perla dei Regni, che in mezzo secolo era assurta a
dominatrice delle terre che avevano acceso la civiltà del
mondo, ed era diventata settima meraviglia, fulcro della politica,
della religione, della letteratura, della scienza. Ammirato di tanta
grandezza, il re macedone, conquistatala, aveva ingiunto che non
fosse rasa al suolo e laveva voluta capitale del suo Impero.
Si erano salvati in questo modo il sapere dei popoli antichi, la
cultura sumerica, e la medicina lastronomia la matematica
lalchimia lalfabeto.
Ma i nemici la chiamarono Babel, cioè Caos, e
la sua Torre, luogo di preghiera e di studio, fu definita centro
del disordine e pietra dello scandalo, per la libertà senza
limiti che consentiva di scegliere lerrore, perché
«al diavolo suo re non importa che i cittadini litighino tra
di loro su opposte falsità, tutti possedendoli allo stesso
modo per la loro sfrenata empietà». Allora Babel era
entrata nellimmaginario cristiano come mito negativo, anti-città,
alterità che serviva da contrappunto sistematico alla definizione
dellOccidente.
Bab-ili significava quartiere, abitazione della divinità.
LOccidente aveva dovuto negare la sua storicità per
spostare a proprio vantaggio lasse del mondo, il centro della
civiltà e linizio della storia. Era stato costretto
a ricusare Bab-ili e la cultura mesopotamica per affermare se stesso.
La città che fu orgoglio dei Caldei venne bollata come la
dimora del Maligno, la sterminatrice, la prostituta che aveva fornicato
con i re della terra.
Proiettato nel tempo, questo atteggiamento aveva prodotto nella
coscienza dei cristiani la convinzione che lIslam fosse la
negazione, e non la continuazione del Cristianesimo, e che lo Stato
dei Califfi fosse il vero nemico dellImpero Medioevale erede
della Prima Roma. Questo pregiudizio aveva spinto il generale Gouraud,
entrato a Damasco alla testa delle truppe francesi, nel primo conflitto
mondiale, ad esclamare al cospetto della tomba del vincitore della
terza Crociata: «Eccoci di nuovo qui, Saladino!».
Per lIslam, specularmente, modernismo significava disincanto
del mondo, vita senza valori, miscredenza di massa. Tutto questo
era una minaccia ai precetti di Allah. LOccidente contagiava
con le sue idee, con i modelli di comportamento, con le tecniche
di produzione, con le stesse istituzioni politiche che funzionavano
come una rivoluzione permanente che travolgeva ogni cosa: interessi,
mentalità, tradizioni, ideologie. Per questa ragione gli
ulema e gli imam percepivano la contiguità del Nord e dellOvest
come pericolo di aggressione culturale, e contro questo reagivano
con la chiamata alle armi, non solo dialettiche, come unica possibilità
di impedire la contaminazione. Così il passato continuava
a tornare: un giorno era stata la Cristianità contro Bab-ili,
dopo sarebbe stato Dar al-Salam contro Satana.
Allora, il passato offre oppure no chiavi di lettura del presente?
Credo che la Grecia classica ci fornisca una grammatica culturale
estremamente utile per trovare una risposta: quando ci si trova
a riflettere su leadership, su conflitti di potenze o di civiltà,
sulla dialettica tra forme autoritarie e democratiche di governo,
non si può non tornare a Tucidide. La Storia del presente
si è sempre scritta. Tucidide teorizza che sia lunica
possibile. Perché è quella che si scrive più
frequentemente, per lovvia ragione che lo scrivere Storia
è il necessario prolungamento critico del fare Politica o
del pensare la Politica.
È pura e semplice ipocrisia aspettare che i fatti si
raffreddino, che noi si prenda una certa distanza prospettica
dagli avvenimenti, che gli archivi vengano distrutti o i documenti
manipolati. A distanza di decine di secoli non siamo nemmeno concordi
nel giudizio su Pericle o sulla campagna gallica di Cesare. Perciò
linvito ad attendere prima di scrivere di Storia è
quanto meno disperante.
Forse di una sola cosa si può dubitare, oggi: che la Storia
abbia un senso, cioè una direzione. Secondo Luciano Canfora,
«la visione unidirezionale è figlia del De civitate
Dei di Agostino». In versione mondanizzata la si ritrova
nel Manifesto di Marx ed Engels. Luno e laltro
testi programmatici, dunque privi di sfumature.
Tutto dipende dal momento storico-politico. Nella prima metà
del Novecento ci si stava convincendo della fine del capitalismo,
(si pensi al New Deal, o alleconomia socialista di piano).
Attualmente, invece, può sembrare che il sistema economico
capitalistico sia pervenuto al pieno dispiegamento della sua potenza.
Ma esso può aver già creato inediti anticorpi che
lo stanno costringendo a militarizzarsi per conservarsi. Non è
facile prevedere che cosa produrrà uno scenario del genere.
Il fiume della Storia si crea il suo letto, mentre scorre.

Nel 1936 Samuel Huntington, il politologo che con un articolo sullo
Scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale,
apparso in Foreign Affairs poco più di tredici
anni fa, lanciò il tema più dibattuto di questo scollinamento
di secolo-millennio, aveva compiuto appena nove anni. E nellautunno
cupo e fradicio di quellanno Versailles ospitava la XXVIII
Settimana Sociale dei cattolici francesi, un appuntamento di insospettate
qualità e libertà, volto non a lodare il magistero
esistente, ma a individuare in anticipo nodi profondi. Così,
dopo quelle sulla crisi della probità pubblica (1926), sul
disordine delleconomia mondiale (1932) o sul corporativismo
(1935), quella settimana si diede un titolo che oggi suona non so
se più folgorante o profetico: Les Conflits de Civilisations.
Il programma era stato illustrato al Pontefice da monsignor Roland-Gosselin
in unudienza che Papa Ratti gli aveva concesso il 14 ottobre:
e Pio XI lodò la scelta, sostenendo che «il compito
della Chiesa è di evangelizzare, non di civilizzare. E se
essa civilizza è tramite levangelizzazione»,
perché, come sanno tutti i credenti, «la fede si esprime
sempre in una cultura, ma nessuna cultura comunica la fede».
La Settimana prese il via con il dibattito su cosa fossero le civiltà.
Alcuni usarono lo schema di Toynbee, che distingueva cinque civiltà
mondiali (cinese, indù, islamica, occidentale e greco-russa);
altri partirono dalla distinzione tomista distillata da Sertillanges
fra cultura (che fa delluomo un prodotto) e civilizzazione
(ciò in cui luomo si fa creatore). Se ne discusse con
attenzione, in modo da sollecitare anche lattenzione altrui.
Il cardinale Pacelli, Segretario di Stato, futuro Pio XII, mandò
una lettera daugurio, nella quale esponeva la classica condanna
del «particolarismo religioso, che pretenderebbe che la rivelazione
e la salvezza siano lappannaggio duna civilizzazione
piuttosto che di unaltra». Ma nei corsi
tenuti da grandi intellettuali si scendeva a fondo nei temi. Louis
Massignon, fondatore di una teologia cristiana dellIslam e
ispiratore del dialogo tra i figli di Abramo, parlava del polimorfismo
del mondo arabo e la sua lezione, sottolineava il cronista, «ha
sfiorato i limiti della carità comprensiva».
Padre Bonsirven parlava della «questione dIsraele»
e si interrogava sulle differenze fra antisemitismo religioso, economico
e politico, dando per acquisito che lebraismo aveva «fallito»
la propria vocazione: eppure coglieva la «diffusione popolare»
dellodio antisemita e la pericolosità di chi lo alimentava,
agitando lo spettro di quegli ebrei francesi che si dichiaravano
prima ebrei che francesi. Jean Guitton trentanni dopo
interlocutore delezione di Paolo VI spiegava il carattere
della civilizzazione occidentale, in cui il Giudeo-Cristianesimo
non solo era stato, ma doveva restare allo stadio di germe, nella
posizione di fermento, proprio perché da lì esso aveva
plasmato e non occupato lo spazio della civiltà.
Ma la tesi di fondo la espresse Jacques Maritain, secondo il quale
il conflitto tra le civilizzazioni cera già stato,
con le Colonie e con lImperialismo: questo scontro aveva scosso
le civiltà dOriente, «ma a che prezzo! Con che
rifiuti! E con quali perdite per il regno di Dio!». Per il
futuro, Maritain pensava che il Cattolicesimo dovesse farsi «agente
di cooperazione fra i popoli» e chiedeva un «impegno
eroico che attesti la prevalenza dello Spirito e lindipendenza
della religione da Cesare e dai regimi di civilizzazione terrestre
e dalla quota fissa dingiustizia che grava su di essi, come
su quelle forme didolatria che si appellano alla razza, alla
classe, alla nazione o allo Stato eretti ad assoluto».
Gli Atti di Versailles (530 pagine) uscirono a dicembre e iniziarono
una corsa che non sarebbe finita presto. La tesi prefatoria di Eugenio
Pacelli, nel 1949, sarebbe diventata base della clamorosa eresia
di padre Leonard Feeney, il gesuita americano condannato per aver
interpretato ladagio extra Ecclesiam nulla salus
in modo estremistico e restrittivo. E avrebbe continuato a camminare
negli anni Sessanta, quando Samuel Huntington, ormai quarantenne,
sarebbe diventato consigliere del presidente Johnson. Addirittura,
la Commissione del Vaticano II, di cui era membro lallora
sconosciuto vescovo polacco Karol Wojtyla, avrebbe citato gli Atti
nella costituzione pastorale Gaudium et spes. La proposta
di accennare in Concilio a quegli Atti non venne da Wojtyla, ma
da padre Voillaume, che ispirava la propria spiritualità
a quel Charles de Foucault, di cui Giovanni Paolo II non fece in
tempo a celebrare la beatificazione nel 2005.
Tuttavia quella nota testimonia qualche cosa che ha a che fare con
la lenta parabola del cattolicesimo, e dunque con limpianto
teologico del Papa polacco: da decenni il Vaticano sa che quando
si scontrano non solo interessi economici o politici, ma anche più
grandi agglomerati religiosi, la Chiesa non può limitarsi
ad essere spettatrice, o peggio, annoiata esorcista degli abusi
nel nome di Dio, ma deve esercitare una vigilanza senza tregue.
Il dilemma, però, è questo: si deve trattare di una
vigilanza penitente, orante, come quella che spiega lincontro
ad Assisi del 1986, quando pregarono insieme uomini di fedi diverse,
oppure di una vigilanza militante, disposta a rintuzzare lazione
ostile, aggressiva nei propri confronti, dispiegando tutte le forze
culturali, morali e politiche di cui può disporre?
La divaricazione è qui, e se può riconoscersi nella
seconda ipotesi in Huntington, per quel che riguarda la prima esplicitamente
traspare in Bernard-Henri Lévy, autore di quell American
Vertigo che è laltra faccia della medaglia del
Viaggio in America di Alexis de Tocqueville. Scrive
lex nouveau philosophe: è possibile muovere alcune
precise obiezioni allautore di Scontro di civiltà.
La prima è la fragilità teorica della nozione di civiltà,
strutturata intorno alla cultura, alla filosofia
o alla religione, ma senza che questi termini siano
specificati e soprattutto senza che venga operata una chiara scelta
fra i tre. Laltra è lingenuità, che consiste,
qualunque sia il termine scelto, nellinsistere solo sullimpermeabilità,
sullincompatibilità, sullessenziale e ontologica
estraneità di questi larghi schieramenti civili che non possono
fare altro che scagliarsi gli uni contro gli altri o ignorarsi:
secondo questa ipotesi, cosa ne è delle connessioni e dei
ponti tra culture? Le civiltà, quelle vere, non sono anche
delle miscele che praticano il doppio gioco dellidentità
e dellincrocio? E che ne è delle invarianti e degli
universali che, come sa perfettamente un qualunque discepolo di
Lévi-Strauss, anche differenzialista, formano una base comune
a tutte le civiltà del mondo?
Il modo con cui, secondo Bernard-Henri Lévy, questa etnopolitica
si ricollega «con il peggior relativismo»: se le civiltà
sono come le descrive il padre del Clash of Civilizations,
se sono così chiuse e imperforabili le une verso le altre,
come non concludere che alcune sono adatte alla democrazia e altre
no? Come non riservare i diritti dellindividuo alle civiltà
nelle quali essi sono emersi e alle quali sarebbero strutturalmente
legati? E non abbiamo forse la facoltà di preoccuparci della
regressione che questo implica relativamente agli scarsi progressi
compiuti, da venti o trentanni, in direzione di un diritto
cosmopolitico kantiano più o meno perfezionato, senza comunque
scivolare nelle scempiaggini new age sullessere cittadini
del mondo e sulla fraternità universale? Non è fondata
la paura dellavvento di un mondo in cui lidea stessa
di uningerenza in una catastrofe umanitaria o in un genocidio
verrebbe considerata dice Huntington decisamente «immorale»?
Infine, trattandosi dellIslam, cioè di una civiltà
che si suppone naturalmente inadatta alla democrazia, rimane lobiezione
empirica, ma per lex nouveau philosophe decisiva, di quello
che Mahmud Hussein chiama «il versante sud della libertà»:
lesistenza, nelle terre islamiche, di correnti moderate e
moderniste che resistono dallinterno alle formazioni ideologiche
del fondamentalismo; la realtà, contraria a questa visione
eccessivamente schematica, della grande e antica frattura che separa
lIslam illuminista dal suo falso gemello salafista o wahabita;
in altri termini, lassurdità che consiste nel voler
fondere nello stampo di uno stesso concetto e di una stessa parola
i talebani e Massud, le donne algerine sventrate e i loro carnefici
del Gruppo islamico armato, o ancora Sayyid Qutb, ispiratore dellintegralismo
contemporaneo, e quel grande egiziano che nel 1826 tornò
da un soggiorno di quattro anni a Parigi convinto che fosse necessario
assimilare nel suo Paese le idee e i valori che avevano determinato
la prosperità della Francia...
(Bisogna comunque considerare che lAmerica non è mai
piaciuta allex nouveau philosophe; e neanche lui piacque allAmerica
quando, nel 2005, decise di attraversare gli States da un oceano
allaltro, sulle orme del suo illustre connazionale, Tocqueville.
Il quale, 173 anni prima, vi aveva scoperto una forma nuova di democrazia
liberale, di individualismo creativo e di società civile
matura. Il suo successore moderno, invece, si è fatto rimproverare
da molti osservatori doltre Atlantico un certo narcisismo
intellettuale, unito alla tipica diffidenza europea per lamerican
way of life. Henri Lévy conferma il rapporto di cordiale
antipatia nato allora fra lui e gli Stati Uniti, e ammette di provare
un certo turbamento, una vertigine addirittura, nei confronti del
Nuovo Mondo. Se fondamentalismo, neo-con, imperialismo, gli sembrano
«quanto cè di peggio», egli applica la
stessa lezione agli europei. I quali denuncia dovrebbero
imparare quanto sia pericolosa «la tirannia di una maggioranza»,
per quanto «democratica»; la durezza di un fondamentalismo
religioso speculare a quello talebano (che definisce «fascio-islamista»);
lidea che il nemico vada combattuto ovunque, con le armi in
pugno, estendendo il concetto di guerra giusta).

In realtà, è profondo e irto di vortici come un maelström
il letto scavato dal fiume della Storia tra Oriente e Occidente,
e tra Cristianesimo e Islam. A considerar bene, lurto iniziale
si ebbe nellinverno del 480 a.C., quando si diffuse la notizia
che unarmata persiana di proporzioni immani si stava avvicinando
alla Grecia. Il terrore si era sparso ovunque, tranne che a Sparta,
semplicemente perché i guerrieri lacedemoni non conoscevano
la paura e da sempre erano stati abituati a non contare il numero
dei nemici. Daccordo con gli Ateniesi, gli Spartani convocarono
a Corinto un congresso di tutte le città che avevano deciso
di resistere al Gran Re Serse.
Si accese subito una dura discussione su dove schierare le forze
federali. Gli Spartani indicavano lIstmo corinzio, gli Ateniesi
premevano per la protezione dellAttica. Si scelsero infine
le Termopili, per tenere al riparo anche i piccoli cantoni del centro
(Focesi, Dori, Locresi), importanti perché controllavano
lOracolo di Delfi, il Vaticano dellepoca, la cui voce
aveva un peso politico enorme. Per di più, lo stesso Oracolo
sembrava strizzare locchio ai Persiani, scoraggiando con due
vaticinii terrificanti sia Atene sia Sparta, se avessero osato resistere.
Le nazioni del Nord mandarono a dire che sarebbero state disposte
a unirsi ai confederati se la linea di difesa fosse stata spostata
dalle loro parti, verso Pidna, ben sapendo che questo sarebbe stato
strategicamente suicida.
A primavera, lesercito alleato (5.000 uomini) si attestò
alle Termopili, fortificando un vecchio muro che chiudeva langusto
passo fra il Monte Oeta e il mare. I Persiani (non cinque milioni,
come scrisse Erodoto, ma 300 mila uomini) si accamparono a settentrione
del muro. Gli Spartani erano in tutto trecento, ma rappresentavano
il corpo di élite dellesercito, vere e proprie macchine
da guerra votate a morire piuttosto che cedere un palmo di terreno.
Quando il Gran Re vide lo sparuto numero dei difensori, attese qualche
giorno, ritenendo che se ne sarebbero andati alla spicciolata. Poi,
spazientito, inviò un messaggero a intimare la consegna delle
armi.
«Molòn labé», rispose Leonida nel suo
rude dialetto laconico: «Vieni a prenderle». Serse scagliò
ondate sempre fresche di fanti, nel tentativo di liberare il passo.
Ma ogni attacco si infrangeva contro limpenetrabile muraglia
di scudi e di lance dei Greci e, soprattutto, degli Spartani. Leonida,
che prendendo il comando e presagendo lineluttabilità
della morte aveva detto addio alla moglie, la regina Gorgo, si batteva
in prima linea, instancabile, mentre i Persiani dovevano scalare
mucchi di compagni uccisi, ed erano demoralizzati a tal punto, nel
vedere lenergia sovrumana dei loro nemici contraddistinti
dal mantello rosso, che furono spinti a nuovi attacchi solo dopo
che i loro ufficiali fecero un uso implacabile delle fruste. Serse
lanciò nella mischia il suo corpo scelto, quello degli Immortali,
ma anche questi vennero decimati, il loro comandante ucciso: e per
due volte Leonida e i suoi furono sul punto di avvicinarsi al carro
del Gran Re, che ne rimase atterrito.
Alla fine del terzo giorno, mentre la resistenza dei Greci non accennava
a diminuire, si verificò limponderabile: un tale Efialte
andò da Serse e gli disse di poter guidare dietro compenso
il suo esercito attraverso un passo montano che portava alle spalle
dei Greci. Così durante la notte il cerchio si chiuse alle
spalle di Leonida. Il re spartano congedò gli alleati, per
non sacrificarli inutilmente, e restò con i suoi trecento
e con settecento Tespiesi, pronto allultima battaglia. «Mangiate
e bevete esortò i soldati perché questa
sera ceneremo nellAde». Poi diede lordine di schierarsi.
E poiché ad attacco iniziato i Greci ancora non arretravano,
Serse, anche per non perdere altri uomini, ordinò che fossero
abbattuti da lontano con le frecce. Morirono tutti, tranne due,
inviati dal re a Sparta con un messaggio di cui non si è
mai conosciuto il contenuto. Gli eroi delle Termopili divennero
così simbolo dellOccidente. Senza il loro valore e
il loro sacrificio il resto della Grecia non avrebbe trovato il
coraggio di resistere e di vincere, e la civiltà ellenica
sarebbe morta sul nascere, trascinando nella rovina i concetti di
libertà e di democrazia che sono ancora valori fondanti della
nostra civiltà.
Doverano le Colonne dErcole? Su quello che oggi è
lo Stretto di Gibilterra, dice la tradizione. Ma allepoca
potrebbe non essere stato così. Forse linvalicabile
confine era per i Greci, e poi per i Romani, la linea ideale che
collegava lIsola di Mozia, in Sicilia, con il tunisino Capo
Bon, oltre la quale era il mondo cartaginese: un mondo esclusivo,
mercantile e guerriero, che controllava anche il medio e lalto
Tirreno con le colonie di Tharros (in Sardegna) e di Marsiglia,
per di più alleato con gli Etruschi di Pyrgi, dunque fatalmente
destinato al conflitto con lUrbe, per il predominio nel Mediterraneo.
I Grandi Re persiani di là, i Grandi Condottieri africani
di qua, con Annibale eroe tragico che con il suicidio trovò
lultimo scampo alla sua libertà, contro lincomprensione,
il tradimento, il fato voltagabbana. Scrisse di lui Tito Livio:
«Era di gran lunga il primo tra i cavalieri e al tempo stesso
tra i fanti; per primo entrava in battaglia e per ultimo, a lotta
finita, ne usciva. Queste così grandi qualità erano
uguagliate da pesanti difetti: una disumana crudeltà, una
malvagità ancor più che cartaginese, nessun rispetto
del vero e del sacro, nessun timore degli dèi, nessun giuramento,
nessuno scrupolo religioso
». Era, per quei tempi, lindole
perfetta per diventare un Capo. Per inorgoglirsi oltre ogni misura
nella buona fortuna, e per non trovare laltrui pietas
nella sorte avversa.
Quando sulle rovine di Cartagine fu seminato il sale sterilizzatore,
nemico dogni forma di vita, la frontiera occidentale si aprì,
il mare divenne Nostrum e lOriente mediterraneo si ripiegò
in se stesso per una lunga età. Ancora una volta il Sud e
lEst erano stati ricacciati fra le pagine ingiallite di una
Storia che si sarebbe ostinatamente ripetuta dopo le Termopili e
Maratona, dopo Salamina, Platea e Micale, e dopo Roncisvalle e Poitiers,
e poi con la riconquista della Sicilia (lo svevo Federico, Splendore
del mondo, fece degli ultimi musulmani presenti nellisola
il suo corpo scelto di retroguardia e lo trasferì in Puglia,
in quella che venne chiamata proprio per questo Luceria Saracenorum)
e di al-Andalus (la Spagna, con la Cattolicissima Isabella), e che
sarebbe stata preludio alle sconfitte a Lepanto e sotto le mura
di Vienna, fino al tramonto definitivo dellibrido (per lincompatibilità
degli interessi tra Turchi e Arabi) Impero Ottomano.
Un misto di rancore e di frustrazione, ma anche una macerante nostalgia
della passata grandezza spinge questo Sud-Est a premere aggressivamente
sul Nord e sullOvest, cioè sullOccidente culturalmente,
scientificamente e tecnologicamente avanzato, facendo leva sul volano
religioso-politico, con una miscela esplosiva che rischia di deflagrare
in qualsiasi luogo, e in qualunque momento, aprendo inimmaginabili
scenari da apocalisse.
Huntington, Morra e Stark, al pari dei despoti arabi, vivono nellepoca
del petrolio come fonte principale di energia per il mondo evoluto,
come strumento di guadagni enormi per le satrapie musulmane, come
mezzo di ricatto politico nei confronti del resto del pianeta. Ora,
se trasferiamo la nostra attenzione su un altro aspetto della vita
contemporanea, che può sembrare, ma non è, disgiunto
dal senzaltro formidabile business energetico-finanziario,
possiamo riflettere anche sulle prospettive politico-economiche
della società prossima ventura.
Mai come in questi anni si è parlato e scritto tanto a proposito
delle mutazioni del clima, del ritiro dei ghiacciai, della penuria
di acqua, della siccità, delle carestie e delle malattie,
dovute allinquinamento atmosferico e terrestre. Giorno dopo
giorno crescono le accuse contro le fonti energetiche minerali,
mentre già si profilano soluzioni diverse, proposte da studi
che coinvolgono le fonti eoliche e solari, il gas dei giacimenti
afro-asiatici, lidrogeno per i mezzi di trasporto, il nucleare
ormai sempre più sicuro per la fornitura di
elettricità.
Se sia vero oppure no, non sappiamo, ma è crescente il simultaneo
allarme per un esaurimento non remoto delle riserve petrolifere
planetarie, e per il loro abbandono per via del costo di estrazione
sempre più alto e dei prezzi politici che si pagano per gli
approvvigionamenti e per le scorte nei Paesi ad avanzata industrializzazione.
Sta di fatto che sembra profilarsi una sorta di rivoluzione energetica,
che porterà prima o poi alla caduta dei consumi petroliferi
e alla sostituzione dellenergia minerale con altre fonti.
Che ne sarà dei Paesi produttori di oro nero? Che esiti avrà
il dispotismo familistico che controlla freddamente la politica
e i pozzi, la società e la religione, i petrodollari e il
terrore? E a quali rischi sarà esposto il Vecchio Continente,
se rappresenterà ben più di oggi una quinta
sponda per interi popoli spinti dalla fame e dalla disperazione
ad emigrare proprio verso il Nord e lOvest? Qualcuno, per
autodifesa o nel nome della propria cultura e civiltà, per
offesa o nel nome di uno sbocco vitale dopo le trascorse dissipazioni,
premerà per primo, oppure premerà per reazione il
grilletto che potrà oscurare, fino ad estinguerla, la vita
sul nostro pianeta?
Cè chi non crede alle crisi climatiche irreversibili
in atto sulla Terra, perché si tratterebbe, stando a varie
esperienze storiche trascorse, di fenomeni che hanno visto mutare,
sì, i cicli, ma mai in maniera vistosa, e meno che mai con
esiti apocalittici per lumanità (temperature, avanzamenti
e ritiri di ghiacciai, innalzamenti e abbassamenti di coste, erosioni
di rocce, esondazioni di fiumi, tsunami pluriomicidi, e quantaltro).
Allora, perché tanti allarmi, e così insistenti? Perché
tanta diffusione di paura collettiva, tanti reclami ecologici, addirittura
tante nostalgie luddiste? Forse sta prendendo piede presso un numero
crescente di osservatori, al di là di un certo responsabile
livello di preoccupazione per gli eccessi pervasivi dellindustria
e dei consumi contemporanei, portatori senzaltro di un
comunque controllabile degrado ambientale, una campagna di
lungo termine per preparare il terreno alla rivoluzione energetica
cui abbiamo accennato, se è vero, comè vero,
che profeti delle mutazioni sono valorosi Premi Nobel impegnati
nella ricerca di fonti alternative (ad esempio, il nostro Rubbia,
che da anni lavora con successo alle applicazioni della fonte-idrogeno)?
In questo caso, lo scontro fra civiltà o fra religioni sarà
più o meno carsicamente determinato da quello fra economie,
o fra economie e diseconomie, o infine fra centri e periferie, fra
città e campagne che dir si voglia. Ancora una volta si ripeterà
il conflitto mai ricomposto fra un Sud-Est neghittoso, statico,
dominato da teocrazie politiche ferrugigne, e un Nord-Ovest che
naviga fra lirrinunciabilità a una democrazia imperfetta,
(ma comunque democrazia), la rivoluzione permanente delle sue istituzioni
e la fame onnivora di materie prime in grado di alimentare benessere
e welfare (oggettivamente conseguiti) e consumi e sprechi (abissalmente
squilibrati al confronto con il Terzo e Quarto Mondo).
Ma non si accusi il Nord-Ovest di egoismo, perché sono la
sorda insensibilità e il cinismo delle classi dirigenti del
Sud-Est a scavare altri e nuovi abissi tra le parti in causa. Noi
possiamo rigettare lipotesi di Huntington sulla guerra di
civiltà come tentativo di esorcizzare uno stato di fatto
che non ci conforta, anzi ci terrorizza; possiamo anche metter su
scenari di pacifismo oltranzista (preghiere comuni, ma nelle chiese
cristiane; richieste di perdoni, ma esclusivamente unilaterali;
riavvicinamenti in nome della pace, ma con religioni molto contigue,
e con popoli che tuttavia non intendono essere definiti fratelli
maggiori, bensì da Dio prediletti: e non
è dato sapere per quale settaria ragione, che non sia di
superbo e insipiente riposizionamento dogmatico, con prevedibili
risvolti politici); ma non ci è dato rinunciare alla nostra
identità, alla nostra cultura, alla nostra civiltà,
che sono state e restano indiscutibili matrici creative che hanno
identificato la modernità e il progresso delluomo.
Torniamo dunque al discorso iniziale. Non con guerre più
o meno sante, più o meno potenzialmente sterminatrici il
Sud-Est può trasmutare le sue antistoriche nostalgie in realtà
contemporanee; ma con unazione interna volta alla conquista
di una scienza della vita (politica, culturale, religiosa, economica,
sociale...) che lo introduca e radichi nel futuro del mondo. Non
saranno loro nero dei deserti, degli Emirati e degli abissi
marini in pugno alle satrapie arabe, né quello delle feroci
etnie caucasiche e turcofone, né infine latomica del
tragicomico tirannicchio iraniano in pugno ad ayatollah da Medioevo
del terzo millennio (questi, sì, imprevedibili e pericolosi),
o la follia rituale dei kamikaze, a condizionare più di tanto
il resto del mondo, quello che possiede le risorse intellettuali,
scientifiche, tecnologiche in grado di dare indirizzi originali
e di progettare unevoluzione del mondo che non sia aliena,
o del tutto aliena, al sostrato umanistico che informa di sé
e sigilla la nostra tradizione storica e civile.
Al di fuori di questo contesto sono la confusione delle lingue e
lottenebramento delle ragioni. Il caos. Linverarsi della
profezia giovannea della fine dei secoli. Metaforica, ci auguriamo,
e non tragicamente reale.
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