Marzo 2007

Rilancio senza traino

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Il coraggio
di andar di bolina
Erri Di Maio  
 
 

 

 

 

Oggi la parte buona
dell’industria
sta prevalendo,
e grazie anche alla continua crescita del commercio mondiale il Paese è in ripresa.

 

È molto probabile che l’Europa abbia cambiato passo. Dopo un pessimo inizio di secolo, si percepisce non proprio una ventata, ma una leggera brezza di liberismo. Il governo italiano ha cominciato a liberalizzare, anche se non si è ancora occupato a fondo dei grandi settori (energia, trasporti, telefonia), dove presenze monopolistiche e protezioni dalla concorrenza internazionale permangono, a scapito dei consumatori.
Molte delle riforme davvero importanti, come vedremo fra poco, restano da fare, compresa quella sugli ammortizzatori sociali necessaria per cambiare il mercato del lavoro e ridurne le dicotomie.
Ancora più significativa è la sensazione nuova che si avverte nel Paese: fino a poco (o pochissimo) tempo fa, il termine liberista suonava poco meno di un insulto. Oggi in molti si dichiarano liberisti, anche se in pochi, per il momento, lo sono per davvero.
Ma c’è di più. Il cittadino italiano medio sopporta con crescente fastidio i lacci e laccioli imposti alla sua vita da una legislazione soffocante, ed è sempre più irritato dai servizi inadeguati offerti da aziende protette e ipersindacalizzate e dalla stessa amministrazione pubblica. E si parla sempre più di meritocrazia nell’università, al punto che sta diventando più costoso in termini di reputazione promuovere gli amici, gli amici degli amici, e gli apparati familistico-baronali invece che i migliori.

Decisamente liberista è il messaggio che avanza in Francia, e questo è un segnale importante per l’Europa, per l’influenza che Parigi esercita nella politica comune. La Svezia sta cambiando lo Stato sociale, sostituendo gli aspetti più incoerenti con corretti incentivi di mercato. La Germania sta tentando di riformare a fondo il sistema sanitario. È vero che finora si è trattato quasi esclusivamente di progetti. Ma qualcosa di concreto si è verificato. Le riforme del mercato del lavoro in Danimarca, in Svezia e, in modo meno incisivo, in Italia, in Germania e in Spagna, hanno dato i loro frutti. Nella sola area euro si sono creati 12 milioni di posti di lavoro dall’introduzione della moneta unica, nonostante una crescita economica molto bassa. Molti di quei posti sono a bassa produttività, e infatti la dinamica del Prodotto interno lordo europeo è stata insoddisfacente. Ma proseguendo sulla strada delle liberalizzazioni dei mercati di beni e servizi questo problema sarebbe destinato ad aggiustarsi.
Nei Paesi nordici riduzioni di aliquote fiscali e politiche liberiste, sia pure nel mantenimento del tradizionalmente generoso (e relativamente efficiente) sistema di welfare, hanno fatto riprendere l’espansione economica. In seguito a una rivoluzione del genere, alla fine degli anni Ottanta l’Irlanda, allora abbastanza povera, superò ampiamente in termini di reddito pro capite l’Italia e perfino la Gran Bretagna, e ancora oggi la sua economia continua a volare. I laburisti britannici sono saldamente nel campo liberista, tanto che i conservatori sembrano aver perso lo spazio politico che li distingueva.
In questo contesto, i riformisti italiani hanno di fronte due strade. Una è quella che fa sopravvivere con qualche piccola liberalizzazione, facendosi però spiazzare dalla brezza liberista che si è sollevata in Europa. L’altra è passare all’attacco e procedere con decisione sulla via delle riforme. Ciò può dare buone chances anche di successo elettorale. Bill Clinton fece riforme importanti e politicamente difficili del welfare americano e fu rieletto a gonfie vele. Lo stesso vale per Ronald Reagan, per Tony Blair e per Margaret Thatcher. Due presidenti americani come Jimmy Carter e George Bush senior non ottennero il secondo mandato: Carter perché, pur avendo avviato qualche riforma per combattere quello che sembrava il declino americano, non ebbe abbastanza coraggio e decisione; Bush senior per aver tradito le promesse di riduzioni fiscali fatte in campagna elettorale. Dunque, il coraggio riformista paga alle urne. Ciò che sicuramente non conviene sotto il profilo politico, in Europa, è l’immobilismo, perché gli europei sono preoccupati del loro futuro e vogliono che i governi adottino politiche di serio cambiamento.

Allora, anche l’Italia cresce. Non si tratta di un nuovo miracolo economico, ma neppure del banale traino della Germania o dell’economia mondiale. Quest’ultima cresce ormai da anni, mentre la nostra ripresa data soltanto dalla metà del 2005. Come al solito, da noi si mette un po’ di tempo a riconoscere che l’economia va su, anche perché la nostra ripresa non è frutto di eventi particolari visibili, e meno che mai il prodotto di accorte politiche economiche congiunturali. Essa deriva da un lungo processo di ristrutturazione, doloroso ma necessario, che è stato indotto dall’euro a partire da dieci anni fa.
È grazie alla moneta stabile che la nostra industria si è aggiustata. La moneta stabile, facendo venir meno l’inflazione importata tramite le svalutazioni, ha operato da selezionatore, facendo crescere le imprese e le produzioni valide e lasciando che progressivamente scomparissero quelle che stavano sul mercato soltanto grazie all’inflazione (vale a dire a spese di tutti). Poiché ciò che non sta sul mercato svanisce prima e più in fretta di quanto avvenga per quelle imprese e per quei prodotti che invece sono capaci di vincere la concorrenza, ne è derivato che nei primi anni dell’euro l’economia ha rallentato e poi ristagnato (prima metà di questo decennio). Oggi la parte buona dell’industria sta prevalendo, e grazie anche alla continua crescita del commercio mondiale l’Italia è in ripresa.
Fenomeno analogo si è verificato in Germania, Paese che non sta trainando l’Italia, e dunque non ne è locomotiva, ma che ha realizzato un percorso del tutto simile a quello italiano. E il tipo di ripresa sembra debba durare: nel 2007 la crescita economica del nostro Paese supererà il 2 per cento e potrà essere perciò maggiore di quella del 2006, che a sua volta ha superato (quasi) tutte le previsioni.
Tutto bene, dunque? Tutt’altro. Una crescita del 2 per cento è molto rispetto al nostro passato recente, ma poco rispetto a quanto occorre e a quanto potrebbe mettere in evidenza l’Italia. E allora, perché non si cresce di più? Non già perché sia bassa la produttività o perché siamo poco competitivi nel senso tradizionale del termine: al contrario, l’Italia e l’Europa sono fin troppo competitive in termini industriali, dato che abbiamo attivi importanti negli scambi con l’estero, specie se si escludono i prodotti energetici.
La realtà è che l’euro ha consentito una razionalizzazione dell’industria (italiana e continentale), perché essa vive nella concorrenza, ma non dei servizi, che in larga misura sono protetti e per questo motivo non si sono strutturati. Essi oggi rappresentano un freno per l’economia. La prova sta nel fatto che, mentre l’Italia e l’Europa crescono grazie alle esportazioni, gli Stati Uniti crescono invece grazie alla domanda interna, che è fatta prevalentemente di servizi.
Ben vengano le esportazioni, che testimoniano della nostra vitalità industriale, ma occorre ricordare che è la domanda interna quella che deve far crescere i Paesi ricchi e sviluppati. Per questo occorre che l’Italia vada ancora più veloce, anche su una rotta di bolina, sulla via delle liberalizzazioni che mettono la concorrenza nei servizi, così come è necessario che l’Europa recuperi lo spirito della Bolkestein, senza più la paura dell’idraulico polacco.

 

   
   
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