Marzo 2007

Riformismo e liberalizzazioni

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Pallottole di carta
Claudio Alemanno  
 
 

 

 

I Paesi più
pragmatici nelle scelte politiche
e legislative hanno più concorrenza, più libertà di
mercato e sono
più ricchi.

 

Sinister Paradise, l’effetto annuncio ha fatto finora più rumore dell’effetto funzionale. Nelle liberalizzazioni varate si avvertono forti accenti pedagogici, segnali indirizzati verso il basso più che verso l’alto, messaggi che richiamano da vicino la “ricetta magica” di Trilussa: «Dignità personale grammi ottanta / sincerità corretta co’ la menta / libbertà condensata grammi trenta / estratto depurato d’erba santa, / bonsenso, tolleranza e strafottina: / (un cucchiaro a diggiuno ogni matina)».
È il nuovo cittadino, consumatore-risparmiatore, immaginato dalla cucina politica. Una scommessa sul futuro, per un cittadino ancora incredulo, ancora invischiato nei tortuosi meandri del quotidiano. Ancora perplesso di fronte a provvedimenti che lo fanno sentire minuscolo attore sulla scena economica, prosciugando un po’ del pantano corporativo in cui da sempre è costretto.
Secondo i proponenti, se prima eravamo abituati ad andare in ridotta, adesso dovremmo cambiare marcia, abituandoci ad usare l’Intercity. Qualche dubbio tuttavia è legittimo. Innanzi tutto, siamo di fronte a virtù vacillanti, per la debolezza intrinseca della infrastruttura politica di supporto. Un bipolarismo recente (è nato con le elezioni del 1994), litigioso e fragile, molto suggestionato dal fascino del pendolarismo, non assicura sufficiente certezza di percorso. Su temi così rilevanti, di natura antropologica (creare una società aperta, innovando nella distribuzione dei poteri economici, nell’organizzazione della Pubblica Amministrazione, nella cultura e nello stile di vita) è difficile pronosticare chances di successo in costanza di poteri deboli e conflittuali.

Se poi si guarda al rapporto tra liberalizzazioni e mercato si deve convenire che assomiglia molto alla scommessa di Achille con la tartaruga. Non solo perché l’evoluzione del mercato è molto più rapida, ma soprattutto perché la complessità delle strutture organizzative su cui le liberalizzazioni dovrebbero incidere crea innegabili contrattempi all’efficacia dei nuovi poteri regolamentari.
Quando una bomba distrusse la Camera dei Comuni, Churchill commentò: «Noi costruiamo i nostri palazzi e poi essi costruiscono noi». Pensando al nostro ampio parco di fedeltà contrattate, non deve essere semplice sciogliere i mille nodi gordiani che affliggono la società italiana. L’esperienza più recente continua a registrare molti trabocchetti della Prima Repubblica. I rapporti Politica-Istituzioni sono sempre segnati da regole di ferrea lottizzazione (dunque niente liberalizzazione, niente trasparenza). Sono cresciuti e si sono irrobustiti i partiti del pubblico impiego, dei professionisti, dei commercianti, dei ferrovieri, dei controllori di volo, dei postini, ecc. Con l’avvento del bipolarismo in questi “partiti di fronda” è cresciuta la voglia centrifuga, fino a ritagliarsi lo status di interlocutori diretti delle istituzioni. Venuta meno la mediazione politica tradizionale, hanno imboccato un crinale che porta lontano dalle società aperte. Propongono il pluralismo arrogante e ricattatorio degli interessi frastagliati, rallentando il processo di modernizzazione e fissando i ticket della governabilità.
Questo terreno è stato adesso arato con provvedimenti che alleggeriscono qualche vincolo e aiutano nella trasparenza. Arato in superficie, poiché i provvedimenti entrano in punta di piedi nelle cittadelle fortificate senza arrecare grosse turbative ai mercati di settore, quasi con il pudore di un’operazione promozionale. Abbiamo l’azzeramento dei costi sulla ricarica dei telefonini, vedremo circolare nelle città qualche taxi in più, avremo barbieri più disponibili, troveremo benzina e medicinali da banco nei supermercati. Non certo una rivoluzione di costume, ma una brezza leggera di timido liberismo. Ancora più apprezzata per un vento che spira da sinistra.
La novità più interessante è che un faro è stato acceso sull’eterno conflitto monopolio/concorrenza, proponendo di aiutare i cittadini senza farne “cittadini assistiti”. Naturalmente resistono bene e sono molto attivi i push center, tutti gli organismi in cui si ricompattano le virtù italiche degli immobilisti. Così come curiosamente acquista forza e vigore l’imbarbarimento del sistema per alcune manifeste incongruenze d’indirizzo politico e legislativo.
Segnali contraddittori vengono da una Finanziaria dotata di 1.364 commi e 414 decreti attuativi, tutta orientata ad accrescere gli adempimenti burocratici in nome del contrasto all’evasione fiscale. Per un verso si mandano al cittadino timidi segnali aperturisti e per un altro verso lo si ingabbia in obblighi burocratici capillari. Con buona pace della semplificazione legislativa sempre annunciata e sempre smentita dai fatti, primo segnale convincente di ogni filiera riformista.
Altri segnali contraddittori vengono da un localismo arrogante che impoverisce il valore pedagogico delle regole di sistema. Se gli obiettivi di una comunità nazionale devono essere sacrificati al punto di vista locale è difficile credere negli sforzi di una legislazione centrale in lotta contro le aberrazioni di un sistema chiuso. Finora i tentativi di governance praticati dal bipolarismo hanno sofferto di overstratching, di un decisionismo di bandiera che ha esaltato la logica delle rendite e radicalizzato gli interessi delle due Italie.

Viene voglia di dare ragione a Carroll Quigley, un autorevole storico americano, che occupandosi di Europa, nel suo Tragedy and Hope, descrive un’Italia irrimediabilmente arabizzata (per le forti impronte lasciate dalle invasioni islamiche del Medioevo).
Tuttavia, la prima brezza liberista va apprezzata, costituisce un flebile segnale di cambiamento che non va isolato o lasciato cadere. Si avverte nel Paese la sensazione nuova di una democrazia più umana, più vicina ai cittadini, praticabile ogni giorno nella vita di relazione; ben diversa dalla democrazia elettronica, di governo e autogoverno dei cittadini via computer.
Il liberismo è diventato parola d’ordine europea, anche se da noi non si vedono avanzare ancora le proposte che contano. Pensiamo ai piani alti, ai settori dell’energia, dell’acqua, dei trasporti, della telefonia, delle assicurazioni, delle banche e dei servizi finanziari. In Francia Nicolas Sarkozy ha impostato tutta la campagna elettorale su programma e messaggi liberisti. Una sua vittoria avrebbe un effetto domino di grande rilievo per l’intera Europa. In Germania il governo di Angela Merkel è impegnato in una riforma drastica del settore sanitario. In Svezia un giovane ministro dell’Economia, Maud Olofsson, sta effettuando riforme radicali nel welfare, utilizzando significativi correttivi di mercato. In Gran Bretagna i laburisti non hanno toccato le riforme della Thatcher, anzi hanno ampliato le aperture liberiste. Siamo di fronte ad un ciclo europeo di politiche liberiste adottate in stato di necessità, per dare stimolo ad una crescita economica ancora lenta rispetto ai dati fatti registrare dalla crescita americana.
In tema di liberalizzazioni contano due circostanze significative: i vincoli che si eliminano e la tempestività dei provvedimenti. La dinamica e la portata dell’intervento vanno rapportate ai fattori di strozzatura che si vogliono correggere. Non a caso, i Paesi più pragmatici nelle scelte politiche e legislative hanno più concorrenza, più libertà di mercato e sono più ricchi.
Noi non possiamo andare sempre contro corrente, non possiamo prenderci il lusso di dilazionare ancora interventi essenziali per assicurare elasticità al mercato, efficienza e trasparenza ai servizi, dinamicità alla domanda interna. Una crescita del 2% è molto se riferita al passato, ma è poco rispetto alle sfide imposte dalla competitività internazionale. In costanza di stabilità monetaria, l’industria ha dovuto guardare più dentro casa che fuori, e affrontare grossi impegni di riorganizzazione, non potendo più contare sulla leva della svalutazione per spingere le esportazioni. Restano tuttavia in regime di protezione tutti i servizi essenziali, da molto tempo ibernati nell’agenda delle liberalizzazioni.
Le priorità presentate non intaccano gli obiettivi strategici, mentre assistiamo con sorpresa ad una rinnovata fiducia verso l’economia mista, pubblica e privata. Abbiamo davanti una fase molto fluida degli assetti politici, segnata dalla ricerca affannosa di un partito unico nei due schieramenti.
Per dovere di cronaca, riportiamo l’opinione di un ex democristiano doc. Noi in quarant'anni abbiamo sudato sette camicie per creare una mediocre classe dirigente di centro. Figuriamoci se i manovratori di oggi riescono a crearne due su versanti opposti.
Lasciamo questo giudizio alle valutazioni di fashion editors e cronisti scrupolosi. A noi preme sottolineare che l’immobilismo politico mortifica gli slanci e tiene in sospeso la sorte delle liberalizzazioni che contano. Legata alle intese conciliari, alla composizione di mosaici bizantini. Lasciandoci tutti sui blocchi di partenza, nell’attesa trepidante di un segnale, di un fil di fumo bianco.

 

   
   
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