Marzo 2007

Il corsivo

Indietro
Intifade
con parole di pietra
Aldo Bello  
 
 

 

 

 

 

Ogni parola evoca qualche cosa, ogni parola è una divinità che crea, che porta all’esistenza la cosa. A stento si riesce a prendere questa mirabile rivelazione del pensiero anche solo come figura: ed è stata un tempo una verità ordinaria! Un dio ha abitato in ogni parola, ogni parola è stato un dio, pronto all’ira, avido di sacrificio... Non era pensabile essere scrittori: solo trasmettitori di messaggi divini, oracoli, ricettacoli di Corani... Guido Ceronetti

Ha cominciato – per restare a tempi recentissimi – il poeta Edoardo Sanguineti, (che comunque parlava da politico, nel senso che si stava candidando alle elezioni amministrative di Genova). Il quale, con un suono ottocentesco che non si sentiva da parecchi decenni, e con un risvolto nostalgico che forse sarebbe stato più opportuno trattenere nelle latebre, ha sostenuto che è giunta l’ora di «restaurare l’odio di classe, perché i potenti odiano i proletari, e l’odio deve essere ricambiato». Aggiungendo, a chiarimento della sfida, che «oggi la merce uomo, il suo lavoro, è la più svenduta, e chi dovrebbe averne coscienza, vale a dire la classe proletaria, non l’ha, inibita com’è da una cultura dominata dalla tv».
Chi stava citando, Sanguineti, precipitando agli albori del secolo scorso, se non proprio nel pieno di quello precedente? La vulgata attribuisce il concetto di “odio di classe” al “Manifesto” di Marx ed Engels, oppure, al limite, all’attività politica parigina tra operai e artigiani dei socialisti Proudhon e Blanc, e dell’anarchico russo Michail Bakunin. In realtà, l’ideologo del “Gruppo 63” ripristinava un punto storico-filosofico: «Il riferimento di questo concetto è Walter Benjamin, è lui che parla, testualmente, del “valore filosofico dell’odio di classe”». Benjamin – un po’ come faceva Gramsci in Italia – lamentava che quando l’accento è posto meccanicamente, positivisticamente, sull’idea di progresso, si perde di vista che il compito di una politica “di sinistra” non è la felicità futura, bensì la rivendicazione dell’ingiustizia passata e presente, fatta in nome della classe oppressa. Dunque, «l’odio è un motore», e riguarda quasi tutti, dal momento che «il problema del proletariato attuale è che comprende i tre quarti della popolazione», anche se molti non lo sanno.
Per l’Edoardo furioso non è possibile recedere dall’atteggiamento barricadiero, derubricando l’odio – per esempio – a coscienza (di classe), cioè a consapevolezza di essere, appunto, una classe sociale e non un’altra, con una capacità di lottare per emancipare se stessi dalla condizione in cui si è, ma senza volere a tutti i costi diventare qualcun altro, saltando il fosso e trasformandosi in poco probabili borghesi. Se non che, il gran poeta usa – quasi di sicuro inconsapevolmente – il verbo “restaurare”, il quale ci suggerisce l’idea che stiamo parlando di qualcosa che somiglia a un monumento, e se proprio vogliamo a una vecchia struttura, a un palazzo (d’Inverno), insomma a un pezzo d’antichità: un reperto che, diroccato o restaurato che sia, resta comunque un testimone del passato. Lo si può visitare, studiare, qualcuno lo potrà anche ammirare o rimpiangere, ma nessuno lo potrà resuscitare. Neanche un poeta passatista.
Perché Sanguineti ha parlato così? Per quale ragione ha usato queste parole, scagliandole con violenza consapevole, ma non di fronte a sé, bensì – visto le memorie storiche che rievocano – alle sue spalle? Per la semplice ragione che capita sempre più frequentemente che gli italiani, tutti gli italiani, rissosamente discutano sul passato che non passa mai, su figure che mai si ritirano nell’ombra, su personaggi che non sanno glissare al momento giusto, su vicende che vengono riportate alla ribalta, quasi sempre strumentalmente, con variazioni minime, o provocatorie, o stravolte, o infine insignificanti, ma utili a “ricominciare da tre”, eternamente riavvolgendo la Storia e le cronache su se stesse, su realtà immutabili, come fissate nel sale, al modo della moglie di Lot.
In un suo “Teatrino dei pupi”, Andrea Marcenaro ha vita facile nel giocare alla sovrapposizione attualizzata di immagini e di vicende trascorse. Vede la faccia di un magistrato che si era interessato di “Mani pulite”, e che riemerge agli onori della cronaca perché fa incarcerare una masnada di brigatisti rossi, e immagina di essere negli anni Novanta. Stessa prima pagina di giornale, con un secondo titolo e con la foto di un giuslavorista ucciso da un’altra cosca politica eversiva, e si sente precipitato negli anni Ottanta. Parlano i sindacalisti della Cgil, infiltrati dai brigatisti, (non solo in quest’ultima circostanza), e ricordano Luciano Lama, riportandoci agli anni Settanta. Si sfila in quel di Vicenza, con striscioni che sostengono che bisogna buttar fuori dall’Italia gli americani e le loro basi: come ai tempi della visita di Richard Nixon, cioè nel pieno degli anni Sessanta. Un rozzo presidente croato reagisce per la memoria finalmente onorata in Italia delle vittime delle foibe, e si cade ancora più indietro, negli anni Cinquanta. Infine, si annuncia un’ennesima scoperta di diari di Mussolini, notizia che ci riporta armi e bagagli negli anni Quaranta. Chiosa maliziosamente Marcenaro: non è da escludere che un giorno o l’altro esca sui quotidiani la notizia che Giuseppe Mazzini ha appena fondato la Giovine Italia!
Il passato, dunque, gioca un ruolo decisivo. E può capitare che in suo nome si frantumino antichi sodalizi, si neghino legami che erano ritenuti consolidati, si lancino accuse anche infamanti nei confronti di chi, fino a poco prima soltanto, era considerato un amico. Perciò è lite continua. Con intifade bilaterali che alimentano i gossip del magno cortile italiano. Qualche esempio. Lo scrittore Antonio Tabucchi nega di essere stato amico di Adriano Sofri: non gli è piaciuto che il “Corriere della Sera” lo abbia definito «ex amico», e ha precisato: «La mia presa di posizione nei confronti di Sofri riguardava unicamente la sua posizione giuridica... non certo la sua cerchia di amicizie di cui non faccio né ho mai fatto parte». Strano, avremmo giurato il contrario. Ma Sofri ha mostrato fastidio per chi dell’antiberlusconismo ha fatto una professione, un vessillo e una (comoda) condizione esistenziale.
Altro che il romantico “Novecento”, di Bernardo Bertolucci, nel quale Gérard Depardieu e Robert De Niro, divisi dalla Resistenza e dalla Liberazione, nel cuore comunque conservavano il ricordo della fratellanza! Il vignettista Sergio Staino, per aver disegnato il giornalista dell’ “Unità” Marco Travaglio in forma di un corvaccio rancoroso, ha ricevuto la telefonata di un vecchio amico: «Anche tu, come Sofri, sei passato al libro paga di Ferrara e di Berlusconi. Mi fate schifo. Spero di non sentirti più». Messa da parte la matita, Staino ha scritto un articolo sulla stessa “Unità”, ricordando i giorni in cui perse un caro compagno di studi per avere abbandonato le posizioni rivoluzionarie dei tempi della contestazione.
È la storia eterna di Romolo e Remo. Uno voleva fondare la città sul Palatino, l’altro sull’Aventino. Finì a mazzate in testa. Mentre fu questione di picconate sul cranio, che Trotzskij si buscò, dopo la rivoluzione in Russia e la fuga-esilio in Messico, su mandato dell’ex amico Lenin. Ancora: si può essere parenti, come Mussolini e Costanzo Ciano, e poi tirare in mezzo il plotone d’esecuzione; si può finire col mozzarsi un orecchio, come fece Van Gogh dopo l’ennesima discussione col “fratello” Gauguin a proposito di divergenze artistiche; oppure si può far uso dell’ideologia, al modo di Nietzsche, per cementare la spaccatura col venerato Wagner…
Non c’è manuale o biografia che sia priva di racconti emblematici. Così la cronaca quotidiana: personaggi della tv che rinnegano redditizi sodalizi in nome di più redditizie trasmissioni con presumibile più alta audience; calciatori che tolgono il saluto a colleghi passati, sempre a suon di super-ingaggi, a grandi squadre avversarie. Dentro i partiti, poi, è dramma continuo, registrato da resoconti che, essendo ricorrenti nella pratica diffusa di voltagabbanismo e nella conseguente noia che provocano, mi rifiuto di elencare. Riferisco, invece, sul mondo dello spettacolo, dove il secolo scorso sembra essere sempre meno quello di Bertolucci.

L’attrice Ombretta Colli confida al giornalista Claudio Sabelli Fioretti: «Una volta eravamo tanto amici. Baci e abbracci. Adesso, quando mi incontrano, provano quasi un po’ di schifo. Come se avessi una malattia infettiva». Parlava di Franca Rame e del Premio Nobel (ed ex della Repubblica di Salò) Dario Fo, con i quali aveva condiviso molte cause, prima di abbracciare quella conservatrice. Rompere con i progressisti o presunti tali è stato doloroso e costoso per tanti. «Non ci sono più rapporti. Credo che mi abbia totalmente cancellato», ha detto il giornalista e scrittore Giampiero Mughini a proposito del regista ed ex amico Nanni Moretti. E sempre lui, su Paolo Flores d’Arcais: «Era il mio migliore amico: oggi non mi saluta più». È una centrifuga infernale, visto che poi lo stesso Mughini si trovò a rimproverare il collega, oltre che senatore, Paolo Guzzanti: «Un ex amico, esecrabile per i suoi atteggiamenti da ultrà berlusconiano».

Dunque, il Novecento pare piuttosto quello – velenoso – emerso per i libri di Giampaolo Pansa, anche lui giornalista e scrittore (che a torto accusò Sciascia che se la prendeva con i «professionisti dell’antimafia»: e mai gli chiese scusa), attratto dalle ragioni e dai sentimenti dei fascisti e dei soldati di Salò. Giorgio Bocca uscì di sé: «Racconta frottole, e le racconta da quattro a cinque anni a questa parte perché ha capito che il clima è cambiato e cerca di cavalcarlo... robaccia e menzogne già scritte e riscritte». E rincarò: «Anche in questi tempi di opportunisti e voltagabbana, dovrebbe esserci un qualche limite, perlomeno di decenza e di dignità personale. Con questo libro, invece, Pansa si è voluto mettere in sintonia con gli istinti più bassi di un’opinione pubblica ottimamente rappresentata dal Cavalier Berlusconi». Questo il pulpito, e questa la predica. Nei confronti dei quali Pansa reagì: «Il mio vecchio amico Bocca, ex amico, ha detto che ero visceralmente anticomunista. Figuriamoci. Lui invece era visceralmente fascista, antiebreo, anzi antisemitico».
È l’eterno Novecento che non muore, e tiene vivi i livori fra Lino Jannuzzi ed Eugenio Scalfari, fra Scalfari e Marco Pannella, fra Pannella e Francesco Rutelli, un giorno sodali, e poi mortalmente divisi da Mario Pannunzio, o da Palmiro Togliatti, o da Bettino Craxi, o da Mani Pulite, o da Berlusconi. O, infine, da tutto e dal contrario di tutto. Come nel caso di un docente universitario, nonché leader di un partito politico che può svolgere il proprio congresso nello spazio di un ascensore, Diliberto, il quale deve avere il grimaldello della schifiltosità incorporato da qualche parte nell’apparato cerebro-olfattivo, se è vero, come è vero, che lo mette in moto ad alta frequenza, esprimendosi (senza annusarsi preventivamente) con una raffinatezza da conte Tacchia: gli fa schifo Berlusconi (ancora lui!), come gli faceva schifo Oriana Fallaci.
Certo: insieme con le diatribe sul passato remoto e medio e recente, in particolare Mani Pulite ha raso al suolo un numero infinito di relazioni cameratesche, compresa quella dell’ex magistrato, e poi leader politico, Antonio Di Pietro, che spesso e volentieri andava a cena con l’ex sindaco di Milano e cognato di Craxi, Paolo Pillitteri, e con gli altri compagni e compari. Penso comunque alla tragedia socialista, arcinota, e la trovo sublimata da una lettera di Giuliano Ferrara a Claudio Martelli: «Che lei sia un bugiardo matricolato lo sappiamo dal tempo del Conto Protezione... Bugiardo malmostoso che non è altro, e viscido serpente con la pelle rifatta e senza nemmeno i sonagli... Non si metta mai più sulla mia strada, perché la corco: con le mie mani».


Le immagini. E le parole. Le parole di pietra. Come abbiamo potuto vedere – altro esempio drammatico, ma per le bronzee prese di posizione di molti politici, sociologi, editorialisti – con la riemersione delle bande armate. Oggi non c’è il magma conflittuale dei vecchi anni di piombo: il lavoro è profondamente cambiato, i servizi e il terziario avanzato pesano più della fabbrica di tipo fordista, e la nuova forza-lavoro è per lo più atipica e comunque difficile da organizzare anche dal punto di vista sindacale, figurarsi se sia possibile farlo dal punto di vista della lotta armata. Ma allora, perché slogan e simpatie combattenti si riproducono, tornano in scena, risalgono come neolitici serpenti marini?

Sostiene Lanfranco Pace: – Un tempo si diceva che c’era l’album di famiglia, il ramo storto dell’albero comunista. Oggi è fuori luogo parlare di album, ma di cultura comune no. L’affinità nel linguaggio e nello sguardo con cui ci si ostina a vedere le cose esiste... Se si provasse a fare astrazione da depositi e santabarbare e ci si concentrasse sugli argomenti, le parole, i giudizi, le simpatie o gli odi di questi nuovi brigatisti... saremmo sicuri di essere di fronte ad alieni? O al contrario, a persone che hanno la stessa forma mentale dei tanti capi e sottocapi e dirigenti dei frammenti del comunismo italiano? [...] Quando si dice sistematicamente che gli Stati Uniti e Israele sono le grandi minacce alla pace nel mondo, quando si dice che tutto va sempre male, che il capitalismo è la macchina che tritura i poveri e arricchisce i ricchi, quando si ha anche un’idea non proprio definitiva della democrazia, ma si insiste sui suoi limiti, quando si trattano gli avversari da nemici e non si ammette minimamente che anche altri possano aver agito bene o avere scampoli di ragione, quando insomma si crede ancora che per capire il mondo ci voglia una chiave di lettura, come stupirsi se uno su un milione s’incazzi e provi pure a prendere le armi? Suvvia, ministro (dell’Interno, N.d.R.) Amato, per stupirsi dei ritardatari dell’altro secolo, di quelli che parlano del mondo scomparso, non c’è bisogno di andarli a stanare tra le brume del Nord: basta smettere di far finta di non sentire, il venerdì, in Consiglio dei Ministri o di non riflettere su quel che si dice, un giorno sì e l’altro pure, negli show, negli “speciali”, nelle interviste, nelle dichiarazioni rilasciate in tv e puntualmente riecheggiate sui quotidiani, per il trionfo della più stolta e insolente – anche per deficienza di caratura umanistica delle parole-clava – pochezza intellettuale.
Restiamo in tema di terroristi rossi e delle scorciatoie concettuali con cui li si definisce, discettando di “follia”, di “delirio collettivo”, o – per chi esercita la miglior fantasia – di «giapponesi sorpresi nella giungla di Iwo Jima due decenni dopo la fine della guerra», senza tener conto che si tratta di qualcosa di molto più grave, vale a dire di ripetizione, di sclerosi mentale, di parole ricevute.
Noi abbiamo sugli italiani contemporanei un giudizio completamente sbagliato. Li giudichiamo mobili, capricciosi, cangianti, ricchi di immaginazione, bugiardi, divertenti, come li definivano i francesi trent’anni fa, quando esaltavano “les italiens”. Almeno per la maggior parte di noi è un giudizio falso. Ad esempio: il cosiddetto Sessantotto è stato inventato in Francia e in Germania, dove produsse molte scemenze, qualche trovata spiritosa, barricate, insulti alla borghesia e alle forze di polizia, e (in Germania) alcune vittime. Poi venne dimenticato. E gli scrittori francesi e tedeschi che allora si ubriacavano di Marcuse, di Mao e di Khomeini ora leggono con lo stesso entusiasmo Agostino, Pascal, i taoisti, i buddisti, i gesuiti, e vanno a vedere le mostre di Klee, di Monet, di Matisse, di Bonnard, di Caravaggio… Secondo un luogo comune immarcescibile, francesi e tedeschi dovrebbero essere popoli rigidi: in realtà, hanno cambiato e cambiano opinioni, idee, fantasie. Persino i cinesi, che venerano Confucio da duemila e cinquecento anni, in poco tempo si sono in grandissima parte trasformati.
Noi, per niente. Come ha scritto un progressista rigoroso, Pietro Citati, gli italiani di oggi amano in primo luogo la materna ripetizione, la funebre sclerosi, la sinistra parola ricevuta: «Le parole che ascoltiamo dagli sciocchi di sinistra del 2007 sono quasi le stesse che ascoltavo nel 1948, cinquantanove anni fa: sono le stesse blaterate nei cortei degli anni Sessanta e nei cosiddetti scritti teorici delle antiche Brigate Rosse. C’è stata soltanto qualche piccola variante di stile e di psicologia. Un uomo cambia molte volte nella propria vita... Possibile che il linguaggio di un terrorista non cambi mai? Che la loro mente, persino quella di un giovane, sia completamente pietrificata? Che restino incessantemente eguali a se stessi, mentre le immodificabili stagioni si allungano, si scaldano, si raffreddano, si intiepidiscono, si adombrano, esplodono?».
Solo che non si tratta solo del linguaggio degli estremisti e delle bertucce che con loro simpatizzano. La malattia è la stessa che, da due o tre decenni, contamina l’intera vita pubblica e privata italiana: industriali, politici, scrittori, giornalisti, avvocati, economisti, sindacalisti, professori... Oggi l’Italia è diventata un tediosissimo Paese di burocrati, mentre dalla metà degli anni Cinquanta alla metà degli anni Sessanta era un Paese vivace e creativo. Sostenendo di ignorare le cause del disastro, e accusando la scuola e l’università di essere i cuori della sclerosi nazionale, Citati scrive che si sente dappertutto un profumo di morte: soprattutto nelle parole, che non hanno più nessun rapporto con le cose, ma sono ogni giorno più cifrate, convenzionali, astratte, incomprensibili, insignificanti: «Temo che non ci sia nessuna speranza. Temo che morirò con le orecchie piene di parole che ho ascoltato per tutta la vita».
Il repertorio dei motivi che hanno determinato questo stato di cose è leggibile in chiaro: sono venute meno, storicamente, le riforme, quelle autentiche, non quelle gattopardesche che continuano ad esserci ammannite; e per questa ragione i riformisti di tutte le latitudini nostrane e di tutti i colori sono – come accusa Giuliano Ferrara – «immersi in un mare di frustrazione, di impotenza, di velleitarismo», e versano «in uno stato di abbandono, di inconcludenza», e dunque sono costretti «alla petulanza, alla pubblicistica prepolitica e sentimentale, alla nostalgia di quel che poteva essere e non fu...».
Che l’Italia sia immobile per natura, mentre cambia pelle ogni minuto con le sue notissime rivoluzioni passive, e che sia inutile governarla nel senso anglosassone e occidentale, o anche soltanto europeo del termine, è solo un aspetto – sia pur rilevante – della questione. Il punto nodale è che le vere riforme si fanno a condizione che esistano una cultura diffusa che le accoglie e un’autorità forte che le dispone. Senza una guerra culturale che cambi di segno il modo di vita ubiquo e ipocrita accettato dagli italiani non si combina nulla di nulla. Le riforme come chiacchiere salottiere, come esercizi retorici e ininfluenti si hanno quando le parole importanti perdono di significato. E da noi, per motivi radicali e di lunga durata storica, di parole importanti che abbiano conservato un senso ce ne sono ormai ben poche.
Come al solito, non è una questione di valori, «espressione – dice Ferrara – spesso ambigua e intinta nel moralismo». È questione di criteri: se uno di questi deve essere la responsabilità, è necessario che la gente «accetti la mobilità, la competizione, che l’intimismo solidale delle vite di cui raccontano il nostro cinema e la nostra romanzeria sia integrato da un’apertura all’epica, alla storia, all’idea di cittadinanza, di nazione, di mondo e di identità».
Se un altro criterio di vita deve essere la libertà, è necessario che si prenda coscienza dei modelli di esistenza prevalenti. Noi invece stiamo consumando il senso stesso della famiglia, ma non per emergere come liberi individui di una società responsabile, che è il terreno di coltura delle riforme e dei grandi e profondi cambiamenti che i riformisti sinceri predicano: al contrario, ci teniamo il peggio del familismo, vale a dire una vaga e blanda, quanto coattiva ideologia solidarista, e della famiglia rifiutiamo ciò che davvero importa, il carattere di istituzione votata all’educazione delle generazioni, alla trasmissione del passato in un presente che prepara il futuro.
Ci vuole un po’ di fantasia politica. Ci vuole un progetto autorevole. Ci vuole un po’ di coraggio nell’andare alla sostanza delle cose. Il parlottio italiano, invece, sembra eterno e perciò ha qualcosa di surreale. Mentre per far cessare le intifade con parole pietrificate non si devono “aprire tavoli”, come si dice con un’ennesima espressione lapidea adatta ai maligni costruttori di tutti gli immobilismi: bisogna affrontare lo scalone e salire i gradini, difendendo quel poco di riformismo che c’è stato, e quello possibile, metodologico, che da noi sembra non dover arrivare mai.
Che l’essere umano possa sentirsi solo in un mondo difficile, e abbandonato dai suoi simili proprio quando è da questi più attorniato, dovremmo saperlo bene: lo abbiamo imparato quando abbiamo studiato l’estenuarsi del mondo pagano, sul tramontare della civiltà romana, e quando i cristiani assorbirono quell’ansia estenuata dando alla fede la straordinaria forza delle proprie forme e dei propri riti. Era il secondo o il terzo secolo, e in Europa non c’era mai stata tanta miseria. Fu il Cristianesimo a comprendere questa sofferenza e a portarla sulle spalle. Senza disperazione dell’uomo non ci sarebbe stato Cristianesimo. Se la disperazione venisse meno, torneremmo al paganesimo, sostengono grandi studiosi dei primi cristiani, come Eric Dodds e André-Jean Festugière.
Ripercorrere l’era del primo Cristianesimo è importante, perché essa è molto simile alla nostra, che però è contraddistinta dal primato delle istituzioni “laiche”: stessa sensazione di declino, identica solitudine di individui privi di protezioni giuridiche, analogo sovvertimento del lavoro e dell’economia, e uguale sete di riconoscimento da parte di genti e terre che sono, o ritengono di essere, nell’abbandono. E oggi vediamo riapparire nel mondo lo stesso essere umano, derelitto, come l’aveva descritto Epitteto in un terribile passaggio dei suoi “Discorsi”: «Lo stato di disperazione solitaria è la condizione di chi è senza aiuto. Giacché (a Roma) non siamo derelitti soltanto se siamo soli, allo stesso modo in cui un uomo tra la folla non cessa necessariamente di esser derelitto. Non è la vista di un essere umano in quanto tale che mette fine alla nostra condizione di derelizione, ma la vista di un essere umano fiducioso, modesto, desideroso d’aiutare».
È questo che le istituzioni faticano a fare: a riconoscersi, al cospetto dell’uomo che ancora una volta si sente solo, “eremos”. “Eremos” è colui cui manca qualcosa di fondamentale, e ne è devastato. La parola ha anche un significato giuridico: un processo è “eremos” se non c’è il difensore. Questa mancanza e questa solitudine sono un altro feroce prodotto delle parole-pietre e dell’immobilismo italico, che ci hanno imprigionato in un mondo affannoso, cinico, “eremitico”, in cui trova difficile vivere un giovane che voglia edificare il futuro senza sentirsi, come l’uomo di Epitteto, privo di riconoscimento e di aiuto giuridico. C’è la difficoltà di trovar casa, dunque di separarsi dalla famiglia; c’è la lunga e in non pochi casi irrisolvibile precarietà del lavoro, che complica i progetti di mettere al mondo un figlio; c’è lo scarso o nullo riconoscimento del merito, che priva di energia e di volontà chi, pur avendo le carte in regola, sente venir meno la spinta propulsiva alla corretta competizione; c’è un senso crescente di scacco, che distoglie dai sogni perché trionfano l’effimero e l’occasionale, e perché il rischio dell’esclusione spesso ha la meglio sulla certezza del patto.
E intanto, rinunciando alla ricerca di una moderna età dell’oro, di un’isola che ci sia, insomma di un nome almeno decente da dare al futuro, continuiamo a tenerci un Paese malato, soccorso con trasfusioni ad effetto placebo, perché nessuno ha intenzione di rifarlo nuovo. Neanche per quel tanto, o per quel poco, che durano le cose mortali.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2007