Marzo 2007

Il mercato del lavoro bancario nel rapporto abi

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Fotografia
di un sistema in movimento
Filippo Cucuccio  
 
 

 

 

L’Oscar
dell’economicità va alle banche ceche e inglesi, mentre l’Italia
si posiziona
all’estremo
opposto con la magra
consolazione
di precedere
Lussemburgo
e Cipro.

 

La consueta fotografia di gruppo di fine anno del mercato del lavoro bancario* anche questa volta non delude le aspettative di quanti si applicano ad osservarla sotto diversi punti di vista e ad interpretarla con una pluralità di chiavi di lettura.
In realtà, il dato d’assieme di partenza non sembrerebbe prospettare un terreno particolarmente fertile di novità; infatti, il “Rapporto ABI 2006” mette in evidenza una stabilità complessiva del mercato del lavoro bancario a fine 2005 (-0,1%), quindi una tenuta del livello occupazionale che fa seguito alla lunga fase di contrazione rilevata negli anni precedenti.
Peraltro, dietro questa prima notazione statistica vi è una serie di modificazioni di natura qualitativa su cui vale la pena di soffermarsi. La prima variazione getta un fascio di luce sul significativo slittamento del personale verso qualifiche professionali più elevate con le due fasce categoriali dei dirigenti e dei quadri direttivi giunte rispettivamente al 2,2% e al 35% della forza lavoro complessiva (contro il 2,1% e il 34,1% dell’anno precedente).
Al miglioramento della qualificazione professionale corrisponde, poi, un secondo interessante dato di innalzamento, quello del livello di scolarità: il 91% dei dipendenti bancari risulta aver conseguito almeno il diploma di scuola media superiore e oltre il 25%, cioè più di un dipendente su 4, può vantare un titolo di laurea. A completamento di queste annotazioni sul livello di scolarità va ricordato come da questo “Rapporto ABI” risulti confermata la relazione inversamente proporzionale tra la dimensione aziendale e l’incidenza del personale più scolarizzato, relazione peraltro già verificata nel passato: in altri termini, al diminuire della dimensione della banca si riscontra la crescita della quota di dipendenti che possono esibire almeno il titolo di scuola media superiore.
Passando ad un secondo angolo di osservazione che la lettura di questo Rapporto sollecita, si entra nel tema della diffusione delle tipologie contrattuali applicate in questo mercato. Si evidenzia, così, la preminenza assoluta del genere “a tempo indeterminato” che rappresenta il 96,7% degli occupati di questo settore, sommando le quote delle due sottocategorie di full-time e part-time. Anche la figura dei contratti di inserimento registra una variazione positiva, raddoppiando la propria incidenza (da 0,3% a 0,6%), mentre la nuova categoria degli apprendisti non supera la soglia dello 0,2%. Su quest’ultima categoria crediamo però si possa spendere in futuro un’attenzione maggiore per la sua evoluzione quantitativa, anche perché si è in presenza di una figura giuridica relativamente nuova, frutto del contratto collettivo di lavoro del settore bancario stipulato nell’inverno 2004-05 e di una regolamentazione che è andata a regime solo nei mesi successivi.

Se poi si continua in questo esercizio di ricostruzione della carta d’identità del mercato del lavoro bancario in Italia, certamente un elemento da tenere in considerazione tocca l’aspetto dell’età media dei dipendenti, segnalata in crescita sia pure lieve rispetto all’anno precedente, 42,5 contro 42,1 anni. Alla base di questo contenuto slittamento all’insù vi sono, secondo il “Rapporto”, l’invecchiamento dei lavoratori delle aree professionali (da 39,9 a 40,3 anni) e una modesta variazione dell’età media dei quadri direttivi (da 45,9 a 46 anni). Anche in questo caso, peraltro, non può sfuggire all’occhio dell’osservatore la relazione inversamente proporzionale tra età del personale e dimensione aziendale. Da un lato, infatti, al di sotto della linea teorica tracciata dall’età media complessiva si collocano le aziende minori (39,9 anni); dall’altro al di sopra si trovano le aziende “grandi” e “maggiori”, con 43,6 anni.
Sempre in tema di età del personale va segnalata, infine, un’ulteriore particolarità che emerge quando il dettaglio statistico scende alla disaggregazione geografica con la crescita dell’età media a mano a mano che ci si sposta dal Nord al Sud della Penisola. Si passa, così, dai 41 anni dei dipendenti del Nord-Est ai quasi 44 anni e agli oltre 44 anni dei colleghi rispettivamente del Centro e del Sud-Isole. Un fenomeno che è trasversale alle diverse categorie professionali, come dimostrano sia i dati sui dirigenti che nel Sud-Isole si attestano su un’età media di 52 anni contro i 49 dei dipendenti di pari fascia del Nord-Ovest; sia i raffronti relativi alla categoria posta all’estremo opposto, cioè gli occupati delle aree professionali con i 39 anni dei dipendenti del Nord-Est rispetto ai 44 anni dei colleghi del Centro-Sud.
Ma l’analisi di questo mercato del lavoro non potrebbe dirsi completa, sia pure nei suoi punti essenziali, ove non venisse dato uno spazio adeguato al capitolo della presenza femminile. Le evidenze statistiche segnalano che anche questa volta la cosiddetta quota rosa registra un ulteriore significativo incremento, passando dal 38,6% al 39,3% della forza lavoro complessiva. Una linea di tendenza confortata da una crescita che si può valutare in oltre 8 punti percentuali se si dilata il periodo di raffronto al 1997. Inoltre, sulla scorta di questi dati e alla luce delle politiche di assunzione in atto, non è azzardato prevedere che la tendenza alla crescita della “quota rosa” porterà a raggiungere un obiettivo di futura equivalenza tra i due sessi nel giro di qualche anno.
A sostegno di questa previsione si può addurre la eclatante diversità del tasso di sostituzione; infatti, se per ogni 10 uomini che cessano dal servizio ne subentrano 8, per il personale femminile ogni 10 unità cessate si registrano 15 nuove assunte. In realtà, non è solo l’aspetto quantitativo che colpisce nell’analisi del fenomeno della crescente presenza femminile che si presta facilmente ad altre chiavi di lettura intriganti. Non può, infatti, sfuggire la lievitazione delle quote di personale con inquadramento professionale in qualifiche più elevate (ad esempio, compare uno 0,2% tra i dirigenti rispetto allo zero di qualche anno prima); né l’altro dato sulla numerosità delle donne laureate (il 27% contro il 25% degli uomini) con una bilancia del livello complessivo di scolarità che pende nettamente verso la componente femminile della forza lavoro (93% contro l’89%).
A questo punto, esaurita la ricognizione dei dati qualitativi-quantitativi del mondo bancario, si può voltare pagina per affrontare alcuni aspetti degli elementi valoriali espressi da questo mercato del lavoro, le retribuzioni, sui quali il “Rapporto ABI” si sofferma, utilizzando una doppia chiave di lettura, descrittiva della situazione italiana e comparativa di altri contesti operativi in cui si situano i nostri principali competitors.
Cominciando dal primo aspetto, ci viene proposta la cifra del costo medio per dipendente che su base annua, e al netto degli oneri straordinari per agevolare l’interruzione anticipata del rapporto di lavoro, si attesta a poco più di 68.000 euro, corrispondenti a oltre 71.000 euro tenuto conto dell’effetto Irap. Il consistente aumento del 3,8% rispetto all’anno precedente è giustificato, secondo l’analisi del Rapporto, dalle politiche retributive adottate dalle banche, dall’adozione dei nuovi princìpi contabili IAS, dagli effetti dei rinnovi contrattuali avvenuti tra il febbraio e l’aprile 2005. Per avere un’idea meno puntuale ma più dilatata nel tempo della variabile costo medio per dipendente è utile stabilire un raffronto rispetto all’inizio di questo secolo, che rileva una variazione poco al di sotto del 12%. Se, poi, si risale ulteriormente indietro nel tempo, agli inizi degli anni Novanta, si può rilevare una dinamica decisamente più pronunciata con una variazione del 51,5%.
Si è voluto fare questo esercizio a ritroso nel tempo per poter suffragare l’ipotesi che gli incrementi del costo del lavoro nel settore bancario non hanno avuto un andamento lineare e costante, ma a strappi. A monte di questa linea di tendenza si collocano, infatti, sia il blocco delle retribuzioni attuato nel biennio 1998-99, sia il ringiovanimento del personale al quale si associa normalmente un’inferiore retribuzione annua. Sempre in questo ambito c’è anche da ricordare che la disaggregazione del dato medio del costo a seconda della dimensione dell’azienda bancaria mostra un comportamento difforme: a una crescita più contenuta registrata dalle banche maggiori (0,9%) fanno riscontro incrementi più consistenti, sia per le aziende “grandi” e “piccole” (5,3%), sia per le minori (4,6%), sia infine per le medie (4,3%).
Soffermandosi su un altro elemento valoriale, la produttività, misurata attraverso l’indicatore totale attivo per dipendente a prezzi costanti, si apprende con una punta di compiacimento che il settore bancario italiano ha messo a segno un incremento dell’8%, dato confortato anche dalle risultanze del rapporto tra costo del personale e costi operativi, sceso al 54,5% rispetto al 55,3% dell’anno precedente.
L’attenzione alle politiche retributive del personale è comunque segnata da un lungo percorso, in parte sicuramente ancora da compiere: se infatti, ad esempio, l’indagine retributiva contenuta nel “Rapporto ABI” mostra un’indiscutibile maggiore incidenza della retribuzione variabile per le figure professionali di Rete – quindi legata ai risultati ottenuti – in particolare dell’area di business del wealth management e una struttura molto differenziata per età e per inquadramento degli addetti al private e al wealth management, viceversa emerge anche un utilizzo ancora poco differenziato dei benefit.
In tema di oculatezza di politiche retributive e di contenimento del costo del lavoro quali obiettivi strategici e qualificanti del settore bancario, un cenno va, infine, fatto allo sguardo che il “Rapporto ABI” lancia al di fuori dei confini, intercettando alcune significative linee di tendenza. Da questa ricognizione innanzitutto emerge una netta differenza del comportamento retributivo tra le banche dei nuovi Stati membri dell’Unione europea e quelle degli altri (salvo isolate eccezioni, sono decisamente più parsimoniose le prime!); inoltre, scendendo su un piano tipologico delle banche, risultano confermate le disparità di comportamento retributivo già rilevate in passato tra Global Banks, Superregional Banks e Regional Banks, mentre la palma del più alto valore del costo del lavoro per dipendente risulta attribuita ancora una volta alla categoria delle Investments Banks.
Se, poi, si passa all’analisi del rapporto tra costo del lavoro e margine di intermediazione, il “Rapporto ABI” mette in evidenza che il relativo indice per le banche italiane registra un valore superiore a quello medio europeo. In realtà, in questa particolare classifica le banche che possono vantare l’oscar dell’economicità sono quelle della Repubblica Ceca e quelle inglesi, mentre l’Italia si posiziona all’estremo opposto con la magra consolazione di precedere i sistemi di Lussemburgo e di Cipro. E, purtroppo, notizie certamente non più rassicuranti giungono da un altro indicatore di efficienza quale il cost/income ratio, dove il raffronto tra il valore segnato per le banche italiane e quello dei cinque principali players europei (Francia, Germania, Olanda, Spagna e Regno Unito) ci vede sfavoriti di oltre 6 punti percentuali. Sicuramente gioca contro il nostro sistema il disegno concettuale dell’area contrattuale di riferimento che in altre realtà risulta molto più limitata, giustificando così la richiesta di quanti vorrebbero spendere una riflessione più approfondita in merito. Per esempio, partendo dalla distinzione tra attività creditizie sottoposte al controllo di Vigilanza e attività che possono essere svolte anche da imprese non soggette a tale controllo: una differenziazione prevista e applicata anche in ambiti culturalmente prossimi al nostro, come quello della Francia.
Finisce, così, questo viaggio attraverso il mercato del lavoro bancario italiano offertoci dal “Rapporto ABI”, uscendo da questa esperienza arricchiti di preziose informazioni e stimolanti considerazioni; e in più con il convincimento di aver visitato un laboratorio permanente di esperimenti e novità da far fruttare nel segno del progresso civile ed economico del Paese.

 

   
   
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