Marzo 2007

CORSI E RICORSI TRA STORIA E CRONACA

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Terzo viene il Sud
Piero Siniscalchi  
 
 

 

 

È la riemersione
di antiche ruggini, sopravvissute
sottopelle, dure a morire, con le quali si vuole
instaurare un clima di tensione tra Nord e Sud.

 

Una ricchissima e ormai negletta letteratura meridionalistica ci aveva consegnato l’immagine di un’Italia irrimediabilmente duale: di là, quella imprenditrice, prodotto di una cultura individualistica che, sfidando il rischio, creava lavoro e ricchezza; di qua, quella protetta, prodotto di una cultura statalista che, consentendo sicurezza del lavoro a basso reddito e con conseguenti bassi consumi, determinava, nel precario equilibrio dell’economia del Paese, il perpetuarsi di una problematica “questione” sociale, che gli indirizzi di politica generale dell’Italia hanno semmai tenuto sotto controllo, senza mai portare ad una soluzione positiva. Perciò è accaduto che non siano più ritenute depresse, ma in fatto e in diritto recuperate allo sviluppo generale, le antiche aree povere della Germania, dell’Inghilterra, della Francia, del Belgio, dell’Irlanda, mentre per il Mezzogiorno d’Italia l’arretratezza è rimasta una costante negativa di identità.
In questo senso, è venuta meno da noi la capacità di realizzare una rivoluzione nello stesso tempo pacifica e aggressiva: tirar fuori le regioni meridionali – ai tempi del Regno di Napoli pari in povertà ad altre del Centro-Nord – dal baratro in cui erano state gettate dal militarismo del Piemonte, dall’annessione e dalla successiva guerra civile, significava attuare interventi bilanciati in un’Italia e nell’altra, e non protezionismi interni, privilegi geo-politici, discriminazioni economiche-finanziarie, torchiature fiscali.
Storia e storie più che note. E tuttavia passate in dimenticatoio da alcuni anni a questa parte, perché, com’è stato detto strumentalmente, la vecchia “questione” rientrava ormai nel quadro della nuova politica, quella della Comunità europea: altro inganno, e neanche più sofisticato rispetto ai precedenti, visto che di europeo ci sarebbe stata soltanto una serie di finanziamenti che non dovevano essere sostitutivi, bensì aggiuntivi, a quelli nazionali. La cancellazione, o quantomeno la radicale riduzione dello squilibrio, poteva essere a portata di mano. Ma ancora una volta le scelte sono state altre. E mentre il Sud faticosamente sta facendo da sé, spunta un’altra teoria, che, a meno di correttivi in corso d’opera, si interroga sul rischio di emarginazione che corrono le regioni meridionali.

Luca Ricolfi è, al modo di Piero Ostellino, uno studioso che si sente culturalmente più figlio dell’Illuminismo scozzese, empirico, scettico e tollerante delle “virtù sociali” – i cui prodromi già erano aleggiati sulla “gloriosa rivoluzione” inglese del 1688, e che avrebbe poi accompagnato la nascita degli Stati Uniti nel 1776 (lo stesso anno della pubblicazione della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith) – che dell’Illuminismo razionalista francese, ideologico, dogmatico, degenerato poi nel Terrore e nei totalitarismi del Novecento.
Ricolfi è autore di uno studio, Le tre società. È ancora possibile salvare l’unità d’Italia? Le tre società sono: 1) quella delle garanzie (di cui fanno parte i pensionati, i dipendenti pubblici, gli operai e gli impiegati delle grandi imprese; tanto per intenderci, gli italiani scarsamente esposti ai rischi del mercato e protetti dalle organizzazioni sindacali); 2) quella del rischio (di cui fanno parte gli artigiani, i commercianti, i piccoli imprenditori, i dipendenti di questi ultimi, gli occupati atipici, i lavoratori irregolari e i disoccupati); ancora per intenderci, gli italiani esposti sia agli alti e bassi del mercato sia alle vessazioni dello Stato; 3) quella della forza (fondata sul controllo dell’economia e del territorio da parte della criminalità organizzata e sulle clientele, gli abusi e i favori della politica locale); e qui c’è poco da discutere, si individua fin troppo facilmente di quale tipo di società e di quali luoghi stanziali si tratta.
Tesi di fondo dello studio: «È difficile pensare a uno sviluppo del sistema Italia che continui a ignorare, eludere, sacrificare o penalizzare le richieste liberiste della seconda società, se non altro perché essa è una delle colonne portanti del nostro modo di produrre […]. Nello stesso tempo è difficile che i territori in cui la seconda società è più radicata, a cominciare da molte regioni del Nord, accettino in eterno l’invadenza e l’inefficienza degli apparati pubblici: tanta burocrazia, tantissime tasse, servizi mediocri, giustizia lenta, infrastrutture inadeguate».
Insomma, la politica italiana persevera nel dividere il Paese: blocca la Tav, confisca il Tfr; è generosa con gli impiegati pubblici e avara con gli operai e con gli impiegati privati; è sensibilissima «a ogni stormir di sindacalista», ma indifferente «al popolo dei Cipputi»; è attenta agli equilibri dei salotti buoni, ma lontana dalla moltitudine delle partite Iva. Insomma, la Sinistra come la Destra, in questo nostro Paese: con politici supponenti, paternalistici, ubiqui, onnipresenti in ogni più piccolo recesso della vita economica.

Tirando le somme: delle tre società, accettabili sono solo le prime due. La terza è da rigettare. E poiché la società e l’Italia della criminalità organizzata sono quelle del Mezzogiorno, è ovvio che l’unità della Penisola, se messa in discussione, non può che comportare l’esclusione del Sud. Il ragionamento sembrerebbe non fare una piega. Solo che corre l’obbligo di avanzare per lo meno due obiezioni.
La prima: il Sud ha fatto passi da gigante, malgrado l’abbandono da parte dello Stato; un abbandono che ha significato, per fortuna, anche la fine dell’ideologia dissipatrice, clientelare e in ultima analisi devastante rappresentata dal cosiddetto “intervento straordinario”.
La seconda: i cartelli del crimine organizzato prosperano nelle aree in cui si manifesta una ricchezza; le mafie sono cresciute nel Sud che trasformava la propria economia da esclusivamente agraria a edilizia, industriale, terziaria, e persino imprenditrice, senza che lo Stato abbia fatto opera simultanea di prevenzione e di repressione, cioè senza che sia stato attuato un progetto radicale e costante di controllo del territorio, con interventi coordinati di polizia, magistratura e istituzioni civili, che semmai hanno subìto, insieme con la gente comune, la tracotanza di cosche, ‘ndrine, famiglie, paranze, e altri e fantasiosi – ma sempre sanguinari – gruppi criminali, che continuano a condizionare, anche con collusioni amministrative e politiche, la vita e l’economia del Sud.
Ora, dopo troppi anni di silenzio, si torna a parlare di problemi del Mezzogiorno. Di un Mezzogiorno che solo la Lega ha ricordato, e non per gratitudine o per memoria devota (i finanziamenti in favore del Sud, dal 1950 in poi, sono stati intascati sostanzialmente dalle imprese, dagli imprenditori e persino dai banditi in doppiopetto del Nord, oltre che da quelli in gilè del Sud). E lo si fa rinnovando la storia del “fisco amico”, vale a dire della fiscalità di vantaggio che dovrebbe riguardare non si sa quali “zone franche” delle regioni meridionali. Come se questo potesse bastare a risolvere problemi che definire secolari sta diventando ormai una sorta di edulcorato eufemismo.
Dunque, attenzione alle facili illusioni (e nuovi inganni connessi). L’esperienza internazionale dei territori che utilizzano le regole fiscali e finanziarie come strumento di privilegio competitivo mostrano che il successo è legato alla presenza contemporanea di altre condizioni: assenza di criminalità, stabilità di governi locali, regole sensibili ai princìpi di mercato. L’esatto contrario – superfluo dirlo – della situazione in quasi tutto il Sud. Il rischio? Peggiorare la situazione.
È stato sottolineato che le proposte di disegnare le cosiddette “zone franche” stanno diventando sempre più frequenti e numerose, proprio (nel senso di soprattutto) quando si parla di aree meridionali. Ci si rende conto – e non è una novità – che vincere la sfida del dualismo territoriale costituirebbe finalmente un autentico trampolino per la crescita di medio-lungo periodo di tutto il Paese. Nello stesso tempo – e anche questa non è una novità – non si può nascondere che esistono dei gap strutturali di dimensioni e complessità ragguardevoli: si pensi, appunto, ai cartelli del crimine presenti e pervasivi, come ad infrastrutture deficitarie e inefficienti.
E allora si cerca la scorciatoia della fiscalità, del vantaggio fiscale. Il ragionamento, in parole povere, sembra essere questo: per far sorgere imprese e far nascere imprenditori in un ambiente che non offre né sicurezza né servizi, è necessario offrire robusti incentivi sul versante fiscale, in modo da far pendere l’analisi costi-benefici nella direzione giusta.

Se questa è la linea di pensiero, purtroppo non può portare molto lontano. Lo sviluppo di un tessuto d’impresa sano e duraturo in un dato territorio presuppone una condizione necessaria, anche se non del tutto sufficiente: garanzia ampia e stabile di avere tutelati i diritti della persona e della proprietà. La logica è semplice: quanto più sono sicuro che i miei diritti sono tutelati e che devo a mia volta rispettare l’adempimento dei miei doveri, senza che nessuno – me compreso – possa sfruttare ingiustificate posizioni di rendita, tanto più sarò incentivato ad assumermi rischi per migliorare il mio stato. Traduzione: per avere (autentici) imprenditori e (autentiche) imprese, occorre uno Stato che sappia offrire infrastrutture invisibili (legalità, stabilità, pari opportunità) e visibili. In caso contrario, ogni scorciatoia, fiscale e finanziaria, finisce per produrre sviluppi effimeri, e magari danni permanenti.
Che le scorciatoie fiscali e finanziarie abbiano l’orizzonte corto lo dimostrano perfino le esperienze di quei Paesi e territori che hanno scelto l’arma della competizione regolamentare non tanto per creare un sistema industriale e commerciale, ma (almeno) per attirare stabilmente capitali esteri. Ci stiamo riferendo ai famosi (famigerati?) Paesi e territori off shore. Contarli non è semplice, anche perché spesso a definire questi centri sono l’insieme – più o meno grande, a seconda dei casi – dei Paesi che vengono danneggiati dalle politiche di altri Paesi; per non parlare delle iniziative unilaterali, che sempre più di frequente si registrano.
Prendiamo allora i Paesi che si autodefiniscono centri off shore: sono una quarantina, dispersi per latitudine, longitudine, storia e cultura. Se proviamo ad esaminarli con le tecniche dell’analisi economica, per individuare eventuali fattori che hanno in comune, scopriamo che regole fiscali e finanziarie più aggressive producono reddito, a patto che a metterle in atto sia un territorio caratterizzato da stabilità politica, assenza di criminalità organizzata e di terrorismo, legislazione rispettosa dei princìpi del mercato. Poi il territorio può essere oppure no una ex colonia, e non è detto che la lingua ufficiale sia l’inglese, come pure non è strettamente indispensabile essere ubicati nei Caraibi, nel Pacifico o nell’Europa centrale. Quello che conta è garantire ai capitali stabilità, integrità, mercato. Poi, la scelta di disegnare politiche delle regole aggressive ha dei costi sui Paesi che aggressivi – o lassisti – non sono.
Ma quel che qui conta è che perfino chi gioca tutto sull’appetibilità dei propri regimi fiscali e finanziari deve poter contare sulle infrastrutture invisibili e visibili per avere probabilità di successo. Figurarsi allora se le zone franche possono essere concepite in territori lasciati assolutamente in ritardo in termini di presidi della sicurezza, della stabilità e del mercato. Il rischio reale è quello di creare invece nuovi incubatori di inefficienza e di corruzione.
È stato Goffredo Fofi a notare che in campo letterario i maggiori critici militanti si mostrano quasi insofferenti, se non proprio infastiditi, nei confronti della produzione narrativa meridionale, e ciò soprattutto perché i giovani scrittori del Sud propongono opere che rispecchiano realtà “leggibili”, a differenza di quelli del Nord, che sembrano poco propensi a rivelare il loro mondo, astratto e comunque ovattato, perciò meno convincente, e meno coinvolgente rispetto all’altro.
Può sembrare un altro capitolo della vecchia polemica fra la produzione letteraria del Settentrione, condizionata dal fascino del clima a suo modo romantico delle nebbie, e quella del Sud, a sua volta tutta immersa nell’afosità rovente del sole. E certamente si tratta anche di questo. Ma non soltanto di questo. Perché mai come ai nostri giorni ogni confronto fra diverse o anche opposte espressioni, economiche o politiche o culturali, ha assunto il carattere di scontro senza mediazioni, senza possibilità di riconoscimento di una qualche posizione complementare.
Una specie di sordo furore manicheo sembra tornato a caratterizzare, dopo un certo periodo di stasi, gli atteggiamenti di chi a malincuore, se non proprio con rabbia malcelata, vede nella crescita del Sud non un avanzamento di tutta la società italiana, ma una sconfitta unilaterale, che penalizza l’Italia opulenta, quella che, per restare nel campo della letteratura, dispone delle più ricche ed efficienti case editrici, di un numero più alto di università e di politecnici, di centri di ricerca più avanzati.
È la riemersione, dicevamo, di antiche ruggini, sopravvissute sottopelle, dure a morire, e soprattutto in grado di determinare comportamenti di massa fondati sull’egoismo geo-etnico e alimentati dall’ignoranza e dal pregiudizio. Una riemersione che alla fine travalica le coordinate dell’universo creativo della scrittura, e si dispiega nel campo della politica: forse perché non può essere diversamente, forse anche perché si tratta di campagne combinate, che tendono parallelamente allo stesso fine, cioè ad una prospettiva di secessione che esalta le anime semplici delle pedemontane subalpine, convinte di essere protagoniste di una rivoluzione catartica, e che serve da strumento di pressione per le voraci camarille del Nord “che produce e che lavora”, mentre simultaneamente pretende di prosciugare ogni risorsa disponibile per l’intera Penisola.
Un esempio emblematico del “ritorno all’antico” è dato dalle recenti prese di posizione di una certa stampa politica settentrionale. La quale, scrivendo della decisione della provincia di Crotone di varare un progetto per studiare la figura di Giovanni Dionigi Galeni, un calabrese di Isola Capo Rizzuto che, catturato dai turchi, venne convertito a forza e diventò – con il nome di Euldj Ali Pasha – uno degli ammiragli del Sultano presenti alla battaglia di Lepanto, ha sostenuto che «il Rinnegato, per i calabresi, è un eroe», e che meglio sarebbe spendere quei soldi per promuovere ricette tradizionali, come «i patati e pipi friuti» o come la «cocuzza nataligna».
Ora, al di là degli strafalcioni evidenti (il Rinnegato ne combinò abbastanza, senza che ci fosse il bisogno di rispolverare la leggenda, falsa per gli storici, secondo la quale costui avrebbe tagliato la gola alla madre), sta di fatto che si vuole instaurare un nuovo clima di tensione tra Nord e Sud, con la rimessa in gioco di un antimeridionalismo tattico, per fini ovviamente inconfessabili, ma pur sempre noti, e pur sempre funzionali alla voracità onnivora di cui parlavamo sopra.
Certamente, siamo lontani dai bei tempi andati, quando il leghista Calderoli proponeva di «amputare la cancrena alto», piazzando le frontiere padane a Pesaro, e ammoniva i vescovi che «i padani, oltre a mantenere l’esercito di parassiti del meridione, mantengono anche loro»; o quando l’ineffabile Borghezio, alla domanda se fosse d’accordo con un manifesto leghista che denunciasse un “complotto terrone”, rispondeva: «No, manca l’aggettivo “schifoso”: schifoso complotto terrone»; o quando il capotribù Bossi, imprecando per la sconfitta del ricandidato sindaco leghista a Milano, sparava sui «terroni ingrati», i quali, «pur di non liberare il Nord dalla schiavitù di Roma, avrebbero votato anche un pezzo di merda».
Ma la tregua col Sud, che Maroni firmò nel 2000 con i leader del centrodestra nella garibaldina Teano, è finita. A quel tempo il Senatùr, deciso ad avere la mitica “devoluscion”, aveva ordinato la cessazione delle ostilità nei confronti dei terroni. Si ebbero parole sobrie dei colonnelli, dissensi – sì – ma molto garbati per certi regalini finanziari strappati in favore di alcune clientele elettorali del Sud (ammettiamo pure più numerose di quelle del Nord), aplomb britannico per i quattrini fatti pervenire alla Sicilia per le imminenti elezioni e alla Calabria per la sua inaffondabile armata di forestali, scuse per le scritte “Forza Etna!”, comizi nientemeno che a Ceppaloni, dichiarazioni secondo le quali il ponte sullo Stretto non era più considerato un’opera «vergognosa e dispendiosa», riconoscimento – addirittura – di un Sud che si era «enormemente evoluto»…
Referendum: e devoluscion vincente nel Lombardo-Veneto, ma sepolta nel Sud da percentuali di voti bulgare. Commento della Lega, il silenzio, attraverso la cui cortina passa il sibilo elegante di Speroni: «L’Italia fa schifo». Così le antiche rabbie e i rigurgiti secessionisti riprendono vigore. Il nordismo torna alla ribalta, a rotta mutata. Dalle cronache giornalistiche ancora fresche d’inchiostro: «L’aumento delle tasse lo sconterà il Settentrione, la riduzione del cuneo fiscale andrà a vantaggio del Meridione (questa volta con l’iniziale in maiuscolo, N.d.R.). Un doppio danno». E ancora: «Di federalismo non si è neppure parlato, a meno che non confondano il federalismo con l’assistenzialismo». Per quel che più da vicino ci riguarda, i rappresentanti del Molise e della Puglia «non sono disposti a rinunciare per qualsiasi ragione ai loro privilegi», mentre «Tonino vuol tenere la Padania in coda, ma intanto promette nuove opere nel Meridione»: per “Tonino” intendendo il ministro Di Pietro, che ha definito «priorità delle priorità» la Tav Napoli-Bari, «recentemente pensata da alcuni governatori ulivisti del Meridione» per «collegare piacevolmente con la “città do sole e do mare” ameni centri dell’entroterra campano e pugliese». Di più: un’Alta Velocità del tutto inutile, «con quindici stazioni».
E alla via così. «Sgravi fiscali al Sud. Che già non paga le tasse». «Prodi si fa in quattro per il Mezzogiorno». Oltre ai titoli, i commenti: «Sono due i motivi per i quali al Sud l’emergenza rifiuti non cessa mai: o sono incompetenti o sono ladri. O tutti e due». E per finire, il direttore della Padania, quotidiano leghista, ha pubblicato in prima pagina la foto di un piatto di spaghetti con sopra una pistola (sai la brillante novità?). Gran titolo: “Il Nord con le imprese, il Sud con la mafia”. Commento testuale: «Ci diranno che siamo i soliti. Invece, solito è un certo Sud che non ne vuole sapere di cambiar pelle e di scrollarsi di dosso la simpatia con la cultura mafiosa o camorristica che sia. A Napoli scippano un turista e la gente che fa? Invece di inseguire i malviventi, mette le mani addosso al povero cristo (sic!, N.d.R.) americano che voleva riprendersi la telecamera. Sono episodi? No, miei cari. A Napoli come a Palermo come a Reggio Calabria come a Bari c’è una larga fetta di popolazione che “tifa per i clan” e “sta con la criminalità” e “non ne vuole sapere di cambiare”».
Ma il Sud non si era «enormemente evoluto»? Contrordine, popolo allobrogo? Vedremo fra non molto se, e perché mai. (E intanto, a proposito di definizioni. Chi emula a gran distanza di tempo un noto settimanale tedesco – spaghetti con pistola, sulla copertina – per emblematizzare indiscriminatamente la cultura e la civiltà del Sud e dei meridionali, non ci permettiamo di definirlo “il solito”; più semplicemente lo chiamiamo con un termine diverso, che la fantasia dei suoi “soliti” e sodali può agevolmente individuare, prima di tirare la catena. E una volta tanto, amen!).

 

   
   
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