Marzo 2007

ITALIA E UNIONE EUROPEA

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Parallele divergenti
Federico Macchia Stani
 
 

 

 

È difficile
immaginare un’Europa
economica senza
il contributo del made in Italy,
che significa stile, qualità,
innovatività.

 

Un’Europa con la Germania di turno alla presidenza della Commissione. Con Bulgaria e Romania che hanno portato a 27 i Paesi membri. Con la Slovenia tredicesimo Paese ad avere adottato l’euro. Sullo sfondo, la necessità di dare al Vecchio Continente una maggiore incisività istituzionale e geopolitica e una forte spinta alla crescita. È in questa prospettiva che nel 2007 saranno celebrati i 50 anni dei Trattati di Roma, un’occasione irripetibile per interrogarsi sul ruolo del nostro Paese.
L’Italia è stata un importante protagonista politico in tutta l’evoluzione della costruzione continentale. Diffusa è l’opinione che abbia avuto un “ruolo federatore” per la sua capacità di aggregare visioni ideali e soluzioni pragmatiche, da una parte evitando intonazioni arroganti o rivendicative come Stato membro, e dall’altra servendo con dignità e con professionalità le istituzioni europee con il contributo determinante di personalità di rilievo.
Limitandoci agli ultimi sei anni, rilevante è il ruolo svolto da Carlo Azeglio Ciampi nel suo volere un’Europa quale Unione di popoli e di Stati che affiancasse all’identità economica, rafforzata dall’euro, anche una più solida identità politica con la Costituzione. Nella Convenzione europea va rilevato il ruolo di Giuliano Amato, che ne è stato vice-presidente, con apporto di competenza giuridico-istituzionale, e di Gianfranco Fini, che ne è stato membro fattivo.

Nella Commissione, la guida italiana ha governato con concretezza alcuni passaggi fondamentali quali l’euro, l’allargamento, il varo della Strategia di Lisbona. A sua volta, Mario Monti, nella sua qualità di Commissario alla Concorrenza, ha impresso una svolta, intra ed extra europea, per mercati più liberi e ordinati. Attualmente Franco Frattini, vicepresidente della Commissione europea e responsabile di Giustizia, libertà e sicurezza, svolge con unanime apprezzamento una funzione delicatissima.
L’Italia ha avuto anche un importante ruolo economico in questo mezzo secolo di costruzione europea. Il nostro Paese genera il 17,7 per cento del Prodotto interno lordo della Ue-12, e il 13 per cento della Ue-25. In altri termini, il Pil italiano (in parità di potere d’acquisto) pesa poco meno della somma di quelli di sei economie come Olanda, Belgio, Grecia, Portogallo, Danimarca e Irlanda.
Una lunga serie di indicatori economici, in particolare quelli riferiti al settore manifatturiero, mette in evidenza una forza basata soprattutto sulle piccole e medie imprese (tra cui non poche multinazionali) che adesso vengono riscoperte anche dai più convinti “terziarizzatori”. Oltre tutto, è estremamente difficile immaginare un’Europa economica senza il contributo del made in Italy, che significa stile, qualità, innovatività.
Per questo anche gli imprenditori italiani hanno contribuito alla costruzione europea. Sorprende il fatto che poco si riconosca questo contributo, spesso considerando le imprese come soggetti meramente rivendicativi. Bene ha fatto, perciò, il Capo dello Stato a sottolineare nel discorso di fine anno che l’Italia «ha già ripreso a crescere, col contributo determinante di imprenditori che hanno imboccato la strada della innovazione e del rischio nel mercato globale; e, insieme, di tecnici e lavoratori qualificati e aperti al cambiamento, consapevoli che è il momento di premiare il merito».
Queste valutazioni potrebbero portare a concludere che l’Italia va bene ed è ben posizionata in Europa. Purtroppo, tutti sappiamo che non è così. A tal fine è bene conoscere innanzitutto l’opinione pubblica italiana sulla Ue. Secondo i dati forniti dall’Eurobarometro, la popolazione appare in maggioranza europeista, ma con importanti distinguo. Gli italiani sono molto favorevoli ad una politica comune di sicurezza (il 74 per cento, in linea con il dato europeo che si colloca al 75 per cento) e anche di politica estera (il 70 per cento, contro il 68 per cento).

Minor convinzione, anche se pur sempre maggioritaria, gli italiani hanno sull’immagine positiva dell’Unione europea (il 56 per cento, contro il 46 per cento di media europea), nell’apprezzamento del Parlamento (56 per cento, contro 52 per cento) e di quello della Commissione (52 per cento, contro il 48 per cento), nell’opinione che sia bene essere nella Ue (52 per cento, in linea con la media continentale).
Infine gli apprezzamenti diventano minoritari, scendendo cioè in Italia al di sotto del 50 per cento, sui benefici ottenuti quali membri della Ue (47 per cento, contro 54 per cento), sulla disponibilità a ulteriori allargamenti (47 per cento, contro 46 per cento), sulla valutazione positiva delle attuali politiche di Bruxelles (29 per cento, contro 33 per cento).
Anche sulla base di queste valutazioni si possono avanzare almeno due commenti-proposta. Innanzitutto, attualmente fa bene l’Italia a spingere molto su una politica estera e della sicurezza italo-europea, che ultimamente ha portato a cospicue convergenze, soprattutto sul Libano. Ora è importante che la si sappia combinare con un’estrema prudenza nel sostenere ulteriori allargamenti, favorendo invece le cooperazioni rafforzate soprattutto nella difesa e sicurezza. C’è da sperare anche che l’ipotesi sulla semplificazione del progetto di Costituzione possa attecchire. Sono direzioni positive per l’Italia e per l’Unione.
In secondo luogo, invece, la politica economica non va nella stessa direzione. L’Italia non ha ancora ben digerito l’euro, al punto che una recente indagine dell’Eurobarometro rivela che soltanto il 41 per cento degli italiani considera come la moneta unica sia stata un vantaggio complessivo (a fronte del 48 per cento dei cittadini della zona dell’euro) e solo il 45 per cento non abbia difficoltà ad usarla (contro il 59 per cento). Troppe sono state dal 1999 le polemiche sulla nuova valuta, che invece per il nostro Paese è stata salvifica. Purtroppo si è lasciato spazio ad aumenti di prezzi ingiustificati in mercati protetti. Inoltre, le politiche economiche non hanno ben favorito gli aggiustamenti che la nostra economia doveva affrontare non solo per il rigore di bilancio con tagli di spesa pubblica, ma anche per liberalizzare i mercati e per favorire gli aumenti di produttività e di competitività per la crescita.
In realtà, neanche la Finanziaria 2007 soddisfa queste esigenze nel suo privilegiare un’equità statica rispetto ad una solidarietà dinamica che soltanto con più crescita si può conseguire. C’è almeno da sperare che gli italiani, posti di fronte alle maggiori tasse e all’eventuale minore crescita dell’anno in corso, non ne addossino la responsabilità all’Europa. Al di fuori dell’Ue non c’è futuro per noi e per i nostri figli.

 

   
   
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