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Ogni parola evoca qualche cosa, ogni parola è una divinità
che crea, che porta allesistenza la cosa. A stento si riesce
a prendere questa mirabile rivelazione del pensiero anche solo come
figura: ed è stata un tempo una verità ordinaria!
Un dio ha abitato in ogni parola, ogni parola è stato un
dio, pronto allira, avido di sacrificio... Non era pensabile
essere scrittori: solo trasmettitori di messaggi divini, oracoli,
ricettacoli di Corani... Guido Ceronetti

Ha cominciato per restare a tempi recentissimi il
poeta Edoardo Sanguineti, (che comunque parlava da politico, nel
senso che si stava candidando alle elezioni amministrative di Genova).
Il quale, con un suono ottocentesco che non si sentiva da parecchi
decenni, e con un risvolto nostalgico che forse sarebbe stato più
opportuno trattenere nelle latebre, ha sostenuto che è giunta
lora di «restaurare lodio di classe, perché
i potenti odiano i proletari, e lodio deve essere ricambiato».
Aggiungendo, a chiarimento della sfida, che «oggi la merce
uomo, il suo lavoro, è la più svenduta, e chi dovrebbe
averne coscienza, vale a dire la classe proletaria, non lha,
inibita comè da una cultura dominata dalla tv».
Chi stava citando, Sanguineti, precipitando agli albori del secolo
scorso, se non proprio nel pieno di quello precedente? La vulgata
attribuisce il concetto di odio di classe al Manifesto
di Marx ed Engels, oppure, al limite, allattività politica
parigina tra operai e artigiani dei socialisti Proudhon e Blanc,
e dellanarchico russo Michail Bakunin. In realtà, lideologo
del Gruppo 63 ripristinava un punto storico-filosofico:
«Il riferimento di questo concetto è Walter Benjamin,
è lui che parla, testualmente, del valore filosofico
dellodio di classe». Benjamin un po
come faceva Gramsci in Italia lamentava che quando laccento
è posto meccanicamente, positivisticamente, sullidea
di progresso, si perde di vista che il compito di una politica di
sinistra non è la felicità futura, bensì
la rivendicazione dellingiustizia passata e presente, fatta
in nome della classe oppressa. Dunque, «lodio è
un motore», e riguarda quasi tutti, dal momento che «il
problema del proletariato attuale è che comprende i tre quarti
della popolazione», anche se molti non lo sanno.
Per lEdoardo furioso non è possibile recedere dallatteggiamento
barricadiero, derubricando lodio per esempio
a coscienza (di classe), cioè a consapevolezza di essere,
appunto, una classe sociale e non unaltra, con una capacità
di lottare per emancipare se stessi dalla condizione in cui si è,
ma senza volere a tutti i costi diventare qualcun altro, saltando
il fosso e trasformandosi in poco probabili borghesi. Se non che,
il gran poeta usa quasi di sicuro inconsapevolmente
il verbo restaurare, il quale ci suggerisce lidea
che stiamo parlando di qualcosa che somiglia a un monumento, e se
proprio vogliamo a una vecchia struttura, a un palazzo (dInverno),
insomma a un pezzo dantichità: un reperto che, diroccato
o restaurato che sia, resta comunque un testimone del passato. Lo
si può visitare, studiare, qualcuno lo potrà anche
ammirare o rimpiangere, ma nessuno lo potrà resuscitare.
Neanche un poeta passatista.
Perché Sanguineti ha parlato così? Per quale ragione
ha usato queste parole, scagliandole con violenza consapevole, ma
non di fronte a sé, bensì visto le memorie
storiche che rievocano alle sue spalle? Per la semplice ragione
che capita sempre più frequentemente che gli italiani, tutti
gli italiani, rissosamente discutano sul passato che non passa mai,
su figure che mai si ritirano nellombra, su personaggi che
non sanno glissare al momento giusto, su vicende che vengono riportate
alla ribalta, quasi sempre strumentalmente, con variazioni minime,
o provocatorie, o stravolte, o infine insignificanti, ma utili a
ricominciare da tre, eternamente riavvolgendo la Storia
e le cronache su se stesse, su realtà immutabili, come fissate
nel sale, al modo della moglie di Lot.
In un suo Teatrino dei pupi, Andrea Marcenaro ha vita
facile nel giocare alla sovrapposizione attualizzata di immagini
e di vicende trascorse. Vede la faccia di un magistrato che si era
interessato di Mani pulite, e che riemerge agli onori
della cronaca perché fa incarcerare una masnada di brigatisti
rossi, e immagina di essere negli anni Novanta. Stessa prima pagina
di giornale, con un secondo titolo e con la foto di un giuslavorista
ucciso da unaltra cosca politica eversiva, e si sente precipitato
negli anni Ottanta. Parlano i sindacalisti della Cgil, infiltrati
dai brigatisti, (non solo in questultima circostanza), e ricordano
Luciano Lama, riportandoci agli anni Settanta. Si sfila in quel
di Vicenza, con striscioni che sostengono che bisogna buttar fuori
dallItalia gli americani e le loro basi: come ai tempi della
visita di Richard Nixon, cioè nel pieno degli anni Sessanta.
Un rozzo presidente croato reagisce per la memoria finalmente onorata
in Italia delle vittime delle foibe, e si cade ancora più
indietro, negli anni Cinquanta. Infine, si annuncia unennesima
scoperta di diari di Mussolini, notizia che ci riporta armi e bagagli
negli anni Quaranta. Chiosa maliziosamente Marcenaro: non è
da escludere che un giorno o laltro esca sui quotidiani la
notizia che Giuseppe Mazzini ha appena fondato la Giovine Italia!
Il passato, dunque, gioca un ruolo decisivo. E può capitare
che in suo nome si frantumino antichi sodalizi, si neghino legami
che erano ritenuti consolidati, si lancino accuse anche infamanti
nei confronti di chi, fino a poco prima soltanto, era considerato
un amico. Perciò è lite continua. Con intifade bilaterali
che alimentano i gossip del magno cortile italiano. Qualche esempio.
Lo scrittore Antonio Tabucchi nega di essere stato amico di Adriano
Sofri: non gli è piaciuto che il Corriere della Sera
lo abbia definito «ex amico», e ha precisato: «La
mia presa di posizione nei confronti di Sofri riguardava unicamente
la sua posizione giuridica... non certo la sua cerchia di amicizie
di cui non faccio né ho mai fatto parte». Strano, avremmo
giurato il contrario. Ma Sofri ha mostrato fastidio per chi dellantiberlusconismo
ha fatto una professione, un vessillo e una (comoda) condizione
esistenziale.
Altro che il romantico Novecento, di Bernardo Bertolucci,
nel quale Gérard Depardieu e Robert De Niro, divisi dalla
Resistenza e dalla Liberazione, nel cuore comunque conservavano
il ricordo della fratellanza! Il vignettista Sergio Staino, per
aver disegnato il giornalista dell Unità
Marco Travaglio in forma di un corvaccio rancoroso, ha ricevuto
la telefonata di un vecchio amico: «Anche tu, come Sofri,
sei passato al libro paga di Ferrara e di Berlusconi. Mi fate schifo.
Spero di non sentirti più». Messa da parte la matita,
Staino ha scritto un articolo sulla stessa Unità,
ricordando i giorni in cui perse un caro compagno di studi per avere
abbandonato le posizioni rivoluzionarie dei tempi della contestazione.
È la storia eterna di Romolo e Remo. Uno voleva fondare la
città sul Palatino, laltro sullAventino. Finì
a mazzate in testa. Mentre fu questione di picconate sul cranio,
che Trotzskij si buscò, dopo la rivoluzione in Russia e la
fuga-esilio in Messico, su mandato dellex amico Lenin. Ancora:
si può essere parenti, come Mussolini e Costanzo Ciano, e
poi tirare in mezzo il plotone desecuzione; si può
finire col mozzarsi un orecchio, come fece Van Gogh dopo lennesima
discussione col fratello Gauguin a proposito di divergenze
artistiche; oppure si può far uso dellideologia, al
modo di Nietzsche, per cementare la spaccatura col venerato Wagner
Non cè manuale o biografia che sia priva di racconti
emblematici. Così la cronaca quotidiana: personaggi della
tv che rinnegano redditizi sodalizi in nome di più redditizie
trasmissioni con presumibile più alta audience; calciatori
che tolgono il saluto a colleghi passati, sempre a suon di super-ingaggi,
a grandi squadre avversarie. Dentro i partiti, poi, è dramma
continuo, registrato da resoconti che, essendo ricorrenti nella
pratica diffusa di voltagabbanismo e nella conseguente noia che
provocano, mi rifiuto di elencare. Riferisco, invece, sul mondo
dello spettacolo, dove il secolo scorso sembra essere sempre meno
quello di Bertolucci.

Lattrice Ombretta Colli confida al giornalista Claudio Sabelli
Fioretti: «Una volta eravamo tanto amici. Baci e abbracci.
Adesso, quando mi incontrano, provano quasi un po di schifo.
Come se avessi una malattia infettiva». Parlava di Franca
Rame e del Premio Nobel (ed ex della Repubblica di Salò)
Dario Fo, con i quali aveva condiviso molte cause, prima di abbracciare
quella conservatrice. Rompere con i progressisti o presunti tali
è stato doloroso e costoso per tanti. «Non ci sono
più rapporti. Credo che mi abbia totalmente cancellato»,
ha detto il giornalista e scrittore Giampiero Mughini a proposito
del regista ed ex amico Nanni Moretti. E sempre lui, su Paolo Flores
dArcais: «Era il mio migliore amico: oggi non mi saluta
più». È una centrifuga infernale, visto che
poi lo stesso Mughini si trovò a rimproverare il collega,
oltre che senatore, Paolo Guzzanti: «Un ex amico, esecrabile
per i suoi atteggiamenti da ultrà berlusconiano».
Dunque, il Novecento pare piuttosto quello velenoso
emerso per i libri di Giampaolo Pansa, anche lui giornalista e scrittore
(che a torto accusò Sciascia che se la prendeva con i «professionisti
dellantimafia»: e mai gli chiese scusa), attratto dalle
ragioni e dai sentimenti dei fascisti e dei soldati di Salò.
Giorgio Bocca uscì di sé: «Racconta frottole,
e le racconta da quattro a cinque anni a questa parte perché
ha capito che il clima è cambiato e cerca di cavalcarlo...
robaccia e menzogne già scritte e riscritte». E rincarò:
«Anche in questi tempi di opportunisti e voltagabbana, dovrebbe
esserci un qualche limite, perlomeno di decenza e di dignità
personale. Con questo libro, invece, Pansa si è voluto mettere
in sintonia con gli istinti più bassi di unopinione
pubblica ottimamente rappresentata dal Cavalier Berlusconi».
Questo il pulpito, e questa la predica. Nei confronti dei quali
Pansa reagì: «Il mio vecchio amico Bocca, ex amico,
ha detto che ero visceralmente anticomunista. Figuriamoci. Lui invece
era visceralmente fascista, antiebreo, anzi antisemitico».
È leterno Novecento che non muore, e tiene vivi i livori
fra Lino Jannuzzi ed Eugenio Scalfari, fra Scalfari e Marco Pannella,
fra Pannella e Francesco Rutelli, un giorno sodali, e poi mortalmente
divisi da Mario Pannunzio, o da Palmiro Togliatti, o da Bettino
Craxi, o da Mani Pulite, o da Berlusconi. O, infine, da tutto e
dal contrario di tutto. Come nel caso di un docente universitario,
nonché leader di un partito politico che può svolgere
il proprio congresso nello spazio di un ascensore, Diliberto, il
quale deve avere il grimaldello della schifiltosità incorporato
da qualche parte nellapparato cerebro-olfattivo, se è
vero, come è vero, che lo mette in moto ad alta frequenza,
esprimendosi (senza annusarsi preventivamente) con una raffinatezza
da conte Tacchia: gli fa schifo Berlusconi (ancora lui!), come gli
faceva schifo Oriana Fallaci.
Certo: insieme con le diatribe sul passato remoto e medio e recente,
in particolare Mani Pulite ha raso al suolo un numero infinito di
relazioni cameratesche, compresa quella dellex magistrato,
e poi leader politico, Antonio Di Pietro, che spesso e volentieri
andava a cena con lex sindaco di Milano e cognato di Craxi,
Paolo Pillitteri, e con gli altri compagni e compari. Penso comunque
alla tragedia socialista, arcinota, e la trovo sublimata da una
lettera di Giuliano Ferrara a Claudio Martelli: «Che lei sia
un bugiardo matricolato lo sappiamo dal tempo del Conto Protezione...
Bugiardo malmostoso che non è altro, e viscido serpente con
la pelle rifatta e senza nemmeno i sonagli... Non si metta mai più
sulla mia strada, perché la corco: con le mie mani».

Le immagini. E le parole. Le parole di pietra. Come abbiamo potuto
vedere altro esempio drammatico, ma per le bronzee prese
di posizione di molti politici, sociologi, editorialisti
con la riemersione delle bande armate. Oggi non cè
il magma conflittuale dei vecchi anni di piombo: il lavoro è
profondamente cambiato, i servizi e il terziario avanzato pesano
più della fabbrica di tipo fordista, e la nuova forza-lavoro
è per lo più atipica e comunque difficile da organizzare
anche dal punto di vista sindacale, figurarsi se sia possibile farlo
dal punto di vista della lotta armata. Ma allora, perché
slogan e simpatie combattenti si riproducono, tornano in scena,
risalgono come neolitici serpenti marini?
Sostiene Lanfranco Pace: Un tempo si diceva che cera
lalbum di famiglia, il ramo storto dellalbero comunista.
Oggi è fuori luogo parlare di album, ma di cultura comune
no. Laffinità nel linguaggio e nello sguardo con cui
ci si ostina a vedere le cose esiste... Se si provasse a fare astrazione
da depositi e santabarbare e ci si concentrasse sugli argomenti,
le parole, i giudizi, le simpatie o gli odi di questi nuovi brigatisti...
saremmo sicuri di essere di fronte ad alieni? O al contrario, a
persone che hanno la stessa forma mentale dei tanti capi e sottocapi
e dirigenti dei frammenti del comunismo italiano? [...] Quando si
dice sistematicamente che gli Stati Uniti e Israele sono le grandi
minacce alla pace nel mondo, quando si dice che tutto va sempre
male, che il capitalismo è la macchina che tritura i poveri
e arricchisce i ricchi, quando si ha anche unidea non proprio
definitiva della democrazia, ma si insiste sui suoi limiti, quando
si trattano gli avversari da nemici e non si ammette minimamente
che anche altri possano aver agito bene o avere scampoli di ragione,
quando insomma si crede ancora che per capire il mondo ci voglia
una chiave di lettura, come stupirsi se uno su un milione sincazzi
e provi pure a prendere le armi? Suvvia, ministro (dellInterno,
N.d.R.) Amato, per stupirsi dei ritardatari dellaltro secolo,
di quelli che parlano del mondo scomparso, non cè bisogno
di andarli a stanare tra le brume del Nord: basta smettere di far
finta di non sentire, il venerdì, in Consiglio dei Ministri
o di non riflettere su quel che si dice, un giorno sì e laltro
pure, negli show, negli speciali, nelle interviste,
nelle dichiarazioni rilasciate in tv e puntualmente riecheggiate
sui quotidiani, per il trionfo della più stolta e insolente
anche per deficienza di caratura umanistica delle parole-clava
pochezza intellettuale.
Restiamo in tema di terroristi rossi e delle scorciatoie concettuali
con cui li si definisce, discettando di follia, di delirio
collettivo, o per chi esercita la miglior fantasia
di «giapponesi sorpresi nella giungla di Iwo Jima due
decenni dopo la fine della guerra», senza tener conto che
si tratta di qualcosa di molto più grave, vale a dire di
ripetizione, di sclerosi mentale, di parole ricevute.
Noi abbiamo sugli italiani contemporanei un giudizio completamente
sbagliato. Li giudichiamo mobili, capricciosi, cangianti, ricchi
di immaginazione, bugiardi, divertenti, come li definivano i francesi
trentanni fa, quando esaltavano les italiens.
Almeno per la maggior parte di noi è un giudizio falso. Ad
esempio: il cosiddetto Sessantotto è stato inventato in Francia
e in Germania, dove produsse molte scemenze, qualche trovata spiritosa,
barricate, insulti alla borghesia e alle forze di polizia, e (in
Germania) alcune vittime. Poi venne dimenticato. E gli scrittori
francesi e tedeschi che allora si ubriacavano di Marcuse, di Mao
e di Khomeini ora leggono con lo stesso entusiasmo Agostino, Pascal,
i taoisti, i buddisti, i gesuiti, e vanno a vedere le mostre di
Klee, di Monet, di Matisse, di Bonnard, di Caravaggio
Secondo
un luogo comune immarcescibile, francesi e tedeschi dovrebbero essere
popoli rigidi: in realtà, hanno cambiato e cambiano opinioni,
idee, fantasie. Persino i cinesi, che venerano Confucio da duemila
e cinquecento anni, in poco tempo si sono in grandissima parte trasformati.
Noi, per niente. Come ha scritto un progressista rigoroso, Pietro
Citati, gli italiani di oggi amano in primo luogo la materna ripetizione,
la funebre sclerosi, la sinistra parola ricevuta: «Le parole
che ascoltiamo dagli sciocchi di sinistra del 2007 sono quasi le
stesse che ascoltavo nel 1948, cinquantanove anni fa: sono le stesse
blaterate nei cortei degli anni Sessanta e nei cosiddetti scritti
teorici delle antiche Brigate Rosse. Cè stata soltanto
qualche piccola variante di stile e di psicologia. Un uomo cambia
molte volte nella propria vita... Possibile che il linguaggio di
un terrorista non cambi mai? Che la loro mente, persino quella di
un giovane, sia completamente pietrificata? Che restino incessantemente
eguali a se stessi, mentre le immodificabili stagioni si allungano,
si scaldano, si raffreddano, si intiepidiscono, si adombrano, esplodono?».
Solo che non si tratta solo del linguaggio degli estremisti e delle
bertucce che con loro simpatizzano. La malattia è la stessa
che, da due o tre decenni, contamina lintera vita pubblica
e privata italiana: industriali, politici, scrittori, giornalisti,
avvocati, economisti, sindacalisti, professori... Oggi lItalia
è diventata un tediosissimo Paese di burocrati, mentre dalla
metà degli anni Cinquanta alla metà degli anni Sessanta
era un Paese vivace e creativo. Sostenendo di ignorare le cause
del disastro, e accusando la scuola e luniversità di
essere i cuori della sclerosi nazionale, Citati scrive che si sente
dappertutto un profumo di morte: soprattutto nelle parole, che non
hanno più nessun rapporto con le cose, ma sono ogni giorno
più cifrate, convenzionali, astratte, incomprensibili, insignificanti:
«Temo che non ci sia nessuna speranza. Temo che morirò
con le orecchie piene di parole che ho ascoltato per tutta la vita».
Il repertorio dei motivi che hanno determinato questo stato di cose
è leggibile in chiaro: sono venute meno, storicamente, le
riforme, quelle autentiche, non quelle gattopardesche che continuano
ad esserci ammannite; e per questa ragione i riformisti di tutte
le latitudini nostrane e di tutti i colori sono come accusa
Giuliano Ferrara «immersi in un mare di frustrazione,
di impotenza, di velleitarismo», e versano «in uno stato
di abbandono, di inconcludenza», e dunque sono costretti «alla
petulanza, alla pubblicistica prepolitica e sentimentale, alla nostalgia
di quel che poteva essere e non fu...».
Che lItalia sia immobile per natura, mentre cambia pelle ogni
minuto con le sue notissime rivoluzioni passive, e che sia inutile
governarla nel senso anglosassone e occidentale, o anche soltanto
europeo del termine, è solo un aspetto sia pur rilevante
della questione. Il punto nodale è che le vere riforme
si fanno a condizione che esistano una cultura diffusa che le accoglie
e unautorità forte che le dispone. Senza una guerra
culturale che cambi di segno il modo di vita ubiquo e ipocrita accettato
dagli italiani non si combina nulla di nulla. Le riforme come chiacchiere
salottiere, come esercizi retorici e ininfluenti si hanno quando
le parole importanti perdono di significato. E da noi, per motivi
radicali e di lunga durata storica, di parole importanti che abbiano
conservato un senso ce ne sono ormai ben poche.
Come al solito, non è una questione di valori, «espressione
dice Ferrara spesso ambigua e intinta nel moralismo».
È questione di criteri: se uno di questi deve essere la responsabilità,
è necessario che la gente «accetti la mobilità,
la competizione, che lintimismo solidale delle vite di cui
raccontano il nostro cinema e la nostra romanzeria sia integrato
da unapertura allepica, alla storia, allidea di
cittadinanza, di nazione, di mondo e di identità».
Se un altro criterio di vita deve essere la libertà, è
necessario che si prenda coscienza dei modelli di esistenza prevalenti.
Noi invece stiamo consumando il senso stesso della famiglia, ma
non per emergere come liberi individui di una società responsabile,
che è il terreno di coltura delle riforme e dei grandi e
profondi cambiamenti che i riformisti sinceri predicano: al contrario,
ci teniamo il peggio del familismo, vale a dire una vaga e blanda,
quanto coattiva ideologia solidarista, e della famiglia rifiutiamo
ciò che davvero importa, il carattere di istituzione votata
alleducazione delle generazioni, alla trasmissione del passato
in un presente che prepara il futuro.
Ci vuole un po di fantasia politica. Ci vuole un progetto
autorevole. Ci vuole un po di coraggio nellandare alla
sostanza delle cose. Il parlottio italiano, invece, sembra eterno
e perciò ha qualcosa di surreale. Mentre per far cessare
le intifade con parole pietrificate non si devono aprire tavoli,
come si dice con unennesima espressione lapidea adatta ai
maligni costruttori di tutti gli immobilismi: bisogna affrontare
lo scalone e salire i gradini, difendendo quel poco di riformismo
che cè stato, e quello possibile, metodologico, che
da noi sembra non dover arrivare mai.
Che lessere umano possa sentirsi solo in un mondo difficile,
e abbandonato dai suoi simili proprio quando è da questi
più attorniato, dovremmo saperlo bene: lo abbiamo imparato
quando abbiamo studiato lestenuarsi del mondo pagano, sul
tramontare della civiltà romana, e quando i cristiani assorbirono
quellansia estenuata dando alla fede la straordinaria forza
delle proprie forme e dei propri riti. Era il secondo o il terzo
secolo, e in Europa non cera mai stata tanta miseria. Fu il
Cristianesimo a comprendere questa sofferenza e a portarla sulle
spalle. Senza disperazione delluomo non ci sarebbe stato Cristianesimo.
Se la disperazione venisse meno, torneremmo al paganesimo, sostengono
grandi studiosi dei primi cristiani, come Eric Dodds e André-Jean
Festugière.
Ripercorrere lera del primo Cristianesimo è importante,
perché essa è molto simile alla nostra, che però
è contraddistinta dal primato delle istituzioni laiche:
stessa sensazione di declino, identica solitudine di individui privi
di protezioni giuridiche, analogo sovvertimento del lavoro e delleconomia,
e uguale sete di riconoscimento da parte di genti e terre che sono,
o ritengono di essere, nellabbandono. E oggi vediamo riapparire
nel mondo lo stesso essere umano, derelitto, come laveva descritto
Epitteto in un terribile passaggio dei suoi Discorsi:
«Lo stato di disperazione solitaria è la condizione
di chi è senza aiuto. Giacché (a Roma) non siamo derelitti
soltanto se siamo soli, allo stesso modo in cui un uomo tra la folla
non cessa necessariamente di esser derelitto. Non è la vista
di un essere umano in quanto tale che mette fine alla nostra condizione
di derelizione, ma la vista di un essere umano fiducioso, modesto,
desideroso daiutare».
È questo che le istituzioni faticano a fare: a riconoscersi,
al cospetto delluomo che ancora una volta si sente solo, eremos.
Eremos è colui cui manca qualcosa di fondamentale,
e ne è devastato. La parola ha anche un significato giuridico:
un processo è eremos se non cè il
difensore. Questa mancanza e questa solitudine sono un altro feroce
prodotto delle parole-pietre e dellimmobilismo italico, che
ci hanno imprigionato in un mondo affannoso, cinico, eremitico,
in cui trova difficile vivere un giovane che voglia edificare il
futuro senza sentirsi, come luomo di Epitteto, privo di riconoscimento
e di aiuto giuridico. Cè la difficoltà di trovar
casa, dunque di separarsi dalla famiglia; cè la lunga
e in non pochi casi irrisolvibile precarietà del lavoro,
che complica i progetti di mettere al mondo un figlio; cè
lo scarso o nullo riconoscimento del merito, che priva di energia
e di volontà chi, pur avendo le carte in regola, sente venir
meno la spinta propulsiva alla corretta competizione; cè
un senso crescente di scacco, che distoglie dai sogni perché
trionfano leffimero e loccasionale, e perché
il rischio dellesclusione spesso ha la meglio sulla certezza
del patto.
E intanto, rinunciando alla ricerca di una moderna età delloro,
di unisola che ci sia, insomma di un nome almeno decente da
dare al futuro, continuiamo a tenerci un Paese malato, soccorso
con trasfusioni ad effetto placebo, perché nessuno ha intenzione
di rifarlo nuovo. Neanche per quel tanto, o per quel poco, che durano
le cose mortali.
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