Marzo 2007

A Gallipoli. un viaggio ad occhi chiusi

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Chiese sul confine del mare
Antonio Errico  
 
 

 

 

 

Poi guardano
nella lontananza. Per accompagnare chi è in mare,
per sorvegliare
il suo viaggio,
il suo tempo
dell’incertezza,
il suo bisogno della terraferma.

 

 

Una dopo l’altra. Una accanto all’altra. Come creature di pietra che aprono le braccia per difendere qualcosa, per tenere al riparo qualcuno da un’incognita, da una minaccia incombente o remota di tempesta.
Una dopo l’altra. Una accanto all’altra. Come per fermare il vento, o almeno distoglierlo, disorientarlo, ingannarlo, domarlo, frastornarlo aggiogarlo, come per farlo sfrenare lungo i bastioni, fino a sfiancarsi, a dissolversi, senza entrare – rapinoso – nei vichi, senza rovesciarsi – bucaniere della natura – sul mare.
Una dopo l’altra, accanto all’altra: a volte pitturate con i colori delle chiese di una fiaba; con le facciate rivolte all’infinito, intrise della salsedine di secoli.
Una dopo l’altra, accanto all’altra, proteggono la città dalla paura di una rovina, dall’incubo della marea che può sommergere all’improvviso, dall’angoscia per la furia irrefrenabile che a volte può diventare il mare.

Poi guardano nella lontananza. Per accompagnare chi è in mare, per sorvegliare il suo viaggio, il suo tempo dell’incertezza, il suo bisogno della terraferma.
Forse dal largo del mare s’intravedono. Forse sono solo una curva di luce nel tramonto. Ma quella curva di luce basta come promessa di pace, di ritorno.
Chiese sul mare. Chiese di Finibusterrae. Pochi passi le separano dalla profondità, dal movimento leggero che nasconde l’abisso.
Una dopo l’altra, accanto all’altra, le chiese di Gallipoli custodiscono il senso del radicamento ad uno scoglio e della proiezione verso il mare, lo stupore per l’oltre e la trascuranza per il particolare. Perché in queste chiese la condizione che ha senso è quella della complessità, quella della connotazione umana, antropologica, culturale. Non è casuale la contraddizione tra l’esterno e l’interno. La facciata povera, umile, dimessa, viene compensata – oppure smentita? – dalla preziosità dell’interno, da quella sorta di celebrazione dell’arte per la quale molte menti e molte mani si sono poste all’opera.
Forse la devozione è tutta nell’esterno, nella pietra consueta, uguale a quella di ogni altra casa. L’interno, invece, è una manifestazione di giubilo, la sintesi dell’espressione dell’arte e della fede, della filosofia e della passione del colore. Poi forse è anche un luogo d’artificio.
L’interno è un’esperienza esistenziale della penombra: in qualsiasi ora del giorno, fino a quando il vespero non si rabbuia, in queste chiese non esiste una condizione di luce diversa da quella della penombra.
Nella penombra le figure sulle tele sembrano muoversi come il filo di fumo di una candela. Mentre l’odore del mare si confonde con l’odore di cera. Mentre dalla porta semiaperta il vento scivola tra gli scranni leggero come un bisbiglio di rosario.
Bisogna forse superare le categorie e le coordinate della storia dei fatti in genere e dell’arte in particolare per riuscire a raggiungere il senso più vero, essenziale, della pittura lavorata in queste chiese sul mare.

Forse bisognerebbe quasi violare la paternità del soggetto per una suggestiva attribuzione ad una temperie culturale e conseguentemente pensare che i dipinti non abbiano un solo autore ma che siano l’opera di innumerevoli mani, di colori impastati in tempi diversi, quasi come un racconto che nasce sul porto o arriva sul porto, distante due passi: fatto di voci su voci, di lingue familiari e forestiere.
Forse bisognerebbe pensare a questi dipinti come se fossero esiti di anonime preghiere.
Una dopo l’altra. Una accanto all’altra. Il senso del loro ordine non è quello della progressione ma quello della continuità e della contiguità. Il senso sta nel sentimento, nella percezione di protezione che riescono a suscitare. Perché forse non c’è differenza sostanziale tra conoscere e non conoscere la storia delle chiese che guardano il mare. Forse neanche nel conoscere o non conoscere il loro nome. Si può confondere San Francesco di Paola con Santa Maria della Purità, San Francesco d’Assisi con l’Immacolata, Santa Maria degli Angeli, il Crocefisso, il Rosario, Le Anime.
Si può confondere. Come ci si può confondere nell’intrico dei vichi che sembrano tutti uguali, tra le case che sembrano tutte uguali, con le ore del giorno che nel borgo sembrano tutte uguali. Quello che conta è l’armonia della loro articolazione, la semplicità della simmetria che forse traduce la linearità di una visione del mondo, l’ombra che proiettano sulla strada, che si allunga e poi precipita nel mare.
Forse è proprio questo il senso: il legame che fra terra e mare viene rappresentato dall’ombra di un luogo sacro, da qualcosa di immateriale che si ripete nel tempo, con variazioni impercettibili.
Non c’è differenza, forse, tra conoscere e non conoscere a chi appartenessero le mani che hanno compiuto il miracolo dello sfavillio nella Purità, che nome portasse colui che ha raggrumato nella smorfia di Misma tutta la beffa tragica, la sarcastica sfrontatezza, il sorriso sprezzante, probabilmente anche il dolore seppellito nel ghigno, probabilmente anche la disperazione gabellata con una sorta di ringhio, e il pentimento inconfessato per il male fatto al mondo, per il peccato contro il cielo compiuto da ogni uomo di ogni tempo e di ogni luogo.
Allora, nella penombra, nella temporalità sospesa, sfibrata, rarefatta, il Malladrone crocefisso in San Francesco soffoca ancora il suo pianto e urla il suo giudizio di disprezzo verso se stesso.
Probabilmente la differenza che ci può essere tra conoscere e non conoscere i particolari di queste chiese è determinata dalla maniera di stabilire una relazione e un confronto con i segni del sistema simbolico-culturale dal quale proveniamo, al quale apparteniamo.
Allora che cosa può significare, ancora, in questa età, tra le forme molteplici e i mutamenti vorticosi di questa civiltà, l’inquietudine che provoca quella figura di malnato, la sua deformità, la sua maschera ostentata. Per quale motivo – ancora – chi lo guarda rimane turbato dalla sua sembianza alterata?
Forse è per il fatto che il Malladrone si propone come una delle tante – innumerevoli – significazioni della Storia o – forse più esattamente – del tempo che si disgrega e dissipa le vite sotto uno sguardo che, invece, al tempo resiste e, resistendo, deride la morte delle creature, della loro carne, del loro pensiero.
Oppure può essere perché il Malladrone costituisce l’icona del tempo mai redento, delle sfere del bene e del male mai definitivamente identificate e delimitate, probabilmente perché non identificabili, non delimitabili.
Una dopo l’altra. Una accanto all’altra. Si ritraggono e si prolungano nello spazio disegnato dalla loro ombra, a seconda dell’ora, oppure della consistenza delle nuvole, a seconda della luce del sole e della luna, della trasparenza o della schiumosità del mare, del nostro modo di pensare e di abitare il confine, di percepire e di esprimere il senso della riva, della demarcazione, della distanza.
Una dopo l’altra, accanto all’altra.
Lasciarsele alle spalle con il desiderio di tornare a rivederle, e poi attraversare il ponte costeggiando il Rivellino per trovare – come per un caso, distrattamente – la chiesa che forse rappresenta tutte le altre, quella che più di ogni altra si protende quasi a sfiorare l’acqua. Una cappella minuscola, quasi una fantasia della pietra, il miracolo di un altare alzato su un’onda, quasi un osso di seppia che la marea ha depositato in quel punto.
Ma dentro c’è ogni odore del mare, ogni movimento del vento; dentro c’è tutto il silenzio del tempo. È il congiungimento della terra e del mare attraverso un simbolo semplice e assoluto dell’eterno. Dentro c’è tutto lo spazio che un pensiero che prega riesce a pensare, a immaginare; c’è tutta l’ansia di chi chiede una benedizione prima di intraprendere la via misteriosa del mare, il ringraziamento di chi per quella via è ritornato.
Santa Cristina è il luogo per la preghiera dell’approdo. Basta un passo soltanto per ritrovarsi sulla sua soglia. Per dire di com’è stato il mare, di cosa si è portato dal mare; per dire delle paure, del sogno di casa, di donna, per dire della solitudine, della nostalgia, del chiarore di stelle sulla superficie che genera l’illusione di poter penetrare il buio dello sprofondo.
Santa Cristina è il luogo per la preghiera della partenza. Per il passaggio ad un’altra condizione dell’esistenza.
Questa chiesa ha un campanile che fa immaginare una vela: la condizione di una sospensione, una relazione con il vento, con il mare, con le braccia che innalzano o ammainano, con una direzione da seguire, da cambiare, con un’esperienza di orientamento nello spazio infinito e nel tempo della transitorietà, con l’ipotesi e la possibilità di un naufragio, di uno smarrimento.
La vela costituisce, forse, il senso di una presenza certa nell’incertezza determinata dalla vastità e dalla imponderabilità e dalla imprevedibilità del mare.
Il rispecchiamento della forma della chiesa nel mare è la metafora di una duplice appartenenza, di una condizione di reciprocità che non conosce frattura, della sponda che si confonde con l’acqua, dell’impossibilità di tracciare un confine tra terra e mare, dell’origine senza differenze. Perché lì, in principio, era soltanto il mare. Perché lì, forse, un giorno lontano sarà soltanto il mare.

 

   
   
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