Marzo 2007

Geo-poesia

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L’Italia in versi
Ada Provenzano - Giorgio Franciosa - Elisa Minerva
 
 

 

 

 

Può ancora
la poesia fissare per sempre la
memoria di un luogo? Sì, almeno nel nostro
immaginario, perché spetta
a noi ricordare che Lecce è di Bodini, Trieste è di Saba, Genova e il
Levante sono di Montale e Pescara è di D’Annunzio...

 

 

Era capitato questo: che una docente di Letteratura italiana, avendo deciso di leggere una poesia a settimana, nel tentativo di far riscoprire agli allievi quel che i programmi del Ministero competente quasi del tutto trascuravano, stava proponendo un componimento di Vittorio Bodini, quando, assalita da una legittima quanto perfida suspicione, chiese: «Ma voi sapete dov’è Lecce, vero?». Avendosi in cambio le risposte più insospettabili e strampalate: il capoluogo salentino, secondo gli alunni, era in Calabria, o in Sicilia, o in Abruzzo, o in Sardegna, o in casa del diavolo. Ovunque, meno che in fondo alla Puglia, luogo dal quale non si era eradicato dai secoli dei secoli, per trasferirsi in qualche altro angolo della Penisola.

La vicenda, in realtà, risale a un po’ di anni addietro. Oggi, probabilmente, capiterebbe di peggio, ascoltando alunni che frequentano scuole che “sperimentano”, che “fanno didattica”, che si interessano di educazione stradale, di educazione (?!) sessuale, e di chissà che altro, ma che non “insegnano”, e soprattutto non insegnano con passione. Perché c’è una minoranza di docenti che crede strenuamente nella geografia della poesia, nella ricerca dei luoghi nei quali la poesia ha lasciato un’impronta di sé; e nel possibile coinvolgimento dei giovani, che sanno tutto dei cantautori, dei gruppi musicali, delle soap, dei grandi e piccoli fratelli, delle squadre di calcio e dei gossip amorosi dei calciatori, ma che non hanno mai mandato a memoria qualche verso, e non sono in grado di collocare al posto giusto le città italiane.

Poesie legate ai luoghi: una parte indispensabile, una volta, del più ampio gruppo di versi da ricordare, com’è capitato alla nostra generazione, che si è formata certamente sull’Atlante, ma molto di più proprio sulla poesia. Recanati era il Leopardi; così come San Mauro di Romagna, Castelvecchio e Barga erano il Pascoli. E sarà stata pure non facile la poesia del Carducci, ma quel pullulare di luoghi vivificati dal “poeta-vate” ci ha fatto fare, letteralmente, il giro d’Italia, da Courmayeur al Busento.

Così come al liceo ci fu per noi la scoperta della veemenza onomastico-geografica di Dante, non solo nelle invettive contro le città rivali, Pisa (Ahi Pisa, vituperio de le genti / del bel paese là dove ‘l sì suona, / poi che i vicini a te punir son lenti, / muovasi la Capraia e la Gorgonia, / e faccian siepe ad Arno in su la foce, / sì ch’elli anneghi in te ogne persona!), Lucca, Pistoia, Siena, ma anche negli autentici pezzi di bravura delle aperture paesistiche. Basti ricordare la Ravenna del canto di Francesca (Siede la terra dove nata fui / su la marina dove ‘l Po discende / per aver pace co’ seguaci sui). O i magnifici cortocircuiti di un solo verso (Siena mi fe’, disfecemi Maremma), (Pia dei Tolomei).



Può ancora la poesia (e non solo quella grande; si pensi a Voze, che sciacqui al sole la miseria, che Camillo Sbarbaro dedica al microscopico paese sopra Noli, nel Ponente ligure; oppure alla “Spigolatrice di Sapri”, del poeta risorgimentale Luigi Mercantini) fissare per sempre la memoria di un luogo? Certamente, almeno nel nostro immaginario. Perché spetta a noi ricordare che Lecce è di Bodini, come Trieste è di Saba, Genova e il Levante sono di Montale, e Pescara è di D’Annunzio.
Fuor di dubbio: le città non saranno più, oggi, le stesse dei poeti, quelle d’un tempo, e le vie e le piazze – allo stesso modo – saranno diverse da allora. L’ungherese Via Pal, che incantò milioni di giovanissimi lettori d’ogni angolo del pianeta, ora è irriconoscibile, e non poteva essere che così, perché la forma di una città o di una via, ahinoi, cambia più in fretta del cuore dell’uomo. Ma è bene ricordare che non viviamo in un eterno presente. E che custodire dei versi nella memoria è, per chi li apprende, un bene prezioso.

L’Italia, intanto. Che in alcune componenti regionali collegate all’Europa e al Mar Mediterraneo è citata da Cielo (o Ciullo) d’Alcamo, (Cercat’aio Calabria / Toscana e Lombardia, / Puglia, Costantinopoli, / Genoa, Pisa e Sorìa, / Lamagna e Babilonia – (e) tutta Barberia: / donna non (ci) trovai tanto cortese, / per che sovrana di meve te prese). O che stimola l’afflato poetico di un Luciano Folgore (Italia: / parola azzurra / bisbigliata sull’infinito / da questa razza adolescente, / ch’ha sempre / una poesia nuova da costruire / una gloria nuova da conquistare. // Italia: / primavera di sillabe / fiorite come le rose dei giardini / peninsulari, / stellata come i firmamenti del Sud / fatti con immense arcate blu. // Italia: / nome nostro e dei nostri figli / via maestra del nostro amore / rifugio odoroso dei nostri pensieri, / ultimo bacio sulle nostre palpebre / nel giorno che la morte / serenamente verrà); o quello – più lirico – di Sibilla Aleramo (Ulivi e pioppi d’argento / e frumento / nel sole – / il mare abbaglia / alto il monte s’erge / e rude verso l’azzurro, / marmorea cima – / di marmi un carro scende / bianco, / bianco abbagliante passa / tra gli ulivi e i pioppi d’argento / e il frumento, / nel sole...).
Mentre alla visione idilliaca di Luigi Orsini (O Patria, parola sì breve, / sì grande tra tante parole, / che brilli di foco e di neve, / e odori di scogli e di aiuole; / che stringi in fervido accordo / le genti vicine e lontane, / e chiami alla prece e al ricordo / con voce di mille campane; / o Patria sii tu benedetta / per ogni remota contrada…) si contrappone il canto disperato di Giacomo Leopardi (O patria mia, vedo le mura e gli archi / e le colonne e i simulacri e l’erme / torri degli avi nostri, / ma la gloria non vedo, / non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi / i nostri padri antichi. Or fatta inerme, / nuda la fronte e nudo il petto mostri...).

E culmina il “Canto d’amore” per la nostra terra madre con i versi del poeta-vate, Giosuè Carducci (Da i vichi umbri che foschi tra le gole / de l’Appennino s’amano appiattare; / da le tirrene acropoli che sole / stan su i fioriti clivi a contemplare; // da i campi onde tra l’armi e l’ossa arate / la sventura di Roma ancor minaccia; / da le rocche tedesche appollaiate / sì come falchi a meditar la caccia; // da i palagi del popol che sfidando / surgon neri e turriti incontro a lor; / da le chiese che al ciel da lunghe levando / marmoree braccia pregano il Signor; // da i borghi che s’affrettan di salire / allegri verso la cittade oscura, / come villani c’hanno da partire / un buon raccolto dopo mietitura; // da i conventi tra i borghi e le cittadi / cupi sedenti al suon de le campane, / come cucùli tra gli alberi radi / cantanti noie ed allegrezze strane; // da le vie, da le piazze gloriose, / ove, come del maggio ilare a i dì / boschi di querce e cespiti di rose, / la libera de’ padri arte fiorì; // per le tenere verdi messi al piano, / pe’ vigneti su l’erte arrampicati; / pe’ laghi e’ fiumi argentei lontano, / pe’ boschi sopra i vertici nevati, // pe’ casolari al sol lieti fumanti / fra stridor di mulini e di gualchiere, / sale un cantico solo in mille canti, / un inno in voce di mille preghiere: // – Salute, o genti umane affaticate! / tutto trapassa e nulla può morir. / Noi troppo odiammo e sofferimmo. Amate. / Il mondo è bello e santo è l’avvenir...).

“Dalle Alpi alle Piramidi, / dal Manzanarre al Reno…”: la corona di monti come confine naturale della Penisola, oltre la visione manzoniana, nei versi di Giovanni Bertacchi (La catena dell’Alpi in ampio giro / variata di nevi e di pinete / in vallate profonde, ecco, s’adima. // E vagabonda d’una ad altra cima, / solca una nube l’immortal quiete / della nitida volta di zaffiro…). E al Carducci si deve tornare, per i versi che dedica alle due regioni sentinelle occidentali della Penisola un suo canto fitto di nomi di città (...Salve, Piemonte! A te con melodia / mesta da lungi risonante, come / gli epici canti del tuo popol bravo, / scendono i fiumi. // Scendono pieni, rapidi gagliardi, / come i tuoi cento battaglioni, e a valle / cercan le deste a ragionar di gloria / ville e cittadi: // la vecchia Aosta di cesaree mura / ammantellata, che nel varco alpino / éleva sopra i barbari manieri / l’arco di Augusto: // Ivrea la bella che le rosse torri / specchia sognando a la cerulea Dora / nel largo seno, fosca intorno è l’ombra / di re Arduino: // Biella tra ‘l monte e il verdeggiar de’ piani / lieta guardante l’ubere convalle, / ch’armi ed aratri e a l’opera fumanti / camini ostenta: // Cuneo possente e paziente, e al vago / declivio il dolce Mondovì ridente, / e l’esultante di castella e vigne / suol d’Aleramo; // e de la Superga nel festante coro / de le grandi Alpi la regal Torino / incoronata di vittoria, ed Asti / repubblicana. // Fiera di strage gotica e de l’ira / di Federico, dal sonante fiume / ella, o Piemonte, ti donava il carme / novo d’Alfieri. // Venne quel grande, come il grande augello / ond’ebbe nome; e a l’umile paese / sopra volando, fulvo, irrequieto, / – Italia, Italia – // egli gridava a’ dissueti orecchi, / a i pigri cuori, a gli animi giacenti: / – Italia, Italia – rispondeano l’urne / d’Arquà e Ravenna:… // Sotto / il ferro e il fuoco del Piemonte, sotto / di Cuneo ‘l nerbo e l’impeto d’Aosta / sparve il nemico. // Languido ‘l tuon de l’ultimo cannone / dietro la fuga austriaca moria: / il re a cavallo discendeva contra / il sol cadente; // a gli accorrenti cavalieri in mezzo, / di fumo e polve e di vittoria allegri, / trasse, ed un foglio dispiegato, disse / resa Peschiera… // E lo aspettava la brumal Novara / e a’ tristi errori meta ultima Oporto...).

Città-simbolo dell’industria, Torino. Eppure capace di ispirare versi su versi, da quelli di Cesare Pavese (Fin che ci saran nuvole sopra Torino / sarà bella la vita. Sollevo la testa / e un gran gioco si svolge lassù sotto il sole. / Masse bianche durissime e il vento vi circola / tutto azzurro – talvolta le disfa / e ne fa grandi veli impregnati di luce. / Sopra i tetti, a migliaia nuvole bianche / copron tutto, la folla, le pietre e il frastuono…) a quelli di Guido Gozzano (Come una stampa antica bavarese / vedo al tramonto il cielo subalpino… / Da Palazzo Madama al Valentino / ardono l’Alpi tra le nubi accese... / È questa l’ora antica torinese, / è questa l’ora vera di Torino...).
Ancora dei versi di Pavese sul capoluogo piemontese (Le colline e le rive del Po sono un giallo bruciato / e noi siamo saliti quassù a maturarci nel sole... / Si respira un sentore di terra e, di là dalle piante, / a Torino, a quest’ora, lavorano tutti in prigione... / Tanto bella sarebbe Torino – poterla godere – / solamente poter respirare. Le piazze e le strade / han lo stesso profumo di tiepido sole / che c’è qui tra le piante. Ritorni al paese. / Ma Torino è il più bello di tutti i paesi...). E altri di Gozzano su un’altra città emblematica dell’industria (un giorno) all’avanguardia (E Ivrea rivedo e la cerulea Dora / e quel dolce paese che non dico). Mentre Sergio Solmi dedica il canto alla città delle risaie, Vercelli (Ora sbiancata e inutile, cristallo / vano di mezzogiorno, in cui deambulo / sotto gli enormi alberi violetti / portando in giro un’ombra stanca, ora / della mia vita...).

Domodossola, infine. Cantata con vividi accenti da Severino Ferrari (Cantò il gallo; andò la voce / a ripercuotere la valle; / vi risposero sul Toce / strisce bianche, strisce gialle, / fischi, fruste, bussi e crocchi… // Sorge il sole e l’odorosa / Domo in braccio ei tosto accoglie. / Domo è il giallo d’una rosa / di cui l’Alpi son le foglie. // Nella tiepida carezza / del ricordo, o Domo bella, / il tuo seno fulge e olezza / fiore spada incenso e stella).

Dai massicci montani, al mare. Ed è subito Liguria, terra di Vincenzo Cardarelli (È la Liguria una terra leggiadra. / Il sasso ardente, l’argilla pulita, / s’avvivano di pampini al sole. / È gigante l’ulivo. A primavera / appar dovunque la mimosa effimera. / Ombra e sole s’alternano / per quelle fonde valli / che si celano al mare… / O chiese di Liguria, come navi / disposte a esser varate! / O aperti ai venti e all’onde / liguri cimiteri! / Una rosea tristezza vi colora / quando di sera, simile a un fiore / che marcisce, la grande luce / si va sfacendo e muore). Mentre alla terra savonese dedica un’elegante lirica Aldo Capasso (Se dall’oscuro nido / io m’affaccio, mi perdo. Su la nera / coppa di questa terra mormorante / un fluido globo turchino contiene / sciami di stelle; creature acquatili, / si levano e s’abbassano nel liquido / cielo e le più remote / sono un tremito chiaro. Questi fruscii / secretissimi giungono dagli astri / che nuotano tranquilli? Pe’ miei occhi / la visione marina della notte / nel cuore entra e lo colma di frescura / come le grotte brune / dove s’è insinuata la marea).

Genova del Carducci, poi (Qual da gli aridi scogli erma su ‘l mare / Genova sta, marmoreo gigante). E quella delle folgoranti immagini di Giorgio Caproni (Mia Genova difesa e proprietaria. / Ardesia mia. Arenaria... // Genova mia di sasso. Iride. Aria...). Angiolo Silvio Novaro distilla versi romantici per il suo paese natale, Diano Marina (Freschezza azzurra, / effusa chiarità, / luce infinita / da non so quale / miracolo esplosa, / silenzio / a pace / si sposa. // Un veliero / su le tremule / acque senz’orme / con l’ali aperte / incantato / dorme. // Né foglia né fiore / nel bosco / si move...). Bellissima, poi, la visione dell’adriatico (e salentino d’elezione) Giovanni Bernardini (Dalle Apuane alla Liguria / una celeste chiarità dell’aria, / il Magra increspa mille scaglie d’argento / intorno a una canoa solitaria / e corre con le sue lunghe dita / a toccare / il mare). Da ultimo, Portovenere, sempre appartenuta ai poeti, da Byron e da Shelley a Montale, che la ricorda in “Ossi di seppia” (Là fuoriesce il tritone / dai flutti che lambiscono / le soglie d’un cristiano tempio, / ed ogni ora prossima è antica. / Ogni dubbiezza / si conduce per mano / come una fanciulletta amica...).

Il Nord occidentale è in tanta parte memoria risorgimentale, come forte memoria storica evoca la Lombardia. “Marzo 1821” del Manzoni ha un largo afflato geografico, oltre che poetico (Soffermati sull’arida sponda, / volti i guardi al varcato Ticino, / tutti assorti nel nuovo destino, / han giurato: non fia che quest’onda / scorra più tra due rive straniere; / non fia loco ove sorgan barriere / tra l’Italia e l’Italia, mai più!... // Chi potrà della gemina Dora, / della Bormida al Tanaro sposa, / del Ticino e dell’Orba selvosa / scerner l’onde confuse del Po; / chi stornargli del rapido Mella / e dell’Oglio le miste correnti, / chi ritogliergli i mille torrenti / che la foce dell’Adda versò...). Tema del giuramento ricorrente in Giovanni Berchet (L’han giurato. Gli ho visti in Pontida / convenuti dal monte, dal piano. / L’han giurato, e si strinser la mano / cittadini di venti città...).

E Milano è l’emblema dell’Italia moderna, città che dà alla Penisola una voce per parlare al mondo contemporaneo, fucina di idee e di ciminiere, come ci ricorda Elio Pagliarani (La civiltà si è trasferita al nord / come è nata nel sud, per via del clima, / quante energie distilla alla mattina / il tempo di febbraio, qui in città?... // È questo cielo contemporaneo / in alto, tira su la schiena, in alto ma non tanto / questo cielo colore di lamiera // sulla piazza a Sesto a Cinisello alla Bovisa / sopra tutti i tranvieri ai capolinea / non prolunga all’infinito / i fianchi le guglie i grattacieli i capannoni Pirelli / coperti di lamiera? // È nostro questo cielo d’acciaio che non finge / Eden e non concede smarrimenti / è nostro ed è morale il cielo / che non promette scampo dalla terra / proprio perché sulla terra non c’è / scampo da noi nella vita).

La Lombardia di Clemente Rebora (Campagna di Lombardia, / voce tua, voce mia, / voce voce che vai via / e non dai malinconia...). E quella di Salvatore Quasimodo nella celebre “Ora che sale il giorno” ( Finita è la notte e la luna / si scioglie lenta nel sereno, / tramonta nei canali. / È così vivo settembre in questa terra / come nelle valli del Sud a primavera...). Come quella dell’Adda, cantata da Sergio Solmi (E l’Adda riccioluta di spume, carica / di case attonite, di bianchi ponti / nel gonfio lume di luna: dall’erma / pergola i fiati della notte, i baci, / il vino, le liete parole...). E quella dei laghi: il Lago Maggiore, a Luino, di Vittorio Sereni (Sotto i miei occhi portata dalla corsa / la costa va formandosi immutata / da sempre e non la muta il mio rumore / né, più in fondo, quel repentino vento che la turba / e alla prossima svolta, forse, finirà: / E io potrò per ciò che muta disperarmi / portare attorno il capo bruciante di dolore... / ma l’opaca trafila delle cose / che là dietro indovino: la carrucola nel pozzo, / la spola della teleferica nei boschi, / i minimi atti, i poveri / strumenti umani avvinti alla catena / della necessità, la lenza / buttata a vuoto nei secoli, / le scarse vite che all’occhio di chi torna / e trova che nulla nulla è veramente mutato / si ripetono identiche, / quelle agitate braccia che presto ricadranno, / quelle inutilmente fresche mani / che si tendono a me...); lo stesso lago, sempre di Vittorio Sereni (Ti distendi e respiri nei colori. / Nel golfo irrequieto, / nei cumuli di carbone irti al sole / sfavilla e s’abbandona / l’estremità del borgo. / Colgo il tuo cuore / se nell’alto silenzio mi commuove / un bisbiglio di gente per le strade. / Morto in tramonti nebbiosi d’altri cieli / sopravvivo alle tue sere celesti, / ai radi battelli... // Fuggirò quando il vento / investirà le tue rive; / sa la gente del porto quant’è vana / la difesa dei limpidi giorni. / Di notte il paese è frugato dai fari, / vaganti nella campagna, / un fioco tumulto di lontane / locomotive verso la frontiera...); e quello di Eupili, il Lago di Pusiano, presso Bosisio, luogo natale di Giuseppe Parini (Oh beato terreno / del vago Eupili mio, / ecco al fin nel tuo seno / m’accogli; e del natio / aere mi circondi; / e il petto avido inondi… // Però ch’austro scortese / qui suoi vapor non mena: / e guarda il bel paese / alta di monti schiena / cui sormontar non vale / borea con rigid’ale. // Né qui giaccion paludi / che da lo impuro letto / mandino a i capi ignudi / nuvol di morbi infetto: / e il meriggio a’ bei colli / asciuga i dorsi molli. // Pera colui che primo / a le tristi oziose / acque e al fetido limo / la mia cittade espose; / e per lucro ebbe a vile / la salute civile...).


Giovanni Raboni vede Milano dall’alto (Queste strade che salgono alle mura / non hanno orizzonte, vedi: urtano un cielo / bianco e netto, senz’alberi, come un fiume che volta... / però più giù, nel / fondo della città / divisa in quadrati (puoi contarli) e dolce / come un catino… e poco più avanti / la cattedrale, di cinque ordini sovrapposti: e proseguendo / a destra, in diagonale, per altri / trenta o quaranta passi – una spanna: continua a leggere / come in una mappa imbrocchi in pieno l’asse della / piazza / costruita sulle rocciose fondamenta del circo / romano / grigia ellisse quieta dove / dormono o si trascinano enormi, obesi, ingrassati / come capponi, rimpinzati a volontà / di carni e Borgogna purché non escano dalla piazza! i / poveri / della città. A metà tra i due fuochi / lì, tra quattrocento anni / impiantano la ghigliottina).

Mentre Antonio Porta la vede dal basso (dalla città l’asfalto lievita / diventa ancora più impermeabile / sopra ci battono le suole di ferro le gambe di legno / le pareti si avvicinano si richiudono a libro / rimangono passaggi sottili che il vento tiene aperti / sbucano le canne delle pistole). È orizzonte provvisorio per l’emigrato Lucio Romano (Né il giorno è mio, né l’ora / né l’attimo della metropoli. / Vedo fiumane d’anime / ogni ora con volti di nebbia / scarpe stanche di fughe / fiumane d’anime senz’anima / come mare seccato / involucro vuoto. // La mia anima è fatta galleria: / per questo se passa qualcuno / odo solo un lamento). Ed è nostalgia per i versi raffinati di Sandro Penna (Di febbraio a Milano / non c’erano le nebbie. / Ma numerosi sciami di ciclisti / andavano nel sole silenziosi. / E li fermava come in una gara / sospesa il suonatore siciliano).
Pavia, città di viva cultura, baricentro dell’attività della lombardo-salentina Maria Corti. E luogo d’elezione della poesia di Toti Scialoja (Nei vapori del parco di Pavia / i pallidi pavoni si allontanano / a passo di pavana e vanno via...). Mentre è Lento Goffi a cantare una Brescia ricca e decadente (Tutto è come allora o poco mutato: / qualche crepa come ruga / nei muri delle case; / più logori i selciati; / annerite le pietre dei portali / ove mostri perpetuano l’agguato; / eguale lo scatto e il volo / dei colombi, se voce o passo incrina / la calma del meriggio...).

Arnaldo Fusinato non ha più ragione di alzare al cielo il suo lamento per il destino di Venezia (È fosco l’aere / il cielo è muto, / ed io sul tacito / veron seduto, / in solitaria malinconia / ti guardo e lacrimo / Venezia mia). Altre città sono tornate irredente: mezza Gorizia, e Pola, Capodistria, Fiume… Può cantare Venezia con la consueta sincerità Diego Valeri (Avviluppata in un roseo velo, / sta con sue chiese, palazzi, giardini, / tutta sospesa tra due turchini, / quello del mare, quello del cielo. // “e stanco, / d’un chiuso lume come la perla; // ma nei tramonti rossi, affocati, / è un’arca d’oro, ardente, raggiante, / nave immensa veleggiante / a lontani lidi incantati...). Possono cantarla Antonio Porta (La città è solo sfiorata dai gabbiani / virano a distanza e si tuffano all’indietro / ma è la sua luce interna e esterna a sorreggerla / insieme alle acque che la cinturano e la penetrano / mai utero fu così intestinale e intestino / così uterino alla luce del sole nuovo della sua vecchiezza / sta per cancellarsi e dei vuoti palazzi sopra gli specchi / rimangono scaglie di marmo che il vento soffia via...); e Costantino Nigra (Lenta su l’auree cupole / posa la mesta luna; / è muta la laguna, / è senza vele il mar. // ... in riva all’Adria / povera, ignuda, esangue / geme Venezia e langue, / ma è viva... e aspetta ancor); e Vincenzo Cardarelli (L’alito freddo e umido m’assale / di Venezia autunnale. / Adesso che l’estate, / sudaticcia e sciroccosa, / d’incanto se n’è andata, / una rigida luna settembrina / risplende, piena di funesti presagi, / sulla città d’acqua e di pietre / che rivela il suo volto di medusa / contagiosa e malefica… // Qui non i venti impetuosi e funebri / del settembre montanino, / non odor di vendemmia, non lavacri / di piogge lacrimose, / non fragore di foglie che cadono. / Un ciuffo d’erba che ingiallisce e muore / su un davanzale / è tutto l’autunno veneziano. / Così a Venezia le stagioni delirano...). E infine la città lagunare di Ercole Ugo D’Andrea (Dì una parola per l’acqua, / per le fioriere ed i colombi / che ci nutrirono i passi / e i remi bassi nei crepuscoli / bruni dell’onda, / dì una parola per l’oro / quintessenziato di quella città, / per il pulviscolo d’oro sulle acque / bronzee per il suono degli scafi...).

Zanzotto alza gli occhi su Padova (E c’era il ronzio d’un’acqua sporca / prossima, e d’una sporca fabbrica: / stupende nel silenzio. / Perché era notte...) e sulla natia trevigiana Soligo (Dove ultima delle mie pene / Soligo fosca si cimenta / al suo monte sdegnato dal cielo, / dove il fiume sussulta / e tenta col vano meandro / liberarsi dal melmoso autunno, / più vicino al tuo volto / al tuo corpo embrione aspro del sole: / là mi riscuoto, là rovescio la vita / mia, sonno infetto di terra, / là sei, vera pietra e vera terra / che arresta e stringe al muro i paesaggi; / e la fuliggine delle alluvioni / invola contro monte il mezzodì). Senza che manchi la voce del migrato da una terra che non conosce i fiumi, Salvatore Toma al cospetto dello storico corso d’acqua (Dolce come poggiando al suolo / la colomba che volava nel sole / sulle falde di Castelvecchio / e come un sogno / si lasciava cadere. / L’accoglieva l’Adige intanto / nel primo fresco del mattino. / E come un’onda / l’agitava al canto).

Città martire, Trento è regina delle Alpi, l’una e le altre presenti nei versi incantati di Alfonso Gatto (Bei monti della sera / azzurra è già l’Italia... // Così la chiara spera / dei monti a lungo ammalia / nei pascoli la sera...). E, al capo opposto, ma sul mare, Trieste, la città che si identifica con Umberto Saba (Trieste ha una scontrosa / grazia. Se piace, / è come un ragazzaccio aspro e vorace, / con gli occhi azzurri e mani troppo grandi / per regalare un fiore; / come un amore / con gelosia...).

E la regione fu terra d’origine degli Ungaretti, e dunque del poeta nato ad Alessandria d’Egitto, l’ermetico Giuseppe, che enumerò i fiumi (L’Isonzo scorrendo / mi levigava / come un suo sasso...), e rammentò i compagni caduti sul Carso nella Grande Guerra (Di queste case / non è rimasto / che qualche / brandello di muro. // Di tanti / che mi corrispondevano / non è rimasto / neppure tanto. // Ma nel mio cuore / nessuna croce manca. / È il mio cuore / il paese più straziato). Poi, il confine estremo. Quello di Sergio Corazzini, a Dobbiaco, (la chiama “Toblack”, dove fu in sanatorio): E quanto v’ha Toblack d’irraggiungibile / e di perduto è in questa tua divina terra, in questo tuo sole inestinguibile, / è nelle tue terribili campane, / è nelle tue monotone fontane, / Vita che piange, Morte che cammina). Ed è quello di Vittorio Locchi e della sua Gorizia finalmente conquistata (...Ancora tre minuti, / due minuti, / uno: “Alla baionetta!” – / E tutte le baionette / fioriscono sulle trincee. / Tutta la selva di punte / ondeggia, si muove, / si butta sul monte, / travolgendo gli Austriaci, / rigettandoli / oltre le cime, / scaraventandoli giù, / a precipizio / dentro l’Isonzo. / – Sei nostra! Sei nostra! – / sembra gridare l’assalto. / La città è apparsa, / apparsa a tutti nel piano, / dalle vette raggiunte, / e tende le braccia, / e chiama / lì, prossima, / tutta rivelata, / nuda e pura nel sole di ferragosto. / e libera! libera! / sotto la cupola celeste / del cielo d’Italia, / sotto le Giulie, / l’ultime torri / smaglianti della Patria).

Fascia il sud del Nord l’Emilia-Romagna. La doppia regione ha Ferrara di Corrado Govoni (Altissimi, per l’aria, dai bastioni / capriolano fantastici aquiloni. // Le rondini bisbigliano nel nido. / Un grillo dentro l’orto fa il suo strido. // Il cielo chiude nella rete d’oro / la terra come un insetto canoro) e Parma di Attilio Bertolucci (Dalla finestra aperta / entran le voci calme / del fiume, / i canti lontani / delle lavandaie / laggiù fra i pioppi e gli ontani, / presso la pura corrente / che mormora sì dolcemente / il fumo dei vapori / si confonde con quello delle case / sotto il riso trionfale / del cielo).
Irrompono due voci. Quella di Giovanni Pascoli, della leggenda (Romagna solatia, dolce paese, / cui regnarono Guidi e Malatesta, / cui tenne pure il Passator cortese / re della strada, re della foresta...) e dell’intimismo (Al mio cantuccio, donde non sento / se non le reste brusir del grano, / il suon dell’ore viene col vento / dal non veduto borgo montano: / suono che uguale, che blando cade, / come una voce che persuade. / Tu dici, È l’ora; tu dici, È tardi, / voce che cadi blanda dal cielo...); e infine quella di Giosuè Carducci, che canta la dotta Bologna (Surge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna, / e il colle sopra bianco di neve ride. // È l’ora soave che il sol morituro saluta / le torri e ‘l tempio, divo Petronio, tuo; // le torri i cui merli tant’ala di secoli lambe, / e del solenne tempio la solitaria cima. // Il cielo in freddo fulgore brilla; / e l’aer come velo d’argento giace // su ‘l foro, lieve sfumando a torno le moli / che levò cupe il braccio clipeato de gli avi. // Su gli alti fastigi s’indugia il sole guardando / con un sorriso languido di viola, // che ne la bigia pietra nel fosco vermiglio mattone / par che risvegli l’anima de i secoli...).

(1 - continua)

 

 

   
   
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