Oggi la parte buona
dellindustria
sta prevalendo,
e grazie anche alla continua crescita del commercio mondiale il
Paese è in ripresa.
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È molto probabile che lEuropa abbia cambiato passo.
Dopo un pessimo inizio di secolo, si percepisce non proprio una
ventata, ma una leggera brezza di liberismo. Il governo italiano
ha cominciato a liberalizzare, anche se non si è ancora occupato
a fondo dei grandi settori (energia, trasporti, telefonia), dove
presenze monopolistiche e protezioni dalla concorrenza internazionale
permangono, a scapito dei consumatori.
Molte delle riforme davvero importanti, come vedremo fra poco, restano
da fare, compresa quella sugli ammortizzatori sociali necessaria
per cambiare il mercato del lavoro e ridurne le dicotomie.
Ancora più significativa è la sensazione nuova che
si avverte nel Paese: fino a poco (o pochissimo) tempo fa, il termine
liberista suonava poco meno di un insulto. Oggi in molti si dichiarano
liberisti, anche se in pochi, per il momento, lo sono per davvero.
Ma cè di più. Il cittadino italiano medio sopporta
con crescente fastidio i lacci e laccioli imposti alla sua vita
da una legislazione soffocante, ed è sempre più irritato
dai servizi inadeguati offerti da aziende protette e ipersindacalizzate
e dalla stessa amministrazione pubblica. E si parla sempre più
di meritocrazia nelluniversità, al punto che sta diventando
più costoso in termini di reputazione promuovere gli amici,
gli amici degli amici, e gli apparati familistico-baronali invece
che i migliori.

Decisamente liberista è il messaggio che avanza in Francia,
e questo è un segnale importante per lEuropa, per linfluenza
che Parigi esercita nella politica comune. La Svezia sta cambiando
lo Stato sociale, sostituendo gli aspetti più incoerenti
con corretti incentivi di mercato. La Germania sta tentando di riformare
a fondo il sistema sanitario. È vero che finora si è
trattato quasi esclusivamente di progetti. Ma qualcosa di concreto
si è verificato. Le riforme del mercato del lavoro in Danimarca,
in Svezia e, in modo meno incisivo, in Italia, in Germania e in
Spagna, hanno dato i loro frutti. Nella sola area euro si sono creati
12 milioni di posti di lavoro dallintroduzione della moneta
unica, nonostante una crescita economica molto bassa. Molti di quei
posti sono a bassa produttività, e infatti la dinamica del
Prodotto interno lordo europeo è stata insoddisfacente. Ma
proseguendo sulla strada delle liberalizzazioni dei mercati di beni
e servizi questo problema sarebbe destinato ad aggiustarsi.
Nei Paesi nordici riduzioni di aliquote fiscali e politiche liberiste,
sia pure nel mantenimento del tradizionalmente generoso (e relativamente
efficiente) sistema di welfare, hanno fatto riprendere lespansione
economica. In seguito a una rivoluzione del genere, alla fine degli
anni Ottanta lIrlanda, allora abbastanza povera, superò
ampiamente in termini di reddito pro capite lItalia e perfino
la Gran Bretagna, e ancora oggi la sua economia continua a volare.
I laburisti britannici sono saldamente nel campo liberista, tanto
che i conservatori sembrano aver perso lo spazio politico che li
distingueva.
In questo contesto, i riformisti italiani hanno di fronte due strade.
Una è quella che fa sopravvivere con qualche piccola liberalizzazione,
facendosi però spiazzare dalla brezza liberista che si è
sollevata in Europa. Laltra è passare allattacco
e procedere con decisione sulla via delle riforme. Ciò può
dare buone chances anche di successo elettorale. Bill Clinton fece
riforme importanti e politicamente difficili del welfare americano
e fu rieletto a gonfie vele. Lo stesso vale per Ronald Reagan, per
Tony Blair e per Margaret Thatcher. Due presidenti americani come
Jimmy Carter e George Bush senior non ottennero il secondo mandato:
Carter perché, pur avendo avviato qualche riforma per combattere
quello che sembrava il declino americano, non ebbe abbastanza coraggio
e decisione; Bush senior per aver tradito le promesse di riduzioni
fiscali fatte in campagna elettorale. Dunque, il coraggio riformista
paga alle urne. Ciò che sicuramente non conviene sotto il
profilo politico, in Europa, è limmobilismo, perché
gli europei sono preoccupati del loro futuro e vogliono che i governi
adottino politiche di serio cambiamento.

Allora, anche lItalia cresce. Non si tratta di un nuovo miracolo
economico, ma neppure del banale traino della Germania o delleconomia
mondiale. Questultima cresce ormai da anni, mentre la nostra
ripresa data soltanto dalla metà del 2005. Come al solito,
da noi si mette un po di tempo a riconoscere che leconomia
va su, anche perché la nostra ripresa non è frutto
di eventi particolari visibili, e meno che mai il prodotto di accorte
politiche economiche congiunturali. Essa deriva da un lungo processo
di ristrutturazione, doloroso ma necessario, che è stato
indotto dalleuro a partire da dieci anni fa.
È grazie alla moneta stabile che la nostra industria si è
aggiustata. La moneta stabile, facendo venir meno linflazione
importata tramite le svalutazioni, ha operato da selezionatore,
facendo crescere le imprese e le produzioni valide e lasciando che
progressivamente scomparissero quelle che stavano sul mercato soltanto
grazie allinflazione (vale a dire a spese di tutti). Poiché
ciò che non sta sul mercato svanisce prima e più in
fretta di quanto avvenga per quelle imprese e per quei prodotti
che invece sono capaci di vincere la concorrenza, ne è derivato
che nei primi anni delleuro leconomia ha rallentato
e poi ristagnato (prima metà di questo decennio). Oggi la
parte buona dellindustria sta prevalendo, e grazie anche alla
continua crescita del commercio mondiale lItalia è
in ripresa.
Fenomeno analogo si è verificato in Germania, Paese che non
sta trainando lItalia, e dunque non ne è locomotiva,
ma che ha realizzato un percorso del tutto simile a quello italiano.
E il tipo di ripresa sembra debba durare: nel 2007 la crescita economica
del nostro Paese supererà il 2 per cento e potrà essere
perciò maggiore di quella del 2006, che a sua volta ha superato
(quasi) tutte le previsioni.
Tutto bene, dunque? Tuttaltro. Una crescita del 2 per cento
è molto rispetto al nostro passato recente, ma poco rispetto
a quanto occorre e a quanto potrebbe mettere in evidenza lItalia.
E allora, perché non si cresce di più? Non già
perché sia bassa la produttività o perché siamo
poco competitivi nel senso tradizionale del termine: al contrario,
lItalia e lEuropa sono fin troppo competitive in termini
industriali, dato che abbiamo attivi importanti negli scambi con
lestero, specie se si escludono i prodotti energetici.
La realtà è che leuro ha consentito una razionalizzazione
dellindustria (italiana e continentale), perché essa
vive nella concorrenza, ma non dei servizi, che in larga misura
sono protetti e per questo motivo non si sono strutturati. Essi
oggi rappresentano un freno per leconomia. La prova sta nel
fatto che, mentre lItalia e lEuropa crescono grazie
alle esportazioni, gli Stati Uniti crescono invece grazie alla domanda
interna, che è fatta prevalentemente di servizi.
Ben vengano le esportazioni, che testimoniano della nostra vitalità
industriale, ma occorre ricordare che è la domanda interna
quella che deve far crescere i Paesi ricchi e sviluppati. Per questo
occorre che lItalia vada ancora più veloce, anche su
una rotta di bolina, sulla via delle liberalizzazioni che mettono
la concorrenza nei servizi, così come è necessario
che lEuropa recuperi lo spirito della Bolkestein, senza più
la paura dellidraulico polacco.
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