Marzo 2007

Rimesse saudite e malesi

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La Zakat
tra carità e terrore
Giordano Roversi  
 
 





“Preleva sui loro beni un’elemosina tramite la quale
li purifichi e li mondi e prega
per loro”
(Corano 9, 103).

 

Uno degli aspetti più misteriosi del fondamentalismo islamico e della lotta al terrorismo è quello dei finanziamenti, che evocano immagini a dir poco sconcertanti. Come non ricordare, infatti, la maratona televisiva saudita per finanziare le bombe suicide palestinesi durante la seconda Intifada, un’operazione che raccolse centinaia di migliaia di dollari? I politici occidentali sono del tutto consci che l’opinione pubblica trovi raccapricciante l’idea che organizzazioni caritatevoli vengano usate dal terrorismo come canali finanziari. Per questa ragione ogni volta che nei governi c’è maretta, i ministri delle Finanze avanzano nuove proposte per “decurtare” i soldi del terrore.
Pochi mesi fa, il Cancelliere dello Scacchiere britannico ha suggerito “restrizioni” nei confronti delle organizzazioni filantropiche islamiche, senza tuttavia specificarne la natura. Ancora più di frequente legislazioni internazionali che potrebbero aiutare a penetrare il labirinto della finanza del terrore furono rigettate per paura di recar danno ai paradisi fiscali ubicati nei propri Paesi. Nel 2001, nella riunione dei ministri delle Finanze europei a Nizza, fu lo stesso Cancelliere a bocciare la proposta di armonizzare il sistema fiscale e la legislazione sul riciclaggio della black money all’interno dell’Unione europea. Quella proposta avrebbe consentito di monitorare i flussi finanziari dai paradisi fiscali del Vecchio Continente, inclusi i fondi del terrore inviati dopo l’11 settembre dalle Isole del Canale britannico alla moschea milanese di Via Quaranta.
Il fallimento della lotta contro il finanziamento dell’integralismo islamico è anche legato all’uso sporadico e inconsistente che i governi occidentali fanno delle legislazioni che mirano a combatterlo, ad esempio le Liste del Terrore, elenchi di persone fisiche e giuridiche sospettate di finanziare quel fondamentalismo, introdotte nel novembre 2001. Tra i banchieri di al-Qaeda manca però Wamy (World Assembly of Muslim Youth), messa fuorilegge per il finanziamento dell’insurrezione islamica alla fine degli anni Novanta nelle Filippine, dove era gestita da Kalifa, il cognato di bin-Laden. Ancora oggi, il quartier generale di Wamy si trova ad Alessandria, in Virginia. Fino all’11 settembre, il presidente di Wamy Usa era Abdullah bin-Laden, fratello di Osama. Wamy è operativa in 34 Paesi e controlla 450 organizzazioni. Sempre alla fine degli anni Novanta, l’Fbi lanciò un’indagine internazionale sul ruolo che Wamy ricopriva nel giro delle finanze di al-Qaeda, indagine che venne insabbiata dall’avvento dell’amministrazione Bush.

Ancora più sconcertante è il caso di al-Qadi, tra i primi sauditi ad essere inserito nelle liste del terrore. Nonostante le ripetute richieste al governo saudita e malese, (al-Qadi ha infatti doppia nazionalità), è tuttora a piede libero. Ancora nel 2003 la moglie del principe Bandar bin-Sultan, allora ambasciatore saudita a Washington e amico personale del presidente americano, fu accusata di aver trasferito 5.000 dollari a un’organizzazione saudita basata in California e legata a due dei dirottatori dell’11 settembre. Per ironia della sorte, fu suo marito, insieme con l’attuale ambasciatore a Washington, il principe Turki al-Faisal, ad insegnare negli anni Ottanta, insieme alla Cia e all’Isi, i servizi pakistani, il sistema di dirottamento della zaka¯t saudita, per finanziare i mujahedin in Afghanistan. Turki dette l’incarico di distribuire i fondi sul campo di battaglia ad Osama bin-Laden. Iniziò così l’avventura terrorista del giovane saudita!
La zaka¯t, l’offerta obbligatoria pari al 2,5% del reddito annuale (se la ricchezza posseduta, però, non supera una certa soglia, chiamata nisab, pari a 87,48 grammi d’oro, si è sollevati dall’obbligo, N.d.R.), è uno dei cinque pilastri dell’Islam, ed è un modo di ridistribuire la ricchezza ai meno fortunati. È un serbatoio monetario non indifferente. Secondo i servizi segreti pakistani, durante la jihad antisovietica in Afghanistan l’ammontare annuo della zaka¯t saudita era pari a un miliardo di dollari. Se si considera che oggi in Arabia Saudita i membri della famiglia reale sono 6.000, con un reddito superiore ai 600 miliardi di dollari, e dunque con una zaka¯t pari a 15 miliardi di dollari, si ha un’idea del volume globale del filantropismo musulmano.
La zaka¯t è incorporata nella struttura bancaria islamica: ciò significa che le banche musulmane detraggono il 2,5% da ogni transazione finanziaria e bancaria che gestiscono. Questo gran fiume di denaro confluisce nel dipartimento della zaka¯t, che fa parte del ministero delle Finanze o in quello del Tesoro dei Paesi muslim. Da lì, ogni anno i fondi raccolti dalle banche vengono distribuiti alle organizzazioni caritatevoli. Solo in Arabia Saudita ce ne sono 241.
Il criterio, ovviamente, è discrezionale: decidono il ministro e le lobbies del governo, che in Arabia Saudita sono rappresentate da membri della famiglia reale. La partecipazione alla distribuzione della zaka¯t dei politici non è comunque garanzia delle buone intenzioni dei fondi. All’inizio del 2002, ad esempio, il dipartimento della zaka¯t saudita inviò fondi sotto forma di donazione al Comitato per il sostentamento dell’Intifada al-Quds, (Gerusalemme), il cui presidente era il ministro degli Interni. L’operazione sembrava perfettamente legale, anche perché al-Quds non era citata nelle Liste. Solo nell’aprile 2002 si scoprì la documentazione che provava che quei fondi erano stati usati per compensare attacchi suicidi.
Il nocciolo della questione non è dunque aumentare i controlli e restringere la libertà di movimento dei gruppi filantropici islamici in Occidente, incluse ovviamente le moschee, ma ottenere la collaborazione dei Paesi musulmani che, come l’Arabia e la Malesia, da decenni finanziano la colonizzazione del fondamentalismo. Senza questa cooperazione nessuna misura anti-finanziamento funzionerà.
Criminalizzare la generosità dei musulmani non riduce la popolarità dell’integralismo: tra i giovani, finisce per rafforzarlo e spingerlo nella clandestinità, fenomeno facilitato dall’attuale basso costo dell’attività terroristica. I quattro “uomini bomba” avevano abbandonato la moschea locale ed erano entrati in un network di moschee clandestine, che operavano al di fuori dei circuiti tradizionali. All’interno di questo network racimolarono le 7.000 sterline per finanziare l’attacco alla metropolitana di Londra. Si trattò di una somma minima, rispetto al costo dell’11 settembre, la cui sola esecuzione costò mezzo milione di dollari.
L’esperienza londinese fa riflettere anche su un altro aspetto della guerra contro il terrore: la decisione di puntare tutte le carte sull’opzione bellica, tralasciando le ipotesi del risarcimento delle famiglie delle vittime innocenti dei bombardamenti; il coinvolgimento dei giovani nelle attività di soccorso, di ricostruzione, di redistribuzione; il simultaneo dispiegamento di una strategia di creazione di reti di beni e di servizi civili e sociali; e in ultima analisi, un’attività complessiva di attuazione di un progetto di “sviluppo di empatia”, (gli italiani hanno fatto scuola, in questo campo), che miri alla ricostruzione morale delle coscienze ferite.

 

   
   
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