Poi guardano
nella lontananza. Per accompagnare chi è in mare,
per sorvegliare
il suo viaggio,
il suo tempo
dellincertezza,
il suo bisogno della terraferma.
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Erano sguardi che toccavano terra, che si alzavano verso il cielo
solo il tempo necessario di una supplica. Erano occhi stropicciati,
da nostalgie, amarezze, paure di emozioni, incorniciati in volti
accartocciati dalle rughe, che sembravano aver vissuto unaltra
vita, in un altro oppure in quello stesso luogo.
Erano infanzia da giochi di pezza, sogni rubati alle fiabe, preghiere
urlate sottovoce allombra di altari di chiese e di case.
Erano attese di uomini che avevano la sembianza di simbolici fantasmi
del pensiero, che dovevano arrivare per la strada di misteriose
alchimie, come le profezie incantate nei fondi di caffè;
poi erano la pietà di sé quando lacqua con lalbume
nel catino non rimandava profili di principi o cavalieri, né
sagome di navi, ma ritratti deformati da una vita di fatica senza
respiro e sacrifici smisurati. Perché nemmeno per gioco la
sorte le cullava, nemmeno per un soffio di speranza, né per
lo scherzo di una fava con la buccia, scelta ad occhi chiusi con
la mano che affondava sotto il guanciale, nella tiepida illusione
di non prendere sempre quella nuda o quella che offriva solo mezza
felicità.
Soliti riti, sempre, nella stessa notte di San Giovanni Battista:
il ventiquattro di giugno.
Forse avrebbero desiderato solo avere altri occhi, altri volti,
altre mani, invece di principi, navi, cavalieri. Forse sarebbe bastato
poter vedere altri paesaggi, abitare altri luoghi, percorrere altre
strade, raggiungere orizzonti diversi, ulteriori, lontani.

Forse, né principi né mani, né navi né
orizzonti; ma solo ciò che la madre aveva dato alla figlia,
e la figlia a unaltra figlia, e poi ancora, in un dipanarsi
di solite storie e soliti destini, nelle solite case bianche «con
le file di zucche gialle sulle cornici» e sotto il solito
sole, alto, a picco, sulle fortune e sulle vite storte. Non avrebbero
desiderato altro, quasi gelose di preservare una unicità
di esistenze a cui la sorte le aveva votate; appagate da esperienze
del tempo totali, assolute, che le tenevano ricurve su distese di
grano e intrichi di vigneti, o raggomitolate vicino a un focolare,
mentre rattoppavano memorie col filo del ricamo.
Restavano così, sprofondate nei propri pensieri, in una ripetizione
senza imprevisti di gesti concatenati tra loro come le parole di
una lettera tutta scritta nella testa e mai spedita. E gli unici
orizzonti da abbracciare spaziavano dalla pentola messa a cuocere
sulla brace del camino allultimo pezzo di stoffa rimasto ingarbugliato
nel telaio, in attesa di prendere la forma di qualcosa.
Erano figure prive di sfumature, monocromatiche. Nere.
«Nere e senza volto», che andavano a «scavare
la terra senza fondo / e chiudere il dolore in una buca».
Davanti alla bufera del tempo, allaccadere delle storie, allesplosione
degli eventi, non sapevano «se piangere o gridare / se chiedere
o morire / per superare larco / di un solo giorno».
In fondo, non potevano essere che nere, quasi per il destino di
una contraddizione: il chiarore della luce, il biancore delle loro
case, contrastavano cromaticamente e semanticamente con i toni cupi
delle loro vesti, quelli violacei delle loro carni: quasi unantitesi
simbolica in cui il colore rappresentava il sigillo di unappartenenza,
di un legame inscindibile e imperscrutabile tra loro e il cielo.
Morbidi e generosi i fianchi, robuste le braccia: perfetta simmetria
di forme tra i loro corpi e la terra, e gli ulivi, avanzavano in
processioni, ora lente ora risolute, avvolte da unaria quasi
regale eppure immensamente sommessa, riservata, il capo e mezza
spalla avvolti da ampi scialli bui, come a voler oscurare il frastuono
dei loro pensieri, la loro vitalità febbrile, convulsa.
Il loro andamento era spezzato dai contorni di una scenografia in
cui spiccava un accostamento stridente di rosso, giallo, verde,
blu, e pochi elementi: ulivi, case, pietre, terra, mare, cielo.

Trascinavano con dignità superba destini di cui non erano
artefici, e si accontentavano di esistenze trascinate e costantemente
cadenti, come se per loro la vita fosse una parabola fatta solo
da curve discendenti.
Camminavano, caparbie sfrontate e fragili, portando «fichi
e uva passa / in fazzoletti dai colori sbiaditi / per il troppo
lavarli» con lo sguardo fiero, il passo fisso, le scarpe in
mano «su asfalti provinciali / o lungo le carrare polverose»,
col pensiero rivolto allessenzialità delle cose, alle
spine dei bisogni che escludevano la vanità inutile dei sogni.
Poi, rientrate nelle case, diventavano bisbigli dietro usci socchiusi,
strappi di cuore e di stoffe da ricucire, figli da allattare, tabacco
da filare, lievito da impastare, lenzuola da ricamare, rosari biascicati
appena che imbruniva, poche righe da scrivere a una lontananza di
figlio o di fratello quando venne il tempo dellemigrazione,
e il paese si fece povero, si fece vuoto di figli e di fratelli.
Quando venne il tempo dellemigrazione, nel paese rimasero
solo donne e vecchi. E le donne giovani avevano le rughe come i
vecchi, i nodi alle mani di chi porta avanti la campagna.
Erano, a volte, creature aggredite da una furia misteriosa provocata
forse da morso di tarantola, sfiancate da un senso
doppressione, da depressioni ansiose, stravolte da un assillo
che rodeva, sinsinuava lentamente e poi esplodeva in un delirio
senza continenza, che si placava poi in fondo ad un ballo estenuante,
col medicamento di una pizzica ossessiva, vertiginosa, ribollente.
Erano di ogni età e ogni bellezza.
Lisa, una di loro. Una per tutte. Personaggio di romanzo, che si
fa sintesi di ricerca scientifica e letteratura, quando ancora in
Salento non erano venuti Ernesto De Martino e la sua équipe.
Lisa: il suo ballo come un abbandono, una resa a forze e furie primigenie,
ancestrali, un moto scomposto, senza freni , «come se dentro
si fosse disciolto qualcosa che imprigionava i suoi muscoli»;
il ritmo del tamburello scandito da urla di ubriaca; e a tratti
un senso di levità, di volo.
Non aveva bisogno di nessuna parola. «Esprimeva il viluppo
della sua remota vitalità in gesti, guizzi, salti, tutto
confuso ormai, quello chemerge definito alla coscienza e anche
laltro fondo misterioso che non si sa che sia e donde venga
e che pure tante volte si percepisce come un senso anonimo di vita,
sostrato permanente dellessere».
Erano teatrali. Avevano ruoli diversi, per qualsiasi occasione,
che ricoprivano come chi veste panni da cui dovrà spogliarsi
nella notte solitaria e rimetterli il giorno dopo, sempre uguali,
sempre quelli, per repliche senza fine e senza tregua.
Erano teatrali nella gestualità di mani irrequiete e nodose
come sarmenti, nei toni di voce modulata a canto, a grido, a lamento,
a tenero sussurro, a nenia, rimbrotto, consolazione, preghiera.
Lo erano negli sguardi aspri, espressione di un passato e di un
presente racchiusi dentro folte ciglia.
Erano teatrali nei gesti con cui esprimevano o camuffavano una disperata
infelicità di fondo, una felicità fugace, una rassegnazione
eterna.
Erano teatrali nei volti straordinariamente somiglianti alle figure
delle icone che allimprovviso appaiono agli angoli dei paesi,
in una nicchia che protegge una casa, un vicolo, una corte.
Erano teatrali nei canti di morte celebrata con artifici deliranti
di lamenti, repertori infiniti alimentati da torrenti di quartine
intonate senza un copione né una partitura, libere di impregnarsi
di tutta la retorica necessaria a magnificare tanto le virtù
del servo quanto quelle del padrone, secondo il gradimento dei presenti
e lopportunità delloccasione.
Erano lombra terrena di Caronte, traghettatrici dei defunti
durante il passaggio dal mondo dei vivi a quello dei morti.
Erano voci generate da emozioni contraffatte, sbriciolate in lacrime
mercenarie pronte a travolgere corpi immobili e sconosciuti con
lo stesso impeto con cui onde furibonde si frangono contro maestose
e immobili scogliere.
Erano inconsapevoli scrigni di un tesoro ormai sterile; custodi
indiscusse dellamore e della morte.
Spesso, raccontavano e si raccontavano. Schegge di ricordi senza
un inizio e una fine, vecchie usanze, consuetudini sapienti: che
«i vetri delle finestre / si lavano con acqua e aceto; / le
macchie sui vestiti scuri / si tolgono con la posa del caffè».
Passavano e ritornavano stagioni, ma niente mutava nei loro racconti,
né il senso delle nostalgie, né il languore per una
o più mancanze, né le crepe di solitudini, contate
ad una ad una sulle soglie, mentre «socchiudono pupille duna
astratta durezza / dai palmi delle mani, aperte pietre sui grembi».

Narravano; spettatrici e protagoniste di storie vere e crudeli
quanto la mancanza di pane per sfamare i troppi figli, o di avvenimenti
pretestuosamente sorprendenti, come se ogni cosa fosse un sortilegio:
un gesto quotidiano, una nascita, una morte, un topo per la casa,
un passante forestiero, diventavano materia di racconto, unepica
casalinga, naturale come granaio per il grano, capasa per i fichi.
«Tutto accadeva mentre la voce raccontava e tutto era accaduto
in un tempo senza stagioni. [
] la voce saliva e scendeva,
si allontanava nella strada polverosa, tornava nei cespugli della
buganvillea».
Qualche volta la voce era daria, volava sopra i vigneti, arrivava
fino al mare. «La meraviglia era tutta in unintonazione».
Ad ogni origine, allora, cera un loro racconto; cera
un loro racconto, forse, anche ad ogni fine.
Per ciascuna di loro.
Per tutte, il silenzio. Cantina dellanima dentro cui accatastare
le miserie, il tormento, il pianto. Anchesso silenzioso.
La loro nascita apparteneva alla stessa condizione dincognita
che costituisce il destino degli elementi della terra; allincognita
apparteneva anche la loro morte.
Tra la vita e la morte si distendeva il silenzio. Che non era vuoto,
ma pregnanza di senso: espressione che non aveva necessità
di parola perché sapeva essere coincidenza di linguaggio
e natura, sapeva farsi dolore, passione, dolcezza, consiglio, rifiuto,
cedimento, fermezza, rimpianto, ricordo, amarezza, stupore.
Con il loro silenzio scagliavano domande, donavano risposte. Con
il silenzio attraversavano il tempo, facevano esperienza di realtà
e fantasticheria, della verità e della menzogna.
Con il silenzio facevano esperienza damore. Anche della poesia
del vivere: di quella poesia non detta, non scritta, inconsapevole
anche, insospettata, occultata dalle urgenze, ma che tramava ogni
giorno, ne scandiva le occasioni, contemplava e contemperava lincanto
e il disincanto delle donne dai «cuori di cicoria» .
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