Marzo 2007

La moneta unica europea cinque anni dopo

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Euro star
M.B. - D.M.B.  
 
 

L’euro e le valute che gli fanno da corte, compresa la sdegnosa sterlina, che in realtà non lo perde mai di vista, sono gli
“homines novi” che sfidano
l’aristocratico
dollaro.

 

«Certamente non potrà durare...». Quanti erano stati a predire il crollo? Intanto, il più celebre di tutti, Milton Friedman: «L’Europa è l’esempio di una situazione sfavorevole a una moneta comune». Poi Gary Becker, forse il più sopravvalutato tra i Nobel per l’Economia: «C’è un elevato rischio che sarà un fallimento». Poi ancora Martin Feldstein, il più avventato, il presidente del “National Bureau of Economic Research”, che nel 2000 parlò «per commemorare più che per celebrare il primo compleanno dell’euro», convinto com’era – e come continua ad essere – che presto tutto sarebbe crollato. Senza tralasciare il più contraddittorio, quell’Otmar Issino che in seguito, in qualità di economista della Banca centrale europea, avrebbe fatto tanto per garantirne i successi: «Non c’è alcun esempio, nella storia, di un’unione monetaria durevole che non fosse legata ad un unico Stato».
E invece, parole e tempo persi per tutti. L’euro ha festeggiato il suo ottavo anniversario – ma il quinto, se si conta dall’introduzione delle banconote – e sembra che goda buona salute. È vero: ha attraversato momenti difficili, ha sfidato il dileggio dei mercati. Era calato fino a 0,82 dollari, appariva diretto verso quota 0,70, i rendimenti dei titoli di Stato dei Paesi membri cominciavano a muoversi in modo indipendente gli uni dagli altri – con la solita Italia che lanciava sinistri scricchiolii – e gli operatori riservavano giudizi fino a poco tempo prima destinati alla lira: «L’euro è uno schifo di moneta», commentavano senza mezzi termini.

Ancora oggi, tra i francesi che attaccano la Bce e i tedeschi che la difendono, Eurolandia non offre uno spettacolo decoroso. Eppure l’economia cresce più rapidamente degli Stati Uniti – ed è almeno la seconda volta nel corso di questi anni –, la valuta assume peso internazionale, si scava lentamente un posto sempre più rilevante tra petrodollari e riserve ufficiali, viene persino usata come bandiera contro la moneta Usa: Iran e Venezuela lo hanno fatto, anche se alle parole sono seguiti, inevitabilmente, timidi fatti.
Ormai si può parlare di successo, anche se sono ancora tanti coloro i quali non vogliono riconoscerlo. Come si dice: strana gente, gli economisti! Abituati come sono al mercato, organismo multicentrico, non riescono però a capire come le tensioni che si agitano dietro l’euro siano la sua forza. Se la moneta comune ha incontrato difficoltà, è per l’ambiente in cui si muove. Perché essa e le valute che le fanno da corte – compresa la sdegnosa sterlina, che in realtà non la perde mai di vista – sono gli “homines novi” che sfidano l’aristocratico dollaro e la sua area valutaria: cioè Dollarolandia, o come la chiamano alcuni, Bretton Woods 2.
La moneta americana, al confronto, ha una vita facile. Immaginate di avere un accordo con il vostro supermercato: tutto il denaro che spendete lì per acquistare merci vi sarà riconsegnato sotto forma di prestito. Una somma da restituire, e con gli interessi; ma nel frattempo – nel breve periodo – voi non perdete denaro e avete a disposizione i beni che desiderate. È questo l’accordo che gli Stati Uniti hanno stretto con il mondo; e non è cosa di oggi: l’esempio del supermercato – nella versione originale era un taylor, un sarto – è stato proposto dall’economista Jacques Rueff nel 1965, ai tempi di Bretton Woods, il sistema che legava tutte le valute al dollaro, e questo all’oro.
L’euro sta sfidando la nuova versione di questo accordo. Gli Stati Uniti oggi acquistano beni in Cina, che per mantenere stabile lo yuan (o reminbi) “restituisce” i dollari ricevuti comprando titoli di Stato americani; e così facendo, mantiene più cari del dovuto i beni importati dall’Europa. Allo stesso modo, con intensità variabile a seconda del regime valutario scelto, si comportano Hong Kong, Malesia, Singapore, Taiwan, la Corea del Sud, le ex Tigri asiatiche, i Paesi del Golfo produttori di petrolio e persino il Giappone: lo yen fluttua, ma sotto gli occhi vigili del ministero delle Finanze, che interviene appena esce dalla “retta via”.

Eurolandia paga per tutti. Paga una tassa, innanzitutto, perché i cambi fissi impediscono alle valute dei Paesi esportatori di apprezzarsi sull’euro come dovrebbero, a meno che non sia la moneta comune a perdere valore rispetto a quella americana. La cosa è particolarmente dolorosa per il petrolio del Golfo, pagato in dollari che non tornano in Eurolandia – per esempio, per acquistare merci prodotte nell’Unione – ma negli Stati Uniti. Quando l’euro è alto, i consumatori dell’Uem sono avvantaggiati, le importazioni sono meno care; ma il sistema produttivo soffre, sopravvivono solo le aziende migliori o quelle che trasferiscono gli impianti all’estero.
Eurolandia paga poi la volatilità del mercato: tutte le tensioni del mercato valutario – già di per sé piuttosto disordinato – si scaricano soprattutto sull’euro che esagera sempre i suoi movimenti e non a caso ha fatto prima temere il disastro perché troppo debole, nel 2000; e poi perché troppo forte, nel 2004.
È un blocco potente, quello cui si oppone l’euro. I successi della valuta comune non sono però un miracolo. L’euro si sta inserendo negli interstizi del sistema perché è davvero un’alternativa valida per gli investimenti. Eurolandia è un’area monetaria nello stesso tempo unica ma diversificata; con molta liquidità e con tassi bassi; con un’ampia varietà di regolamentazioni e di aziende interessanti dal punto di vista redditizio, anche se penalizzate da una corporate governance meno rassicurante di quella americana.
Ora, con una crescita relativamente rapida anche rispetto a quella degli Stati Uniti, i cittadini tornano a respirare dopo un periodo di sofferenza, avendo però goduto per anni di un’inflazione bassa come non mai. C’è ancora tanto da fare, ma la strada sembra essere proprio quella giusta.

 

   
   
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