Marzo 2007

Arte primitiva in grotta

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Il colore dopo la parola
Tonino Caputo - Eugenio Rava
 
 

 

 

 

E quando fu
che l’uomo creò i primi rudimenti dell’arte, forse
nell’ingenuo
tentativo di
placare il furore dell’Ignoto
che scagliava
il fulmine
e inceneriva
le colline?

 

 

È possibile osservarli ancora oggi, per esempio tra i guerrieri della tribù degli Hamar, in Etiopia, che hanno il corpo decorato con pigmento bianco e con motivi curvilinei. Oppure tra gli aborigeni australiani, che da qualche tempo a questa parte hanno deciso di riappropriarsi della propria identità, come del resto stanno facendo i nativi americani, (dell’America del Nord, dal Canada agli Stati Uniti e al Messico), che celebrano ogni anno una sorta di giorno del ricordo e della rinascita, (o del riscatto), vestendo i panni dei gloriosi guerrieri pellerossa, le cui numerose tribù in buona parte potevano essere ricondotte al ceppo principale originario dei Lakota. O, infine, se si ha fortuna, è possibile incrociarne alcuni nella foresta amazzonica, dove sopravvivono piccole e anche piccolissime tribù di nativi rimasti isolati da secoli, uomini che ignorano tutto della nostra civiltà, dalla quale semmai sono stati ricacciati anno dopo anno sempre più all’interno dell’immenso polmone verde dell’America meridionale.
Stiamo parlando degli individui che anche ai nostri giorni usano dipingere il proprio corpo e decorare il proprio viso per un linguaggio simbolico che è stato un indubbio primitivo strumento di comunicazione fra esseri umani, e che da qualche decennio a questa parte è stato riscoperto dagli antropologi o richiamato in servizio dai discendenti di popoli desiderosi di riconquistare una perduta o smarrita o conculcata identità.
Il problema che si è posto, però, e che sembra aver trovato una ragionevole soluzione, è un altro: prima del colore doveva esser nata la parola. In altri termini, il linguaggio ha preceduto la decorazione corporale come mezzo di comunicazione tra individui e fra tribù. E la conferma di questa ipotesi ci è pervenuta da recenti scoperte, una delle quali ha un’importanza quasi decisiva, oltre a un fascino particolare, essendo del tutto inattesa, unica nel suo genere e anche per questo sempre più intrigante.

Stando alle ultime novità, dunque, noi parliamo da almeno duecentomila anni: ce lo raccontano nove “pastelli” di ocra di diversi colori che sono stati rinvenuti in una caverna dello Stato africano Zambia, a sud della sua capitale, Lusaka. Non solo: i primi a chiacchierare non fummo noi, esseri appartenenti all’Homo Sapiens, ma una specie umana che ci precedette e che poi si estinse, lasciandoci in eredità tanto la consuetudine di colorarci il corpo, quanto quella di comunicare per mezzo dell’articolazione delle parole. Autore della scoperta e sostenitore di uno stretto legame tra l’impiego del colore per scopi rituali e il linguaggio parlato è Lawrence Barham, dell’università britannica di Liverpool.
Da parecchi anni questo archeologo scavava nella caverna di Twin Rivers, quando, nel 2000, rinvenne un deposito di circa trecento frammenti di ocra di differenti colori: rosso, giallo, marrone, rosa, blu scuro e un altro rosso, speciale, inconsueto, perché mai rinvenuto altrove, una sorta di rosso-violaceo che in un ambiente buio emette una leggera fluorescenza. Nove di questi frammenti pastellati mostrano fitte striature sulla superficie: secondo lo studioso, sono segno evidente che furono utilizzati per dipingere, oppure che vennero sfregati su una qualche superficie ruvida al fine di ottenere polveri colorate.

La grotta, com’è dimostrato dagli studi sulla sua stratigrafia, fu utilizzata dagli uomini del Paleolitico tra i 300 e i 170 mila anni fa, ma gli strati che contenevano i trecento reperti si formarono intorno a 200 mila anni fa.
Secondo quanto sostiene l’archeologo britannico, se mettiamo in relazione i colori ritrovati con le attività del gruppo che li utilizzava è facile capire come il linguaggio entri a far parte dell’equazione. I rituali, come quelli collegati alla caccia oppure ai passaggi d’età degli individui, infatti, sono espressione di un sentire comune, hanno un senso riconosciuto dall’intera formazione umana che condivideva valori e regole di vita. Tutto questo presuppone una rete di relazioni consolidata e un fitto scambio di informazioni tra gli individui; condizioni che non possono essere realizzate, se non esiste il linguaggio parlato. È anche evidente che la pratica della pittura corporale è uno strumento fondamentale per l’affermazione dell’identità personale o dell’appartenenza a un gruppo.
In sostanza, dunque, secondo l’archeologo inglese la presenza dei coloranti è la prova indiretta ma chiara dell’esistenza – già 200 mila anni fa – di un linguaggio simbolico complesso, qual è quello pittorico, che non si sarebbe potuto formare senza l’impiego di un linguaggio parlato.
Il ritrovamento dei “pastelli” e le conclusioni che Barham ha tratto finiscono, in ultima analisi, con lo spostare all’indietro di almeno centomila anni due tappe fondamentali della nostra evoluzione culturale: l’insorgenza dell’espressione simbolica, che dette origine all’arte, e la preliminare nascita del linguaggio.
Fino a pochissimi anni addietro, infatti, queste due “soglie” venivano poste a non oltre quarantamila anni fa. Si ritenevano espressioni non tanto di arte, quanto di una devozione esclusivamente rituale alcuni ritrovamenti di manufatti risalenti, ad esempio, a 77 mila anni fa (un blocchetto di ocra con incisioni), oppure addirittura a 300-400 mila anni fa, come nel caso (unico) di una statuetta di dea madre, comunque di una figura femminile, approssimativamente sbozzata nella pietra cruda, e in ogni caso priva di qualsiasi colore, rinvenuta di recente in una regione marocchina.

Ma la splendida scoperta di Twin Rivers presenta anche un altro aspetto rivoluzionario. È stato accertato che nella grotta dello Zambia meridionale si avvicendarono due diversi tipi umani: dapprima venne abitata da rappresentanti della specie Homo Heidelbergensis, e in seguito da elementi dell’Homo Sapiens, di tipo moderno, ai quali ultimi si è attribuita fino a questo momento la capacità di elaborare un pensiero simbolico e di sviluppare il linguaggio parlato complesso. Se invece, come sembra, furono gli Heidelbergensis a dipingersi il viso e il corpo e a celebrare i più antichi rituali, dovremo ammettere che queste capacità tipicamente umane erano già patrimonio di una specie che ci precedette.
Twin Rivers riapre così tutti i discorsi, rende obsolete molte ipotesi, propone nuove necessità di ricerca e di rielaborazione delle teorie sul nostro passato remoto, sulla vicenda dell’uomo sul pianeta, sul mistero della sua evoluzione antropologica e intellettuale. E riapre anche i problemi dei contatti, delle relazioni, degli spostamenti o delle derive di gruppi umani in epoca preistorica.
Infatti, Lawrence Barham si dice perfettamente convinto che i diversi tipi di colorante che sono stati rinvenuti nella caverna dello Zambia derivavano da differenti minerali, come la specularite, l’ematite, la limonite, l’arenaria ferruginosa e il diossido di manganese. Ebbene, alcuni di questi furono raccolti e utilizzati dall’uomo preistorico nel raggio massimo di cinque o sei chilometri dal centro tribale della grotta, mentre altri erano reperibili, e con evidenti difficoltà, soltanto a distanze anche molto maggiori dal luogo stanziale del gruppo umano. Ciò dimostra non solo che dietro a questi pastelli così antichi e così ricercati c’era tutto un mondo di simboli e di credenze finora inimmaginati, ma anche che all’epoca gruppi umani non eccessivamente numerosi, sebbene esposti a pericoli d’ogni genere, erano in grado di tenere rapporti, di scambiarsi esperienze, di cercare e di utilizzare elementi materiali oltre i confini dei propri territori, forse anche di attuare scambi per baratto, naturalmente, con altri piccoli o medi gruppi stanziali piuttosto che nomadi.
Per alcuni di questi colori, infatti, sembra riecheggiata la vicenda ancora tutta da ricostruire della presenza, in aree italiane, di reperti di ossidiana, materia proveniente da luoghi lontani e anche remoti, che comunque è giunta nella Penisola per chissà quali fascinosi, sconosciuti itinerari. Insomma, noi continuiamo a interrogarci, riteniamo di aver trovato delle risposte più o meno valide, e poi, d’improvviso, nuove scoperte ci costringono a disfare il vecchio puzzle e a ricomporlo secondo le nuove testimonianze e in funzione delle nuove ipotesi.
Così, fra l’altro, per le dèe madri, presenti praticamente nelle aree più diverse europea, africana e asiatica, quasi facessero parte di valori, di credenze e di riti determinati da una cultura comune, nel senso di comunicante, quando è noto che un mondo fittamente forestato, con percorsi inesistenti o erratici, resi più pericolosi da altre presenze umane probabilmente non amiche e da una fauna predatrice difficile da tenere a bada da parte di un singolo individuo, impediva di procedere in tempi brevi lungo tragitti ignoti. Solo una forte immaginazione può renderci “visibile” il contesto entro cui si muovevano i nostri antenati, insieme con la loro vita di tutti i giorni, con i rapporti tra individui e nel gruppo, con il pensiero via via più articolato e complesso, in una parola con la loro costante evoluzione nel tempo e nello spazio.
Mutano di poco, le forme delle dèe. Nel senso che diventano sempre meno approssimate, e sempre più raffinate e artisticamente meglio definite, rispetto a quelle ritrovate in Mongolia o a quelle emerse dai bacini archeologici dell’Africa centrale (altro luogo di menhir, ad esempio, più che altro raggruppati a ciuffo, ma affini a quelli che costellano molti siti del Vecchio Continente) o di diversi Paesi europei.
Volavano forse parole comprensibili a tutti gli esseri umani, per i cieli della preistoria? E quanti decenni, o secoli, o millenni, richiese la pazienza dei passi dell’uomo nel tempo per traversare deserti e mari, montagne e ghiacciai, e per raggiungere i luoghi della caccia e dell’agricoltura, delle pianure e delle grotte adatte al riparo e alla difesa? E quando fu che l’uomo alzò gli occhi al cielo, e creò i primi rudimenti dell’arte, forse nel tentativo, ingenuo e candido, di placare il furore dell’Ignoto che scagliava il fulmine e inceneriva le colline? Fu per questo che scrutò il sole e gli astri, e intuì il ruotare delle stagioni, e alzò ziggurat e megaliti stohenengiani e forse anche superbe e aguzze specchie, e diede infine una misura e una cadenza alle nude albe e agli incantevoli tramonti? Fu per questo che si dipinse il corpo, che danzò nelle radure, che cantò con parole ondulari, e infine batté il piede al ritmo sordo dei tamburi, prima di rivolgere l’arco e la cerbottana con la freccia intinta nel curaro contro le scimmie e i cervi e i bufali, e poi contro i suoi simili?
Chissà se la caverna di Twin Rivers ci presenterà altri scenari sconosciuti, ci rivelerà qualcosa di più, ci sorprenderà in qualche altro modo; chissà se è solo qui che si nascondeva un gruzzolo prezioso del nostro passato remoto! Si continua a scavare, infatti, si fanno saggi più in qua e più in là, nelle quattro direzioni cardinali, nella speranza di essere aiutati dalla fortuna, di imbattersi in un altro carsico scrigno e di poter aprire un’altra pagina del libro del nostro passato. Da leggere come scoperta nuova, se pur mai definitiva, della storia infinita dell’uomo.

 

   
   
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