Marzo 2007

TRA IMMAGINARIO E LETTERATURA

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Profili di donna
nell’antico Salento
Lucilla Vaglio  
 
 

 

 

 

Poi guardano
nella lontananza. Per accompagnare chi è in mare,
per sorvegliare
il suo viaggio,
il suo tempo
dell’incertezza,
il suo bisogno della terraferma.

 

 

Erano sguardi che toccavano terra, che si alzavano verso il cielo solo il tempo necessario di una supplica. Erano occhi stropicciati, da nostalgie, amarezze, paure di emozioni, incorniciati in volti accartocciati dalle rughe, che sembravano aver vissuto un’altra vita, in un altro oppure in quello stesso luogo.
Erano infanzia da giochi di pezza, sogni rubati alle fiabe, preghiere urlate sottovoce all’ombra di altari di chiese e di case.
Erano attese di uomini che avevano la sembianza di simbolici fantasmi del pensiero, che dovevano arrivare per la strada di misteriose alchimie, come le profezie incantate nei fondi di caffè; poi erano la pietà di sé quando l’acqua con l’albume nel catino non rimandava profili di principi o cavalieri, né sagome di navi, ma ritratti deformati da una vita di fatica senza respiro e sacrifici smisurati. Perché nemmeno per gioco la sorte le cullava, nemmeno per un soffio di speranza, né per lo scherzo di una fava con la buccia, scelta ad occhi chiusi con la mano che affondava sotto il guanciale, nella tiepida illusione di non prendere sempre quella nuda o quella che offriva solo mezza felicità.
Soliti riti, sempre, nella stessa notte di San Giovanni Battista: il ventiquattro di giugno.
Forse avrebbero desiderato solo avere altri occhi, altri volti, altre mani, invece di principi, navi, cavalieri. Forse sarebbe bastato poter vedere altri paesaggi, abitare altri luoghi, percorrere altre strade, raggiungere orizzonti diversi, ulteriori, lontani.

Forse, né principi né mani, né navi né orizzonti; ma solo ciò che la madre aveva dato alla figlia, e la figlia a un’altra figlia, e poi ancora, in un dipanarsi di solite storie e soliti destini, nelle solite case bianche «con le file di zucche gialle sulle cornici» e sotto il solito sole, alto, a picco, sulle fortune e sulle vite storte. Non avrebbero desiderato altro, quasi gelose di preservare una unicità di esistenze a cui la sorte le aveva votate; appagate da esperienze del tempo totali, assolute, che le tenevano ricurve su distese di grano e intrichi di vigneti, o raggomitolate vicino a un focolare, mentre rattoppavano memorie col filo del ricamo.
Restavano così, sprofondate nei propri pensieri, in una ripetizione senza imprevisti di gesti concatenati tra loro come le parole di una lettera tutta scritta nella testa e mai spedita. E gli unici orizzonti da abbracciare spaziavano dalla pentola messa a cuocere sulla brace del camino all’ultimo pezzo di stoffa rimasto ingarbugliato nel telaio, in attesa di prendere la forma di qualcosa.
Erano figure prive di sfumature, monocromatiche. Nere.
«Nere e senza volto», che andavano a «scavare la terra senza fondo / e chiudere il dolore in una buca». Davanti alla bufera del tempo, all’accadere delle storie, all’esplosione degli eventi, non sapevano «se piangere o gridare / se chiedere o morire / per superare l’arco / di un solo giorno».
In fondo, non potevano essere che nere, quasi per il destino di una contraddizione: il chiarore della luce, il biancore delle loro case, contrastavano cromaticamente e semanticamente con i toni cupi delle loro vesti, quelli violacei delle loro carni: quasi un’antitesi simbolica in cui il colore rappresentava il sigillo di un’appartenenza, di un legame inscindibile e imperscrutabile tra loro e il cielo.
Morbidi e generosi i fianchi, robuste le braccia: perfetta simmetria di forme tra i loro corpi e la terra, e gli ulivi, avanzavano in processioni, ora lente ora risolute, avvolte da un’aria quasi regale eppure immensamente sommessa, riservata, il capo e mezza spalla avvolti da ampi scialli bui, come a voler oscurare il frastuono dei loro pensieri, la loro vitalità febbrile, convulsa.
Il loro andamento era spezzato dai contorni di una scenografia in cui spiccava un accostamento stridente di rosso, giallo, verde, blu, e pochi elementi: ulivi, case, pietre, terra, mare, cielo.

Trascinavano con dignità superba destini di cui non erano artefici, e si accontentavano di esistenze trascinate e costantemente cadenti, come se per loro la vita fosse una parabola fatta solo da curve discendenti.
Camminavano, caparbie sfrontate e fragili, portando «fichi e uva passa / in fazzoletti dai colori sbiaditi / per il troppo lavarli» con lo sguardo fiero, il passo fisso, le scarpe in mano «su asfalti provinciali / o lungo le carrare polverose», col pensiero rivolto all’essenzialità delle cose, alle spine dei bisogni che escludevano la vanità inutile dei sogni.
Poi, rientrate nelle case, diventavano bisbigli dietro usci socchiusi, strappi di cuore e di stoffe da ricucire, figli da allattare, tabacco da filare, lievito da impastare, lenzuola da ricamare, rosari biascicati appena che imbruniva, poche righe da scrivere a una lontananza di figlio o di fratello quando venne il tempo dell’emigrazione, e il paese si fece povero, si fece vuoto di figli e di fratelli.
Quando venne il tempo dell’emigrazione, nel paese rimasero solo donne e vecchi. E le donne giovani avevano le rughe come i vecchi, i nodi alle mani di chi porta avanti la campagna.
Erano, a volte, creature aggredite da una furia misteriosa provocata – forse – da morso di tarantola, sfiancate da un senso d’oppressione, da depressioni ansiose, stravolte da un assillo che rodeva, s’insinuava lentamente e poi esplodeva in un delirio senza continenza, che si placava poi in fondo ad un ballo estenuante, col medicamento di una pizzica ossessiva, vertiginosa, ribollente.
Erano di ogni età e ogni bellezza.
Lisa, una di loro. Una per tutte. Personaggio di romanzo, che si fa sintesi di ricerca scientifica e letteratura, quando ancora in Salento non erano venuti Ernesto De Martino e la sua équipe.
Lisa: il suo ballo come un abbandono, una resa a forze e furie primigenie, ancestrali, un moto scomposto, senza freni , «come se dentro si fosse disciolto qualcosa che imprigionava i suoi muscoli»; il ritmo del tamburello scandito da urla di ubriaca; e a tratti un senso di levità, di volo.
Non aveva bisogno di nessuna parola. «Esprimeva il viluppo della sua remota vitalità in gesti, guizzi, salti, tutto confuso ormai, quello ch’emerge definito alla coscienza e anche l’altro fondo misterioso che non si sa che sia e donde venga e che pure tante volte si percepisce come un senso anonimo di vita, sostrato permanente dell’essere».
Erano teatrali. Avevano ruoli diversi, per qualsiasi occasione, che ricoprivano come chi veste panni da cui dovrà spogliarsi nella notte solitaria e rimetterli il giorno dopo, sempre uguali, sempre quelli, per repliche senza fine e senza tregua.
Erano teatrali nella gestualità di mani irrequiete e nodose come sarmenti, nei toni di voce modulata a canto, a grido, a lamento, a tenero sussurro, a nenia, rimbrotto, consolazione, preghiera.
Lo erano negli sguardi aspri, espressione di un passato e di un presente racchiusi dentro folte ciglia.
Erano teatrali nei gesti con cui esprimevano o camuffavano una disperata infelicità di fondo, una felicità fugace, una rassegnazione eterna.
Erano teatrali nei volti straordinariamente somiglianti alle figure delle icone che all’improvviso appaiono agli angoli dei paesi, in una nicchia che protegge una casa, un vicolo, una corte.
Erano teatrali nei canti di morte celebrata con artifici deliranti di lamenti, repertori infiniti alimentati da torrenti di quartine intonate senza un copione né una partitura, libere di impregnarsi di tutta la retorica necessaria a magnificare tanto le virtù del servo quanto quelle del padrone, secondo il gradimento dei presenti e l’opportunità dell’occasione.
Erano l’ombra terrena di Caronte, traghettatrici dei defunti durante il passaggio dal mondo dei vivi a quello dei morti.
Erano voci generate da emozioni contraffatte, sbriciolate in lacrime mercenarie pronte a travolgere corpi immobili e sconosciuti con lo stesso impeto con cui onde furibonde si frangono contro maestose e immobili scogliere.
Erano inconsapevoli scrigni di un tesoro ormai sterile; custodi indiscusse dell’amore e della morte.
Spesso, raccontavano e si raccontavano. Schegge di ricordi senza un inizio e una fine, vecchie usanze, consuetudini sapienti: che «i vetri delle finestre / si lavano con acqua e aceto; / le macchie sui vestiti scuri / si tolgono con la posa del caffè».
Passavano e ritornavano stagioni, ma niente mutava nei loro racconti, né il senso delle nostalgie, né il languore per una o più mancanze, né le crepe di solitudini, contate ad una ad una sulle soglie, mentre «socchiudono pupille d’una astratta durezza / dai palmi delle mani, aperte pietre sui grembi».

Narravano; spettatrici e protagoniste di storie vere e crudeli quanto la mancanza di pane per sfamare i troppi figli, o di avvenimenti pretestuosamente sorprendenti, come se ogni cosa fosse un sortilegio: un gesto quotidiano, una nascita, una morte, un topo per la casa, un passante forestiero, diventavano materia di racconto, un’epica casalinga, naturale come granaio per il grano, capasa per i fichi.
«Tutto accadeva mentre la voce raccontava e tutto era accaduto in un tempo senza stagioni. […] la voce saliva e scendeva, si allontanava nella strada polverosa, tornava nei cespugli della buganvillea».
Qualche volta la voce era d’aria, volava sopra i vigneti, arrivava fino al mare. «La meraviglia era tutta in un’intonazione».
Ad ogni origine, allora, c’era un loro racconto; c’era un loro racconto, forse, anche ad ogni fine.
Per ciascuna di loro.
Per tutte, il silenzio. Cantina dell’anima dentro cui accatastare le miserie, il tormento, il pianto. Anch’esso silenzioso.
La loro nascita apparteneva alla stessa condizione d’incognita che costituisce il destino degli elementi della terra; all’incognita apparteneva anche la loro morte.
Tra la vita e la morte si distendeva il silenzio. Che non era vuoto, ma pregnanza di senso: espressione che non aveva necessità di parola perché sapeva essere coincidenza di linguaggio e natura, sapeva farsi dolore, passione, dolcezza, consiglio, rifiuto, cedimento, fermezza, rimpianto, ricordo, amarezza, stupore.
Con il loro silenzio scagliavano domande, donavano risposte. Con il silenzio attraversavano il tempo, facevano esperienza di realtà e fantasticheria, della verità e della menzogna.
Con il silenzio facevano esperienza d’amore. Anche della poesia del vivere: di quella poesia non detta, non scritta, inconsapevole anche, insospettata, occultata dalle urgenze, ma che tramava ogni giorno, ne scandiva le occasioni, contemplava e contemperava l’incanto e il disincanto delle donne dai «cuori di cicoria» .

 

   
   
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