Marzo 2007

Politica industriale e competitività

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Punto di forza
le medie imprese
Ferdinando Ragusa  
 
 

 

 

La Finanziaria continua ad essere affetta dal
tradizionale
strabismo
di trascurare
la specificità delle medie imprese
italiane.

 

La politica industriale italiana ha sempre sofferto di un particolare strabismo: da una parte ha cercato di proteggere con aiuti finanziari diretti e indiretti la grande impresa, e dall’altra ha tentato di sostenere, più con l’arte della retorica che con fatti concreti, la piccola impresa. I risultati sono noti. La prima si è ridotta al lumicino, mentre la seconda sta attraversando una grave crisi. Ciò che è mancato in questi anni è stato il “guardare in mezzo”, al 40 per cento del valore aggiunto industriale, vale a dire al settore della media impresa.
Come è stato evidenziato nel rapporto di Mediobanca-Unioncamere, il settore delle medie imprese industriali (da cinquanta a cinquecento dipendenti) ha registrato dal 1996 al 2003 buone performance economiche (se le paragoniamo a quelle delle grandi imprese): +42,8 per cento il fatturato, contro il +26,4 per cento; +51,7 per cento l’export, contro il +31,2 per cento; +33,3 per cento il valore aggiunto, contro il +11,9 per cento; +18,0 per cento l’occupazione, contro il decremento del 10,2 per cento nelle grandi imprese.

Che cosa contraddistingue la maggior parte delle medie imprese italiane? Sono ben radicate localmente, spesso all’interno dei distretti industriali. Sono sviluppate globalmente, non soltanto con la delocalizzazione delle fasi a maggiore intensità di lavoro, ma anche con la crescita sui mercati esteri. Hanno la velocità decisionale e la capacità reattiva delle piccole imprese con, nello stesso tempo, le risorse di conoscenze, di capitale umano e finanziario delle grandi. Ciò consente loro, spesso, di innovare rispetto alle nicchie esistenti sul mercato, creandone di nuove. In tal modo sono in grado di spiazzare la concorrenza da parte delle multinazionali e diventare, così, leader internazionali nelle nuove nicchie di mercato.
Questo tipo di impresa “post-chandleriana” in Italia presenta però delle debolezze. Innanzitutto, per il 41 per cento è composta da produzione di beni per le persone, per la casa e alimentari, il cosiddetto made in Italy. Se, fino al 2003, il quadro macroeconomico, contrassegnato da euro debole e dollaro forte, ha facilitato l’export extraeuropeo di questo tipo di beni, ora, con il rafforzamento della moneta unica esso diventa più vulnerabile alla crescente concorrenza dei Paesi a basso costo di lavoro. Questa debolezza può in alcuni casi essere contrastata con l’innovazione di prodotto. In altri casi, invece, è necessario puntare sulla verticalizzazione delle filiere del made in Italy che unisca innovazione di prodotto nei beni strumentali, con conseguente innovazione di processo nella produzione del bene finale. Come è accaduto nel distretto calzaturiero di Vigevano, dove si è passati dalla produzione di scarpe a quella di macchine per la loro produzione. In casi di questo genere, possono aumentare la competitività e l’export sia delle macchine sia dei beni finali.

Se la media impresa manifatturiera rappresenta una buona fetta del futuro del nostro Paese, che cosa dovrebbero fare le nostre istituzioni governative per sostenerla? Infrastrutture efficienti e a basso costo, a partire dall’energia; formazione di capitale umano che abbia la flessibilità e l’adattabilità cognitiva per inserirsi nel nuovo modello di impresa creativa ad apprendimento organizzativo continuo e diffuso; incentivazione alle innovazioni a maggior tasso di ricerca che può venire soltanto da un nuovo rapporto con il mondo dell’università e della ricerca pubblica; sostegno alla crescita e sviluppo sui mercati esteri, attraverso adeguate forme di assicurazione e di credito agevolato, ma soprattutto attraverso l’azione incisiva delle rappresentanze diplomatiche e commerciali nel sostegno e nella difesa degli standard tecnologici e dei marchi italiani.
La Finanziaria continua invece ad essere affetta dal tradizionale strabismo di trascurare la specificità delle medie imprese italiane. Tre soltanto le misure degne di nota che vanno a sostegno dello sviluppo distrettuale e metadistrettuale delle medie imprese del nostro Paese. Attraverso l’introduzione della nuova configurazione giuridica della “rete d’impresa”, si permette alle aziende che partecipano a una filiera distrettuale di aggregarsi, al fine di far valere il loro maggior peso per un migliore accesso al credito, al marketing e alla consulenza aziendale integrata. Attraverso l’introduzione di un credito d’imposta automatico pari al 15 per cento per i costi derivanti da contratti con l’università e con i centri di ricerca pubblica si cerca di favorire la collaborazione con il mondo accademico (per un valore massimo globale di 600 milioni di euro).
Infine, nell’ambito dei progetti di innovazione industriale, saranno privilegiati quelli presentati in modo congiunto da grandi imprese e Pmi, al fine di consolidare i rapporti di filiera. Ancora troppo poco, per le difficili sfide che ci attendono.

 

   
   
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