Marzo 2007

I GIGANTI ASIATICI

Indietro
Inesistente Cindia
Guy de Jonquières Editorialista del “Financial Times”
 
 





Nel gergo
finanziario,
Cindia è una terra magica nella quale le economie della Cina e dell’India si fondono
sprigionando
inaudite ricchezze.

 

Secondo le guide turistiche, Cindia è una località della Romania nella quale Vlad l’Impalatore, un sanguinario monarca del XV secolo che ha ispirato il fittizio Conte Dracùla, osserva l’esecuzione delle sue vittime. Ma nel gergo dei mercati finanziari dei nostri giorni, Cindia è una terra magica nella quale le economie della Cina e dell’India si fondono, sprigionando inaudite ricchezze.
È uno scenario intrigante, che ha ripreso quota dopo la recente visita di Hu Jintao in India, la prima di un presidente cinese negli ultimi dieci anni, e dopo i clamorosi impegni delle due parti a mettere da un canto le diatribe passate e a marciare insieme verso il futuro. C’è soltanto un problema: la teoria che i loro destini economici siano inseparabilmente intrecciati non trova il minimo riscontro nella realtà dei fatti.

Le uniche somiglianze evidenti tra i due Paesi sono che entrambi occupano una gran fetta del territorio asiatico, entrambi sono popolosi, entrambi stanno crescendo a ritmo sostenuto ed entrambi sono affamati di risorse naturali. A parte questo, collocare la Cina e l’India nella stessa categoria è sensato quanto abbinare la Cina con re Vlad, che quando non è impegnato a reprimere senza pietà il dissenso, condivide con Pechino l’interesse per il miglioramento della rete stradale, il controllo delle province ribelli e le ricorrenti campagne anti-corruzione.
Sotto molti aspetti, i due Paesi sono l’uno l’opposto dell’altro. La Cina è un’autocrazia comunista che ha messo in moto riforme economiche ad ampio raggio, ha aperto l’economia al mondo e ha mobilitato ampie risorse a favore dello sviluppo. L’India è una democrazia elefantiaca, le cui ultime riforme economiche (forzate dalla crisi finanziaria) risalgono al 1991, con la liberalizzazione che da allora è stata bloccata dallo stallo politico. La Cina ha prosperato grazie alle politiche messe in campo dal governo; l’India ha prosperato nonostante l’assenza di queste politiche. La Cina è cresciuta seguendo un sentiero già ampiamente battuto nell’Asia orientale: investimenti ed esportazioni a fare da traino e un alto tasso di risparmio interno ad alimentare la crescita. In India, con un’economia più chiusa e un tasso di risparmio molto più basso, a sostenere la crescita sono in larga parte i consumi interni. La Cina si sforza di tenere sotto controllo l’eccesso di investimenti in attività fisse, mentre l’India è penalizzata dalla scarsità di capitali e da una spesa in infrastrutture deprecabilmente inadeguata.
La produzione a basso costo è il motore dell’economia reale cinese. L’industria manifatturiera indiana per il momento genera una quota contenuta del reddito nazionale, così come l’industria del software e dei servizi, che tanto vengono sbandierati. L’India ha un sistema bancario ragionevolmente solido e un mercato azionario maturo e consolidato. Le traballanti banche cinesi devono ancora imparare come stimare il rischio e come prestare denaro con assennatezza, mentre il mercato azionario è ancora nella preistoria.
E si aggiunga che l’interazione tra le due economie è soltanto marginale. Il commercio bilaterale è cresciuto rapidamente, ma l’India pesa solo per l’1,3 per cento nelle esportazioni cinesi. Quasi l’8 per cento delle esportazioni indiane finiscono in Cina, ma si tratta in gran parte, per sfortuna di Nuova Delhi, di merci a basso valore aggiunto, mentre il flusso commerciale nell’altra direzione è dominato dai prodotti industriali. Gli investimenti avvengono con il contagocce, in entrambi i sensi, e ciascuna delle due parti si lamenta delle difficoltà di operare nel mercato dell’altra. Secondo quasi tutti i parametri economici, oggi la Cina è più integrata sotto il profilo economico con gli Stati Uniti, che non con l’India.
Con così pochi punti di contatto fra le due economie, è fantasioso presupporre che il nascente dialogo tra Cina e India si tradurrà in tempi rapidi in clamorosi passi avanti nella cooperazione economica. Più probabilmente, l’obiettivo primario dei due governi è quello di limitare i danni. Entrambi vogliono evitare che le antiche rivalità, diatribe e diffidenze interferiscano con la loro corsa allo sviluppo. Ma continueranno a percorrere strade distinte verso quella meta.
La questione diventa allora quale strada si dimostrerà più efficace. Sul breve termine, il rischio principale in Cina è che l’incapacità di affrontare alla radice il problema degli sprechi da sovrainvestimento possa trasformare il boom in un crack. In India, il rischio è che la crescita venga strozzata dalla mancata modernizzazione delle scricchiolanti infrastrutture nazionali.
Il lato negativo è che un rallentamento economico globale colpirebbe tutte e due. L’India, meno dipendente dalle esportazioni, potrebbe sembrare messa meglio per superare un’eventuale crisi. Ma il fatto che si affidi massicciamente ai flussi di capitale a breve termine dall’estero per finanziare la crescita potrebbe renderla vulnerabile se gli investitori globali decidessero di disertare i mercati emergenti.

Lo stretto controllo che il governo di Pechino mantiene sul cambio della valuta isola la Cina dalle turbolenze finanziarie internazionali. Un calo delle esportazioni colpirebbe molti dei suoi produttori a bassi margini. Ma il Paese può far conto su sostanziose risorse finanziarie per attenuare l’impatto degli shock esterni.
Spingendoci ancora più in là, le incertezze maggiori in entrambi i Paesi sono di tipo politico. Se i politici indiani non si rassegneranno a metter mano alle riforme, aprire le porte agli investimenti esteri diretti e cominciare ad affrontare gli ostacoli strutturali alla crescita, l’economia si svilupperà meno di quanto potrebbe, e il suo slancio potrebbe affievolirsi.
Il problema più pressante per la Cina, sul breve periodo, è se il regime autoritario che la governa sarà in grado di gestire le sfide create dalla crescita rapida, il fattore dal quale dipende la sua fragile legittimità; o se invece i problemi rappresentati dal crescere della disuguaglianza, della corruzione, dei tumulti popolari, e, forse, anche della richiesta di emancipazione politica porterà il sistema fino al punto di rottura.
La democrazia indiana, con tutti i suoi difetti, è famosa da tempo per la sua capacità di resistenza. Ma si è sviluppata in un’era di rigide strutture sociali, in cui ognuno era rassegnato al posto che gli spettava nella gerarchia. La crescita accelerata sta mettendo in discussione il vecchio ordine. A molti sta offrendo speranza, ma sta anche acuendo le disparità fra una ricca élite urbana e schiere di poveri che aspirano disperatamente a una vita migliore.
Andare incontro a queste aspirazioni e mantenere la stabilità sociale rappresenta un test importantissimo per il sistema politico nazionale. Almeno sotto questo profilo, Cina e India hanno qualcosa in comune.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2007