Marzo 2007

Conflitti di civiltà

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I precursori
di Huntington
Aldo Bello  
 
 

Noi possiamo
rigettare l’ipotesi
del conflitto di
civiltà, possiamo anche metter
su scenari
di pacifismo
oltranzista,
ma non ci è dato
rinunciare alla
nostra identità, alla nostra
cultura, alla
nostra civiltà.

 

Il grido d’allarme è stato lanciato in tempi diversi e in più direzioni: Occidente ed Europa sono in caduta libera. Oriana Fallaci aveva scritto della nascita di un’Eurabia, vale a dire del Vecchio Continente in fase di resa all’Islam. Sabino Acquaviva ha denunciato il disordine consumistico che sostituisce i valori autentici della nostra tradizione civile e culturale. Sulla rinuncia all’identità cristiana sono stati versati fiumi d’inchiostro, e la sintesi delle più svariate tesi è stata fatta da Gianfranco Morra e da Rodney Stark. Ha scritto Alberoni: tutti concordano sull’idea di fondo che «senza valori forti, senza ideali trascendenti, senza Dio», e in ultima analisi senza un’utopia possibile, non può esserci alcuna civiltà. Il che significa che, mentre Occidente ed Europa continuano a rinnegare i propri valori, emergono civiltà e culture – come quella islamica e quella cinese – brutalmente sicure di sé. «L’Europa è invertebrata», accusa Morra. «La Cina e l’Islam, no».
Chi non ci sta, e ha ragionevoli dubbi sul declino del Nord e dell’Ovest, sostiene che tutte le idee cristiano-occidentali (tutti gli uomini fratelli, i diritti umani universali, il concetto di libero arbitrio, il diritto alla scelta del lavoro della politica dell’amore, l’autogoverno, la fede nella scienza e nei suoi limiti morali...) si vanno lentamente ma inesorabilmente diffondendo, e contagiano anche «le arroganti civiltà che le hanno sempre ignorate». Si chiedono, e chiedono, gli storiografi: – Ma davvero per noi, figli di Montesquieu, possono essere faro di civiltà un Califfato islamico seguace della “sharia” e con i poteri indivisi, oppure un gran Mandarinato cinese fondato sul dispotismo orientale? –.

Qualche anno fa si proclamava la fine della Storia. Era stato appena abbattuto il Muro di Berlino, e questa era la dottrina messa in circolazione da Francis Fukuyama. Ma poco fa, le immagini di Saddam Hussein con il cappio al collo ci hanno ammonito: la Storia prosegue drammaticamente il suo corso.
Che ne è, invece, della storiografia? Allo stato delle cose, a volte, le armi degli storici sembrano essersi spuntate nell’eccesso di “libri neri”, nelle strategie propagandistiche di parte, o anche nel primato dell’impressionismo giornalistico. Domande a prescindere: – Di quali chiavi disponiamo per interpretare il mondo globalizzato? Quali modelli possiamo importare dal passato per spiegare il presente? Gli scontri epocali tra Oriente e Occidente, come quelli tra Greci e Persiani, come quelli tra Romani e Cartaginesi, come quelli tra l’Europa carolingia, fortezza cristiana, e l’Oriente arabo e maomettano hanno qualcosa da dirci sul mondo emerso dopo le Twin Towers dell’11 settembre? –.
L’ambizione di una Storia Universale, che saldi in un unico filo passato e presente, e che getti un ponte fra scenari e contesti geopolitici differenti, non è solo contemporanea. Cercare interconnessioni tra le Storie di vari Paesi e civiltà apparteneva già ai Greci. Anche il saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni di Voltaire era un tentativo di comprensione delle vicende del mondo in chiave comparativa. E nell’Otto e Novecento le Storie Universali sono state costanti della storiografia: si pensi ad Arnold Toynbee, o a Fernand Braudel.

Dunque, il mondo antico ha esordito, nel campo della storiografia, con tentativi di racconto totale, onnicomprensivo. Da Ecateo a Erodoto il fenomeno appare molto chiaramente. Ciò che allora si venne costituendo fu una Storia Universale orientata, cioè dotata di un centro. E questo centro cambiava secondo i punti di vista: con l’affermarsi delle “poleis” e della democrazia in Grecia, fu l’Ellade l’ombelico del mondo; col dispiegarsi della potenza romana nel Mediterraneo e oltre, centro fu necessariamente l’Urbe. Non c’è da stupirsi, dunque, se anche le moderne Storie Universali conservano le stesse caratteristiche, dal momento che hanno posto al centro l’Europa, e meglio ancora, le grandi potenze dell’Europa occidentale, poi l’America, infine l’Occidente euroatlantico “tout court”. Il che ha infastidito non pochi studiosi, secondo i quali quasi mai l’Asia è stata considerata alla stregua del mondo occidentale. Sicché i continenti europeo e asiatico, più che confinare, avevano finito per fronteggiarsi.
Quando il passato non si ritrae decorosamente in se stesso, continua a proporsi come punto di confronto. Allora bisogna conoscerlo, interpretarlo nei suoi segni misteriosi, per non doverlo rivivere. Questo era accaduto per l’Oriente e l’Occidente: ignorando il passato dell’altro, o temendolo, e volendolo in qualche modo esorcizzare, ciascuno aveva alimentato il conflitto che aveva dato origine ad una contrapposizione non soltanto simbolica fra civiltà che già Eschilo – non per nulla un autore di tragedie – aveva preconizzato: da una parte il senso laico dello Stato, la razionalità, la sobrietà, l’ordine; dall’altra la confusione idolatrica dei poteri, la tirannide, l’arbitrio, la lussuria. Le sterminate genti dell’arco erano state opposte agli organizzati popoli della lancia e del gladio, e i nomadi schiavi di re barbari ai coscienti cittadini che difendevano in armi la propria libertà. Di là grandiose metropoli, babeliche costruzioni, fiumi giganteschi, deserti sconfinati; di qua città dove tutto, compresi i templi, era a misura dell’uomo e dei suoi campi coltivati.
Di questi scenari incompatibili aveva finito per prendere coscienza lo stesso Erodoto, che aveva fornito l’avallo della sua dotta parola, descrivendo il valore ittita come disumana ferocia, la magia persiana come notte della ragione, il ritualismo egizio come matrice di dispotismo. E sulla sua scia gli intellettuali greci avevano enfatizzato nella cultura mediterranea la leggenda di un Alessandro Magno traditore della purezza ellenica, adulteratore dell’armonia mediterranea, creatore di un mostruoso incubo eurasiatico. E ciò, sebbene per Esiodo Asia ed Europa, figlie di Oceano, racchiudessero nei nomi la chiave di lettura della loro essenza: Asia, dall’accadico “Asu”, ossia Alba; Europa, dall’accadico “Erebu”, ossia Tramonto. L’una e l’altra avevano preordinato per l’uomo la misura del tempo e il senso della vita.
Per contrappasso, negli scenari ideologici vicino-orientali e musulmani l’immagine dell’Occidente era diventata quella di una cultura demoniaca: Calvino aveva preso il posto del profeta Gesù, e il pragmatismo produttivo aveva scalzato ogni forma di spiritualità tramandata dalla tradizione apostolica. Lo testimoniava il destino di Babilonia, Perla dei Regni, che in mezzo secolo era assurta a dominatrice delle terre che avevano acceso la civiltà del mondo, ed era diventata settima meraviglia, fulcro della politica, della religione, della letteratura, della scienza. Ammirato di tanta grandezza, il re macedone, conquistatala, aveva ingiunto che non fosse rasa al suolo e l’aveva voluta capitale del suo Impero. Si erano salvati in questo modo il sapere dei popoli antichi, la cultura sumerica, e la medicina l’astronomia la matematica l’alchimia l’alfabeto.
Ma i nemici la chiamarono “Babel”, cioè Caos, e la sua Torre, luogo di preghiera e di studio, fu definita centro del disordine e pietra dello scandalo, per la libertà senza limiti che consentiva di scegliere l’errore, perché «al diavolo suo re non importa che i cittadini litighino tra di loro su opposte falsità, tutti possedendoli allo stesso modo per la loro sfrenata empietà». Allora Babel era entrata nell’immaginario cristiano come mito negativo, anti-città, alterità che serviva da contrappunto sistematico alla definizione dell’Occidente.
“Bab-ili” significava quartiere, abitazione della divinità. L’Occidente aveva dovuto negare la sua storicità per spostare a proprio vantaggio l’asse del mondo, il centro della civiltà e l’inizio della storia. Era stato costretto a ricusare Bab-ili e la cultura mesopotamica per affermare se stesso. La città che fu orgoglio dei Caldei venne bollata come la dimora del Maligno, la sterminatrice, la prostituta che aveva fornicato con i re della terra.
Proiettato nel tempo, questo atteggiamento aveva prodotto nella coscienza dei cristiani la convinzione che l’Islam fosse la negazione, e non la continuazione del Cristianesimo, e che lo Stato dei Califfi fosse il vero nemico dell’Impero Medioevale erede della Prima Roma. Questo pregiudizio aveva spinto il generale Gouraud, entrato a Damasco alla testa delle truppe francesi, nel primo conflitto mondiale, ad esclamare al cospetto della tomba del vincitore della terza Crociata: «Eccoci di nuovo qui, Saladino!».
Per l’Islam, specularmente, modernismo significava disincanto del mondo, vita senza valori, miscredenza di massa. Tutto questo era una minaccia ai precetti di Allah. L’Occidente contagiava con le sue idee, con i modelli di comportamento, con le tecniche di produzione, con le stesse istituzioni politiche che funzionavano come una rivoluzione permanente che travolgeva ogni cosa: interessi, mentalità, tradizioni, ideologie. Per questa ragione gli ulema e gli imam percepivano la contiguità del Nord e dell’Ovest come pericolo di aggressione culturale, e contro questo reagivano con la chiamata alle armi, non solo dialettiche, come unica possibilità di impedire la contaminazione. Così il passato continuava a tornare: un giorno era stata la Cristianità contro Bab-ili, dopo sarebbe stato Dar al-Salam contro Satana.
Allora, il passato offre oppure no chiavi di lettura del presente? Credo che la Grecia classica ci fornisca una grammatica culturale estremamente utile per trovare una risposta: quando ci si trova a riflettere su leadership, su conflitti di potenze o di civiltà, sulla dialettica tra forme autoritarie e democratiche di governo, non si può non tornare a Tucidide. La Storia del presente si è sempre scritta. Tucidide teorizza che sia l’unica possibile. Perché è quella che si scrive più frequentemente, per l’ovvia ragione che lo scrivere Storia è il necessario prolungamento critico del fare Politica o del pensare la Politica.
È pura e semplice ipocrisia aspettare che i fatti “si raffreddino”, che noi si prenda una certa distanza prospettica dagli avvenimenti, che gli archivi vengano distrutti o i documenti manipolati. A distanza di decine di secoli non siamo nemmeno concordi nel giudizio su Pericle o sulla campagna gallica di Cesare. Perciò l’invito ad attendere prima di scrivere di Storia è quanto meno disperante.
Forse di una sola cosa si può dubitare, oggi: che la Storia abbia un senso, cioè una direzione. Secondo Luciano Canfora, «la visione unidirezionale è figlia del “De civitate Dei” di Agostino». In versione mondanizzata la si ritrova nel “Manifesto” di Marx ed Engels. L’uno e l’altro testi programmatici, dunque privi di sfumature.
Tutto dipende dal momento storico-politico. Nella prima metà del Novecento ci si stava convincendo della fine del capitalismo, (si pensi al New Deal, o all’economia socialista di piano). Attualmente, invece, può sembrare che il sistema economico capitalistico sia pervenuto al pieno dispiegamento della sua potenza. Ma esso può aver già creato inediti anticorpi che lo stanno costringendo a militarizzarsi per conservarsi. Non è facile prevedere che cosa produrrà uno scenario del genere. Il fiume della Storia si crea il suo letto, mentre scorre.

Nel 1936 Samuel Huntington, il politologo che con un articolo sullo “Scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”, apparso in “Foreign Affairs” poco più di tredici anni fa, lanciò il tema più dibattuto di questo scollinamento di secolo-millennio, aveva compiuto appena nove anni. E nell’autunno cupo e fradicio di quell’anno Versailles ospitava la XXVIII Settimana Sociale dei cattolici francesi, un appuntamento di insospettate qualità e libertà, volto non a lodare il magistero esistente, ma a individuare in anticipo nodi profondi. Così, dopo quelle sulla crisi della probità pubblica (1926), sul disordine dell’economia mondiale (1932) o sul corporativismo (1935), quella settimana si diede un titolo che oggi suona non so se più folgorante o profetico: “Les Conflits de Civilisations”. Il programma era stato illustrato al Pontefice da monsignor Roland-Gosselin in un’udienza che Papa Ratti gli aveva concesso il 14 ottobre: e Pio XI lodò la scelta, sostenendo che «il compito della Chiesa è di evangelizzare, non di civilizzare. E se essa civilizza è tramite l’evangelizzazione», perché, come sanno tutti i credenti, «la fede si esprime sempre in una cultura, ma nessuna cultura comunica la fede».
La Settimana prese il via con il dibattito su cosa fossero le civiltà. Alcuni usarono lo schema di Toynbee, che distingueva cinque civiltà mondiali (cinese, indù, islamica, occidentale e greco-russa); altri partirono dalla distinzione tomista distillata da Sertillanges fra cultura (che fa dell’uomo un “prodotto”) e civilizzazione (ciò in cui l’uomo si fa creatore). Se ne discusse con attenzione, in modo da sollecitare anche l’attenzione altrui.
Il cardinale Pacelli, Segretario di Stato, futuro Pio XII, mandò una lettera d’augurio, nella quale esponeva la classica condanna del «particolarismo religioso, che pretenderebbe che la rivelazione e la salvezza siano l’appannaggio d’una civilizzazione piuttosto che di un’altra». Ma nei “corsi” tenuti da grandi intellettuali si scendeva a fondo nei temi. Louis Massignon, fondatore di una teologia cristiana dell’Islam e ispiratore del dialogo tra i figli di Abramo, parlava del polimorfismo del mondo arabo e la sua lezione, sottolineava il cronista, «ha sfiorato i limiti della carità comprensiva».
Padre Bonsirven parlava della «questione d’Israele» e si interrogava sulle differenze fra antisemitismo religioso, economico e politico, dando per acquisito che l’ebraismo aveva «fallito» la propria vocazione: eppure coglieva la «diffusione popolare» dell’odio antisemita e la pericolosità di chi lo alimentava, agitando lo spettro di quegli ebrei francesi che si dichiaravano prima ebrei che francesi. Jean Guitton – trent’anni dopo interlocutore d’elezione di Paolo VI – spiegava il carattere della civilizzazione occidentale, in cui il Giudeo-Cristianesimo non solo era stato, ma doveva restare allo stadio di germe, nella posizione di fermento, proprio perché da lì esso aveva plasmato e non occupato lo spazio della civiltà.
Ma la tesi di fondo la espresse Jacques Maritain, secondo il quale il conflitto tra le civilizzazioni c’era già stato, con le Colonie e con l’Imperialismo: questo scontro aveva scosso le civiltà d’Oriente, «ma a che prezzo! Con che rifiuti! E con quali perdite per il regno di Dio!». Per il futuro, Maritain pensava che il Cattolicesimo dovesse farsi «agente di cooperazione fra i popoli» e chiedeva un «impegno eroico che attesti la prevalenza dello Spirito e l’indipendenza della religione da Cesare e dai regimi di civilizzazione terrestre e dalla quota fissa d’ingiustizia che grava su di essi, come su quelle forme d’idolatria che si appellano alla razza, alla classe, alla nazione o allo Stato eretti ad assoluto».
Gli Atti di Versailles (530 pagine) uscirono a dicembre e iniziarono una corsa che non sarebbe finita presto. La tesi prefatoria di Eugenio Pacelli, nel 1949, sarebbe diventata base della clamorosa eresia di padre Leonard Feeney, il gesuita americano condannato per aver interpretato l’adagio “extra Ecclesiam nulla salus” in modo estremistico e restrittivo. E avrebbe continuato a camminare negli anni Sessanta, quando Samuel Huntington, ormai quarantenne, sarebbe diventato consigliere del presidente Johnson. Addirittura, la Commissione del Vaticano II, di cui era membro l’allora sconosciuto vescovo polacco Karol Wojtyla, avrebbe citato gli Atti nella costituzione pastorale “Gaudium et spes”. La proposta di accennare in Concilio a quegli Atti non venne da Wojtyla, ma da padre Voillaume, che ispirava la propria spiritualità a quel Charles de Foucault, di cui Giovanni Paolo II non fece in tempo a celebrare la beatificazione nel 2005.
Tuttavia quella nota testimonia qualche cosa che ha a che fare con la lenta parabola del cattolicesimo, e dunque con l’impianto teologico del Papa polacco: da decenni il Vaticano sa che quando si scontrano non solo interessi economici o politici, ma anche più grandi agglomerati religiosi, la Chiesa non può limitarsi ad essere spettatrice, o peggio, annoiata esorcista degli abusi nel nome di Dio, ma deve esercitare una vigilanza senza tregue. Il dilemma, però, è questo: si deve trattare di una vigilanza penitente, orante, come quella che spiega l’incontro ad Assisi del 1986, quando pregarono insieme uomini di fedi diverse, oppure di una vigilanza militante, disposta a rintuzzare l’azione ostile, aggressiva nei propri confronti, dispiegando tutte le forze culturali, morali e “politiche” di cui può disporre?
La divaricazione è qui, e se può riconoscersi nella seconda ipotesi in Huntington, per quel che riguarda la prima esplicitamente traspare in Bernard-Henri Lévy, autore di quell’ “American Vertigo” che è l’altra faccia della medaglia del “Viaggio in America” di Alexis de Tocqueville. Scrive l’ex nouveau philosophe: è possibile muovere alcune precise obiezioni all’autore di “Scontro di civiltà”. La prima è la fragilità teorica della nozione di “civiltà”, strutturata intorno alla “cultura”, alla “filosofia” o alla “religione”, ma senza che questi termini siano specificati e soprattutto senza che venga operata una chiara scelta fra i tre. L’altra è l’ingenuità, che consiste, qualunque sia il termine scelto, nell’insistere solo sull’impermeabilità, sull’incompatibilità, sull’essenziale e ontologica estraneità di questi larghi schieramenti civili che non possono fare altro che scagliarsi gli uni contro gli altri o ignorarsi: secondo questa ipotesi, cosa ne è delle connessioni e dei ponti tra culture? Le civiltà, quelle vere, non sono anche delle miscele che praticano il doppio gioco dell’identità e dell’incrocio? E che ne è delle invarianti e degli universali che, come sa perfettamente un qualunque discepolo di Lévi-Strauss, anche differenzialista, formano una base comune a tutte le civiltà del mondo?
Il modo con cui, secondo Bernard-Henri Lévy, questa etnopolitica si ricollega «con il peggior relativismo»: se le civiltà sono come le descrive il padre del “Clash of Civilizations”, se sono così chiuse e imperforabili le une verso le altre, come non concludere che alcune sono adatte alla democrazia e altre no? Come non riservare i diritti dell’individuo alle civiltà nelle quali essi sono emersi e alle quali sarebbero strutturalmente legati? E non abbiamo forse la facoltà di preoccuparci della regressione che questo implica relativamente agli scarsi progressi compiuti, da venti o trent’anni, in direzione di un diritto cosmopolitico kantiano più o meno perfezionato, senza comunque scivolare nelle scempiaggini new age sull’essere cittadini del mondo e sulla fraternità universale? Non è fondata la paura dell’avvento di un mondo in cui l’idea stessa di un’ingerenza in una catastrofe umanitaria o in un genocidio verrebbe considerata – dice Huntington – decisamente «immorale»?
Infine, trattandosi dell’Islam, cioè di una civiltà che si suppone naturalmente inadatta alla democrazia, rimane l’obiezione empirica, ma per l’ex nouveau philosophe decisiva, di quello che Mahmud Hussein chiama «il versante sud della libertà»: l’esistenza, nelle terre islamiche, di correnti moderate e moderniste che resistono dall’interno alle formazioni ideologiche del fondamentalismo; la realtà, contraria a questa visione eccessivamente schematica, della grande e antica frattura che separa l’Islam illuminista dal suo falso gemello salafista o wahabita; in altri termini, l’assurdità che consiste nel voler fondere nello stampo di uno stesso concetto e di una stessa parola i talebani e Massud, le donne algerine sventrate e i loro carnefici del Gruppo islamico armato, o ancora Sayyid Qutb, ispiratore dell’integralismo contemporaneo, e quel grande egiziano che nel 1826 tornò da un soggiorno di quattro anni a Parigi convinto che fosse necessario assimilare nel suo Paese le idee e i valori che avevano determinato la prosperità della Francia...
(Bisogna comunque considerare che l’America non è mai piaciuta all’ex nouveau philosophe; e neanche lui piacque all’America quando, nel 2005, decise di attraversare gli States da un oceano all’altro, sulle orme del suo illustre connazionale, Tocqueville. Il quale, 173 anni prima, vi aveva scoperto una forma nuova di democrazia liberale, di individualismo creativo e di società civile matura. Il suo successore moderno, invece, si è fatto rimproverare da molti osservatori d’oltre Atlantico un certo narcisismo intellettuale, unito alla tipica diffidenza europea per l’american way of life. Henri Lévy conferma il rapporto di cordiale antipatia nato allora fra lui e gli Stati Uniti, e ammette di provare un certo turbamento, una vertigine addirittura, nei confronti del Nuovo Mondo. Se fondamentalismo, neo-con, imperialismo, gli sembrano «quanto c’è di peggio», egli applica la stessa lezione agli europei. I quali – denuncia – dovrebbero imparare quanto sia pericolosa «la tirannia di una maggioranza», per quanto «democratica»; la durezza di un fondamentalismo religioso speculare a quello talebano (che definisce «fascio-islamista»); l’idea che il nemico vada combattuto ovunque, con le armi in pugno, estendendo il concetto di “guerra giusta”).

In realtà, è profondo e irto di vortici come un maelström il letto scavato dal fiume della Storia tra Oriente e Occidente, e tra Cristianesimo e Islam. A considerar bene, l’urto iniziale si ebbe nell’inverno del 480 a.C., quando si diffuse la notizia che un’armata persiana di proporzioni immani si stava avvicinando alla Grecia. Il terrore si era sparso ovunque, tranne che a Sparta, semplicemente perché i guerrieri lacedemoni non conoscevano la paura e da sempre erano stati abituati a non contare il numero dei nemici. D’accordo con gli Ateniesi, gli Spartani convocarono a Corinto un congresso di tutte le città che avevano deciso di resistere al Gran Re Serse.
Si accese subito una dura discussione su dove schierare le forze federali. Gli Spartani indicavano l’Istmo corinzio, gli Ateniesi premevano per la protezione dell’Attica. Si scelsero infine le Termopili, per tenere al riparo anche i piccoli cantoni del centro (Focesi, Dori, Locresi), importanti perché controllavano l’Oracolo di Delfi, il Vaticano dell’epoca, la cui voce aveva un peso politico enorme. Per di più, lo stesso Oracolo sembrava strizzare l’occhio ai Persiani, scoraggiando con due vaticinii terrificanti sia Atene sia Sparta, se avessero osato resistere. Le nazioni del Nord mandarono a dire che sarebbero state disposte a unirsi ai confederati se la linea di difesa fosse stata spostata dalle loro parti, verso Pidna, ben sapendo che questo sarebbe stato strategicamente suicida.
A primavera, l’esercito alleato (5.000 uomini) si attestò alle Termopili, fortificando un vecchio muro che chiudeva l’angusto passo fra il Monte Oeta e il mare. I Persiani (non cinque milioni, come scrisse Erodoto, ma 300 mila uomini) si accamparono a settentrione del muro. Gli Spartani erano in tutto trecento, ma rappresentavano il corpo di élite dell’esercito, vere e proprie macchine da guerra votate a morire piuttosto che cedere un palmo di terreno. Quando il Gran Re vide lo sparuto numero dei difensori, attese qualche giorno, ritenendo che se ne sarebbero andati alla spicciolata. Poi, spazientito, inviò un messaggero a intimare la consegna delle armi.
«Molòn labé», rispose Leonida nel suo rude dialetto laconico: «Vieni a prenderle». Serse scagliò ondate sempre fresche di fanti, nel tentativo di liberare il passo. Ma ogni attacco si infrangeva contro l’impenetrabile muraglia di scudi e di lance dei Greci e, soprattutto, degli Spartani. Leonida, che prendendo il comando e presagendo l’ineluttabilità della morte aveva detto addio alla moglie, la regina Gorgo, si batteva in prima linea, instancabile, mentre i Persiani dovevano scalare mucchi di compagni uccisi, ed erano demoralizzati a tal punto, nel vedere l’energia sovrumana dei loro nemici contraddistinti dal mantello rosso, che furono spinti a nuovi attacchi solo dopo che i loro ufficiali fecero un uso implacabile delle fruste. Serse lanciò nella mischia il suo corpo scelto, quello degli Immortali, ma anche questi vennero decimati, il loro comandante ucciso: e per due volte Leonida e i suoi furono sul punto di avvicinarsi al carro del Gran Re, che ne rimase atterrito.
Alla fine del terzo giorno, mentre la resistenza dei Greci non accennava a diminuire, si verificò l’imponderabile: un tale Efialte andò da Serse e gli disse di poter guidare dietro compenso il suo esercito attraverso un passo montano che portava alle spalle dei Greci. Così durante la notte il cerchio si chiuse alle spalle di Leonida. Il re spartano congedò gli alleati, per non sacrificarli inutilmente, e restò con i suoi trecento e con settecento Tespiesi, pronto all’ultima battaglia. «Mangiate e bevete – esortò i soldati – perché questa sera ceneremo nell’Ade». Poi diede l’ordine di schierarsi. E poiché ad attacco iniziato i Greci ancora non arretravano, Serse, anche per non perdere altri uomini, ordinò che fossero abbattuti da lontano con le frecce. Morirono tutti, tranne due, inviati dal re a Sparta con un messaggio di cui non si è mai conosciuto il contenuto. Gli eroi delle Termopili divennero così simbolo dell’Occidente. Senza il loro valore e il loro sacrificio il resto della Grecia non avrebbe trovato il coraggio di resistere e di vincere, e la civiltà ellenica sarebbe morta sul nascere, trascinando nella rovina i concetti di libertà e di democrazia che sono ancora valori fondanti della nostra civiltà.
Dov’erano le Colonne d’Ercole? Su quello che oggi è lo Stretto di Gibilterra, dice la tradizione. Ma all’epoca potrebbe non essere stato così. Forse l’invalicabile confine era per i Greci, e poi per i Romani, la linea ideale che collegava l’Isola di Mozia, in Sicilia, con il tunisino Capo Bon, oltre la quale era il mondo cartaginese: un mondo esclusivo, mercantile e guerriero, che controllava anche il medio e l’alto Tirreno con le colonie di Tharros (in Sardegna) e di Marsiglia, per di più alleato con gli Etruschi di Pyrgi, dunque fatalmente destinato al conflitto con l’Urbe, per il predominio nel Mediterraneo.
I Grandi Re persiani di là, i Grandi Condottieri africani di qua, con Annibale eroe tragico che con il suicidio trovò l’ultimo scampo alla sua libertà, contro l’incomprensione, il tradimento, il fato voltagabbana. Scrisse di lui Tito Livio: «Era di gran lunga il primo tra i cavalieri e al tempo stesso tra i fanti; per primo entrava in battaglia e per ultimo, a lotta finita, ne usciva. Queste così grandi qualità erano uguagliate da pesanti difetti: una disumana crudeltà, una malvagità ancor più che cartaginese, nessun rispetto del vero e del sacro, nessun timore degli dèi, nessun giuramento, nessuno scrupolo religioso…». Era, per quei tempi, l’indole perfetta per diventare un Capo. Per inorgoglirsi oltre ogni misura nella buona fortuna, e per non trovare l’altrui “pietas” nella sorte avversa.
Quando sulle rovine di Cartagine fu seminato il sale sterilizzatore, nemico d’ogni forma di vita, la frontiera occidentale si aprì, il mare divenne Nostrum e l’Oriente mediterraneo si ripiegò in se stesso per una lunga età. Ancora una volta il Sud e l’Est erano stati ricacciati fra le pagine ingiallite di una Storia che si sarebbe ostinatamente ripetuta dopo le Termopili e Maratona, dopo Salamina, Platea e Micale, e dopo Roncisvalle e Poitiers, e poi con la riconquista della Sicilia (lo svevo Federico, Splendore del mondo, fece degli ultimi musulmani presenti nell’isola il suo corpo scelto di retroguardia e lo trasferì in Puglia, in quella che venne chiamata proprio per questo Luceria Saracenorum) e di al-Andalus (la Spagna, con la Cattolicissima Isabella), e che sarebbe stata preludio alle sconfitte a Lepanto e sotto le mura di Vienna, fino al tramonto definitivo dell’ibrido (per l’incompatibilità degli interessi tra Turchi e Arabi) Impero Ottomano.
Un misto di rancore e di frustrazione, ma anche una macerante nostalgia della passata grandezza spinge questo Sud-Est a premere aggressivamente sul Nord e sull’Ovest, cioè sull’Occidente culturalmente, scientificamente e tecnologicamente avanzato, facendo leva sul volano religioso-politico, con una miscela esplosiva che rischia di deflagrare in qualsiasi luogo, e in qualunque momento, aprendo inimmaginabili scenari da apocalisse.
Huntington, Morra e Stark, al pari dei despoti arabi, vivono nell’epoca del petrolio come fonte principale di energia per il mondo evoluto, come strumento di guadagni enormi per le satrapie musulmane, come mezzo di ricatto politico nei confronti del resto del pianeta. Ora, se trasferiamo la nostra attenzione su un altro aspetto della vita contemporanea, che può sembrare, ma non è, disgiunto dal senz’altro formidabile business energetico-finanziario, possiamo riflettere anche sulle prospettive politico-economiche della società prossima ventura.
Mai come in questi anni si è parlato e scritto tanto a proposito delle mutazioni del clima, del ritiro dei ghiacciai, della penuria di acqua, della siccità, delle carestie e delle malattie, dovute all’inquinamento atmosferico e terrestre. Giorno dopo giorno crescono le accuse contro le fonti energetiche minerali, mentre già si profilano soluzioni diverse, proposte da studi che coinvolgono le fonti eoliche e solari, il gas dei giacimenti afro-asiatici, l’idrogeno per i mezzi di trasporto, il nucleare – ormai sempre più sicuro – per la fornitura di elettricità.
Se sia vero oppure no, non sappiamo, ma è crescente il simultaneo allarme per un esaurimento non remoto delle riserve petrolifere planetarie, e per il loro abbandono per via del costo di estrazione sempre più alto e dei prezzi politici che si pagano per gli approvvigionamenti e per le scorte nei Paesi ad avanzata industrializzazione. Sta di fatto che sembra profilarsi una sorta di rivoluzione energetica, che porterà prima o poi alla caduta dei consumi petroliferi e alla sostituzione dell’energia minerale con altre fonti.
Che ne sarà dei Paesi produttori di oro nero? Che esiti avrà il dispotismo familistico che controlla freddamente la politica e i pozzi, la società e la religione, i petrodollari e il terrore? E a quali rischi sarà esposto il Vecchio Continente, se rappresenterà ben più di oggi una “quinta sponda” per interi popoli spinti dalla fame e dalla disperazione ad emigrare proprio verso il Nord e l’Ovest? Qualcuno, per autodifesa o nel nome della propria cultura e civiltà, per offesa o nel nome di uno sbocco vitale dopo le trascorse dissipazioni, premerà per primo, oppure premerà per reazione il grilletto che potrà oscurare, fino ad estinguerla, la vita sul nostro pianeta?
C’è chi non crede alle crisi climatiche irreversibili in atto sulla Terra, perché si tratterebbe, stando a varie esperienze storiche trascorse, di fenomeni che hanno visto mutare, sì, i cicli, ma mai in maniera vistosa, e meno che mai con esiti apocalittici per l’umanità (temperature, avanzamenti e ritiri di ghiacciai, innalzamenti e abbassamenti di coste, erosioni di rocce, esondazioni di fiumi, tsunami pluriomicidi, e quant’altro). Allora, perché tanti allarmi, e così insistenti? Perché tanta diffusione di paura collettiva, tanti reclami ecologici, addirittura tante nostalgie luddiste? Forse sta prendendo piede presso un numero crescente di osservatori, al di là di un certo responsabile livello di preoccupazione per gli eccessi pervasivi dell’industria e dei consumi contemporanei, portatori senz’altro di un – comunque controllabile – degrado ambientale, una campagna di lungo termine per preparare il terreno alla rivoluzione energetica cui abbiamo accennato, se è vero, com’è vero, che profeti delle mutazioni sono valorosi Premi Nobel impegnati nella ricerca di fonti alternative (ad esempio, il nostro Rubbia, che da anni lavora con successo alle applicazioni della fonte-idrogeno)?
In questo caso, lo scontro fra civiltà o fra religioni sarà più o meno carsicamente determinato da quello fra economie, o fra economie e diseconomie, o infine fra centri e periferie, fra città e campagne che dir si voglia. Ancora una volta si ripeterà il conflitto mai ricomposto fra un Sud-Est neghittoso, statico, dominato da teocrazie politiche ferrugigne, e un Nord-Ovest che naviga fra l’irrinunciabilità a una democrazia imperfetta, (ma comunque democrazia), la rivoluzione permanente delle sue istituzioni e la fame onnivora di materie prime in grado di alimentare benessere e welfare (oggettivamente conseguiti) e consumi e sprechi (abissalmente squilibrati al confronto con il Terzo e Quarto Mondo).
Ma non si accusi il Nord-Ovest di egoismo, perché sono la sorda insensibilità e il cinismo delle classi dirigenti del Sud-Est a scavare altri e nuovi abissi tra le parti in causa. Noi possiamo rigettare l’ipotesi di Huntington sulla guerra di civiltà come tentativo di esorcizzare uno stato di fatto che non ci conforta, anzi ci terrorizza; possiamo anche metter su scenari di pacifismo oltranzista (preghiere comuni, ma nelle chiese cristiane; richieste di perdoni, ma esclusivamente unilaterali; riavvicinamenti in nome della pace, ma con religioni molto contigue, e con popoli che tuttavia non intendono essere definiti “fratelli maggiori”, bensì “da Dio prediletti”: e non è dato sapere per quale settaria ragione, che non sia di superbo e insipiente riposizionamento dogmatico, con prevedibili risvolti politici); ma non ci è dato rinunciare alla nostra identità, alla nostra cultura, alla nostra civiltà, che sono state e restano indiscutibili matrici creative che hanno identificato la modernità e il progresso dell’uomo.
Torniamo dunque al discorso iniziale. Non con guerre più o meno sante, più o meno potenzialmente sterminatrici il Sud-Est può trasmutare le sue antistoriche nostalgie in realtà contemporanee; ma con un’azione interna volta alla conquista di una scienza della vita (politica, culturale, religiosa, economica, sociale...) che lo introduca e radichi nel futuro del mondo. Non saranno l’oro nero dei deserti, degli Emirati e degli abissi marini in pugno alle satrapie arabe, né quello delle feroci etnie caucasiche e turcofone, né infine l’atomica del tragicomico tirannicchio iraniano in pugno ad ayatollah da Medioevo del terzo millennio (questi, sì, imprevedibili e pericolosi), o la follia rituale dei kamikaze, a condizionare più di tanto il resto del mondo, quello che possiede le risorse intellettuali, scientifiche, tecnologiche in grado di dare indirizzi originali e di progettare un’evoluzione del mondo che non sia aliena, o del tutto aliena, al sostrato umanistico che informa di sé e sigilla la nostra tradizione storica e civile.
Al di fuori di questo contesto sono la confusione delle lingue e l’ottenebramento delle ragioni. Il caos. L’inverarsi della profezia giovannea della fine dei secoli. Metaforica, ci auguriamo, e non tragicamente reale.

 

   
   
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