Marzo 2007

Che mondo fa

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Se Pechino
finanzia l’America
Niall Ferguson Docente di Storia Economica e Finanziaria Harvard University
 
 





Per investitori ed esponenti politici, il pericolo
economico più
insidioso che corre oggi il mondo resta quello
di una ripresa
dell’inflazione.

 

Qual è la soluzione dell’attuale paradosso di una crescita accompagnata da bassa volatilità in una situazione di squilibri globali? Sono due le risposte possibili. La prima è che le regole dell’economia globale sono fondamentalmente mutate, non per effetto di una qualche irenica riprogrammazione dell’architettura finanziaria internazionale, ma per effetto dei cambiamenti di rotta delle politiche nazionali adottati sulla scia delle crisi finanziarie del 1997-1998 in Asia. Questa è una tesi che assume diverse forme.
Una variante, sostenuta da economisti come Michael Dooley, David Folkerts-Landau e Peter Garber, suggerisce che siamo entrati in una nuova era delle relazioni monetarie mondiali, un’era che i tre studiosi definiscono “Bretton Woods 2”, (anche se, in realtà, le somiglianze con il sistema originale di Bretton Woods, nato dopo il secondo conflitto mondiale, sono soltanto epidermiche). Secondo loro, le economie dei Paesi in via di sviluppo si sono rese conto che è troppo pericoloso fare affidamento sul capitale estero per finanziare la propria industrializzazione, perché ciò le rende troppo vulnerabili ai deflussi di capitale a breve termine e alle crisi valutarie.
I Paesi in via di sviluppo attualmente puntano invece ai surplus commerciali, e fanno ricorso a sistematici interventi valutari per ancorare le proprie valute al dollaro a un tasso di cambio relativamente favorevole, che faccia da stimolo all’export. L’effetto è nello stesso tempo quello di rafforzare le esportazioni delle economie asiatiche che adottano questa strategia, e di finanziare il deficit delle partite correnti americane, che in effetti è un corollario del tutto indispensabile della loro crescita stimolata dalle esportazioni.

Una seconda variante è quella proposta in due diverse forme da Ricardo Haussman e Richard Cooper. Secondo Haussman, il deficit delle partite correnti, così come viene calcolato ufficialmente, è una statistica fuorviante, perché apparentemente in contraddizione con i dati delle variazioni dello stock di attività e passività esterne. Haussman sostiene che gli Stati Uniti, soprattutto quando effettuano investimenti esteri diretti, esportano quantità non calcolate di “materia oscura”, che potrebbe essere definita più prosaicamente know-how. Per l’America, i profitti derivanti dall’esportazione di metodi gestionali sono molto alti: da volumi molto più contenuti di investimenti esteri, gli Stati Uniti sono in grado di generare gli identici profitti che gli stranieri ricavano da investimenti molto più cospicui in attività americane.
Cooper sostiene una tesi analoga, affermando che gli Stati Uniti sono tranquillamente in grado di finanziare un disavanzo, quale risulta dai dati, tra il 6 e il 7 per cento del Prodotto interno lordo, grazie ai numerosi benefici che offrono agli stranieri che acquistano titoli in dollari, non da ultimo la sicurezza. Dal mio punto di vista, sono convinto da tempo che gli Stati Uniti, nel loro ruolo di impero globale dominante, siano in grado di gestire indebitamenti colossali, mantenendo tassi d’interesse relativamente bassi. Il fatto che le Banche centrali asiatiche siano disposte a detenere grandi quantità di valuta denominata in dollari e a basso rendimento può esser essere letto in termini simil-imperiali. È una specie di “tributo” che la periferia paga alla capitale dell’impero, non troppo diverso dalle tasse che venivano corrisposte in passato alle autorità imperiali.
Visto dall’alto, stiamo attraversando un’epoca di impressionante crescita degli investimenti esteri negli Stati Uniti. Le attività controllate da stranieri negli Stati Uniti ormai superano, sommate insieme, gli 11.600 miliardi di dollari (88 per cento del Pil), per un passivo netto con l’estero di 2.500 miliardi di dollari (circa il 20 per cento del Pil).
Il significato di tutto questo può apparire abbastanza paradossale. In sostanza, i risparmi dei cinesi e di altri popoli asiatici finanziano i consumi statunitensi. Certo, il cinese medio è molto più povero dell’americano medio: il reddito nazionale pro capite in Cina è di circa 1.740 dollari, secondo la Banca Mondiale, mentre l’americano medio ha un reddito annuo di 43.740 dollari, venticinque volte di più. Ma l’americano medio non mette da parte nulla, mentre il cinese medio risparmia circa un quarto del proprio reddito. La logica, apparentemente perversa, del povero che presta al ricco funziona per due motivi.

Il primo è che, considerando che gli interventi valutari hanno finito col rallentare l’apprezzamento della valuta cinese, il flusso di fondi ha avuto come effetto di mantenere le esportazioni cinesi verso gli Usa a livelli più alti di quelli che avrebbero raggiunto in caso contrario. La strategia sta funzionando, dato che il rapporto fra il reddito americano e quello cinese si è fortemente ridotto, passando da 73:1 nel 1990 a 25:1 nel 2005.
Il secondo motivo, forse il più importante, è che su questa strada il mondo riesce ad allocare il capitale in modo più efficiente. Perché? In passato, quando i capitali affluivano dai Paesi ricchi verso i Paesi poveri, spesso andavano sprecati per via della corruzione nelle alte sfere e della mancanza di trasparenza nel settore privato. Oggi, i capitali affluiscono dai Paesi poveri verso i Paesi ricchi, finendo in investimenti relativamente sicuri: titoli di Stato americani e società blue chip. Nello stesso tempo, peraltro, il capitale affluisce dai Paesi ricchi verso i Paesi poveri attraverso queste stesse società.
L’aspetto che spesso viene trascurato è che una larga fetta delle principali società americane, grazie agli investimenti esteri diretti e all’outsourcing, hanno una presenza importante nei Paesi emergenti dell’Asia. Investire nelle aziende dello S&P500, dunque, garantisce un’esposizione indiretta ai mercati emergenti, ma con i maggiori livelli di responsabilità e di trasparenza tipici della corporate governance a stelle e strisce.
Altamente significativo, in questo contesto, è che il 63 per cento del recente incremento delle esportazioni cinesi sia da ricondursi alla voce “Imprese con presenza estera”. Tra queste imprese c’è la Wal-Mart (colosso della distribuzione Usa, N.d.R.) , che ha forti e crescenti insediamenti manifatturieri nella Cina centrale.
Esiste una seconda spiegazione per il paradosso della crescita robusta, accompagnata da bassa volatilità, in una situazione di squilibri globali e di rischio politico. È la liquidità. I tassi overnight sono aumentati, sicuramente, ma per le principali economie mondiali rimangono significativamente al di sotto dell’ultimo picco, che è stato raggiunto nel biennio 2000-01. Anche i rendimenti obbligazionari sono più bassi dei livelli che avevano raggiunto nel 2000, oscillano in un range del 4-5 per cento nel caso dei T-bond decennali americani. La crescita dell’offerta di moneta, nelle sue accezioni più larghe, in generale rimane vivace.
Il rilassamento delle condizioni monetarie chiarisce due cose. Innanzitutto, spiega perché il mercato immobiliare americano abbia rallentato senza subire un tracollo. In secondo luogo, una moneta relativamente abbondante consente all’innovazione finanziaria globale di proseguire a ritmi sostenuti, tanto da amplificare gli effetti di liquidità. L’intermediazione finanziaria, secondo quasi tutti i parametri, è a livelli da primato. Per questo motivo, il pericolo economico più insidioso che corre oggi il mondo resta quello di una ripresa dell’inflazione. La sfida per gli investitori e gli esponenti politici in questo anno sarà capire quale sia il modo migliore per monitorare questo risveglio dell’inflazione.

 

   
   
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