Marzo 2007

 

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Le Giravolte
AA.VV.  
 
 

 

 

 

 

 

 

Un viaggio nelle parole

Letteratura e cineteche abbondano di prodotti sull’immigrazione, di storie di denuncia sociale ispirate da coscienze inquiete. Pamela Serafino con il suo Emigranti salentini si raccontano – Edizioni Argo, 2006 – ci regala invece un viaggio nella sociolinguistica dell’emigrante, proponendo una carrellata di anime semplici che fanno poesia con uno stile “povero” che nei circoli smart conta pochissimo, la riproduzione scritta dell’oralità quotidiana. Così l’imprecazione diventa preghiera, e l’intreccio amoroso, passionale e istintivo, viene rafforzato dall’assenza o dall’uso improprio della punteggiatura, da parole in libertà che offrono momenti di lirismo e di commozione.
Settembre ‘79, da una lettera inviata da Mettmann da un emigrante alla moglie che vive a Guagnano: «... Come mi hai mandato a dire della casa, tu pensi, che io non voglia trovarla io amore non puoi immaginare quanto vorrei trovare una casa per poterti portare qui ma il fatto te lo già detto quale è non si trovano amore mio... quando si è lontani ci dobbiamo volere ancora più bene che da vicino, e poi chi ha fede in dio ha fede in se stesso amore, non so se mi sono spiegato».
Storie salentine, storie di periferia che fanno sentire il profondo respiro dei tunnel scavati dai mille volti del dubbio e del dolore. Frammenti di vita scomoda, scandalosamente attuali.

L’emigrante è sempre solo con la sua solitudine, anche quando è folla. Il testo fa parte di un impegno più ampio e organico, diretto e coordinato da Carlo Alberto Augeri. Aspettiamo interessanti sviluppi.
Colpisce l’approccio originale. Nell’analisi estetica del linguaggio, nella ricerca fonetica c’è l’intrinseco valore emotivo, marcatore di eventi quotidiani che per la loro ritualità finiscono spesso per restare in ombra. Indifferenti alla Cronaca e alla Storia, pur nella loro essenzialità. Si dà risalto agli angoli bui dell’umana marginalità, al dramma dell’incomunicabilità che accompagna ogni passaggio di frontiera, ogni pellegrinaggio dal luogo al non luogo, ogni confronto tra un “dentro” protetto e rassicurante e un “fuori” inquietante e sfuggente.
C’è nel disagio registrato la richiesta inespressa di nuove tematiche sociali, per fare “inclusione” attraverso una rete di incentivi e disincentivi dei comportamenti standardizzati. Nel pre-politico si avvertono tutti i limiti politici di un multiculturalismo che ha creato sotto-comunità, talvolta organizzate in contro-comunità. Frutto di uno stress ossidativo derivante dal silenzio e dalle barricate delle coscienze. Ci sono ancora molti ostacoli al dovere di interagire con i canoni della condivisione e del dialogo. Ci sono ritrosie istintive verso una naturale evoluzione cosmopolita, verso un’uguaglianza liberata da giudizi e pregiudizi omofobici. Si avverte l’assenza di schemi comportamentali e impianti normativi che agevolino e governino l’ibridazione e la mescolanza.
Senza un deciso cambiamento di passo continueremo ad allevare rancorosi microcosmi sociali all’interno di modelli che assicurano garanzie solo agli interessi consolidati. Continueremo a vedere nelle strade volti slavati e occhi tristi che fanno rivivere i grotteschi personaggi di Bruegel. Profughi dell’economia, della politica, dell’ambiente. Vittime del relativismo etico e giuridico. E Serafino e altri continueranno a raccontare l’odissea della classe migrante, di umanità emarginate e cristallizzate nell’identità di piccole patrie, l’odissea silente o esplosiva delle banlieues che produce le dinastie dell’infelicità. Presenze inquietanti che denunciano i limiti di progetto e di comunicazione del moderno globalizzato, il persistere anacronistico delle etnie e delle identità contingentate. Debolezze di sistema che mettono in discussione la credibilità delle società opulente e il loro hardware liberale. Moltiplicando gli angoli del mondo dove si intrecciano e si replicano i destini sofferti dell’umanità viandante.

claudio alemanno

Garzo dell’Ancisa: chi era costui?

Mi ero sempre dato una certa importanza, perché molti colleghi professori, anche di ottima cultura letteraria, conoscevano appena un anonimo della prima metà del XIII secolo, autore del “Lamento della sposa padovana”, probabilmente il più antico documento lirico della nostra poesia volgare. Io, invece, tenevo in serbo da tempo una “Lauda alla Vergine”, pochissimo nota.
Era uscita fuori all’improvviso dai miei famosi “cassetti-dimenticatoio”. Autore, ser Garzo dell’Ancisa, morto intorno al 1250 (si pensi che il primo poeta del suo secolo, San Francesco, era scomparso solo nel 1226).
Finalmente è giunta l’ora di farla conoscere ai presunti dotti. Ho deciso. Per rimanerne incantati, basta già il titolo, “Altissima Luce”. È una preghiera colma di fede:
... In voi, dolze amore, agiam consolanza.
Fresca rivera, ornata di fiori,
Tu se’ la spera, di tutti colori;
Guida la schiera, di noi peccatori,
Sì c’asavori, de tua beninanza...
Quest’ultima parola va intesa nel senso religioso di benevolenza condiscendente. Ho citato brani di “luce”, specchio di divinità, di proposito. Risparmio termini per la prima volta, ma questo Garzo è una rivelazione.
Ser Garzo dell’Ancisa non ama gli svolazzi, il mio stile ne guadagna... La sua scarna aggettivazione lo dimostra. Ne faccio alcuni esempi: consolanza, semolanza, pulzella amorosa che non stai nascosa, e così via.

A me interessava soltanto mettere in evidenza questo nome, nuovo ai più. Il gioiello è piccolo, ma il suo splendore è intenso. Vi prego di gustarlo.
Motivo di questa ricerca: dobbiamo interessarci molto di più ai minori e agli anonimi; siamo stupidamente divenuti cacciatori di inutili glorie. Credo che, se potessimo tornare al “Dugento”, ne avremmo benefici mentali, proprio quelli che maggiormente necessitano, dati i tempi.
Però, siccome non voglio essere accusato di preziosismo, mi piace fare un omaggio al diligente lettore, dicendogli da dove proviene questa “chicca”. Il librettino che contiene la nostra “Altissima Luce” fu edito nel lontano 1932 da Carlo Signorelli in Milano, a cura di una piccola tipografia che si trovava in Via Comelico, 24. Esisterà ancora? Lo stampatore Pirola no, ma l’esaltazione poetica della Madonna credo esista ancora, specialmente in certi vicoli, dove la miseria si trasformò e si trasforma ancora oggi in preghiera.

florio santini

 

Tò pandochèion

Nascosta, lontana dal paese, ettu-’rtèa, es ‘a mmerèa ettôfsu, c’è un’osteria (o, se più vi piace, un ristorantino) costruita su pietre e terra che per secoli sentirono parlare il greco, il latino e il bizantino.
Nascosta e lontana dal paese, quasi orgogliosa di sottrarsi alla vista, custodisce piccoli grandi tesori, cose rare e, si sa, ta pràmata arèa ìne ta plèo agapimmèna: «Cercatemi, trovatemi», sembra dire – divertendosi – l’insegna al neon che i più fortunati riescono ad intravedere nel buio. Tuttavia, invisibili guide fanno approdare sempre alla casina, sobria, senza pretese, eppure rassicurante, così come fidati sono il pane, il vino, la carne cotta sulla brace e che, non a caso, è la vivanda più importante, poiché espressione culturale, rimando storico, antica ritualità: «E quando le cosce furono arse... tagliarono il resto a pezzi, li infilarono negli spiedi, li arrostirono con cura... e quando finirono l’opera... mangiarono e il cuore non sentiva mancanza di parte abbondante». Questo si legge nell’Iliade, e identiche sono la semplicità e la perizia di Vito – il padrone – che sembra uscito da una pagina di Omero; ma, in verità, pure terra e pietre, vino e linguaggio, volti e ospitalità di questo luogo discorrono di cose antiche ed eterne, a cominciare dai benevoli fantasmi che ti accolgono fra gli alberi del cipo, invitandoti ad entrare: «Mìnò ‘a spirì», ti dicono, e subito si dileguano fra le pietre rugose, ìpuno pu fei ‘cì pu ‘o ttorì.
In casa di Vito si parla m’‘in glossa pu milùamo mian imèra, la glossa grica, e l’osteria può definirsi ti pporta tu filìa: artisti, professionisti, docenti universitari, operai, poeti, agglutinati e contagiati dalla semplicità, dalla cortesia, dall’irrompere delle parole greche, dalle scintille culturali e linguistiche, le quali rendono diverso e sorprendente ogni incontro e che Vito e la sua casina sembrano propiziare per volontà del destino; oìi antàma me filìa, Vito gareggia con se stesso per amabilità, gentilezze, premure, regalandoci, quando vuole, la musica di una lingua ftammèni ros emà, e che in lui – è evidente – nasce ‘pu ‘c’-èssu sti kardìa, melodia che èi tòssus crònu, c’e’ ssa ftesinì.
E nelle sere d’inverno, quando vrèchi ce fsìcre cànni, il fuoco del grande camino racconta storie d’altri tempi; e i fantasmi benevoli – attratti dalle favole, dall’olocarìa, dal crasì, figlio di stafilìa miristicà– èrcutte apu scotinò tìs nìfta, e ti sussurrano: «Efsu vrechi ce o ànemo fisà», ma qui «e agàpi ce filìa ticanè criàzi ce ijèni òl ‘es cardìe».
Così, quando il vino arriva a tener compagnia ad ascàdia me carìdia, e quando si è in pochi, qualcuno chiede a Vito: «Ìtela mia chitarra na simano»; e talvolta Vito, alìo cci alìo, intona a bassa voce (quasi per scusarsi) canzoni griche, il cui ricamo sull’amore, la natura, la bellezza muliebre fa comprendere la forza, la cultura, la civiltà, i sentimenti della gente meravigliosa che a quei canti dette vita, colore e calore, melodie che puoi ascoltare mille volte e mille volte ti affascinano, si capisca o non si capisca il grico.
E tutti applaudono il suo canto e l’applauso, ogni volta, è conferma e convinzione che tùisi glossa icrizzi canne pràma, tùoso grico e’ ‘nna mas pài ambrò, na casì e’‘nnan amartìa.
Ma ‘o grico ti dulèi? Serve a ricordare le origini, ad onorarle e a trarne insegnamenti; serve a riconoscere uomini come Vito e la loro “grecità”, ossia l’impegno di vita, la forza, la sobrietà trasmessi dagli antenati; serve in quanto valore, storia, cultura, riferimento; serve anche, sta vràdia ‘u calocèri, a farsi rapire mente e cuore, a farsi portare lontano nel tempo dalle voci di Francesca, di Antonella, di Anna Lisa, figlie di questa terra, una òria sa tti silene, una ammàddia mávra sa tto pipèri, una èn’ ghiomàti càri. E quando cantano, di ognuna di loro si può dire: afse to travudìsi ìse i rena, e la loro voce ti esorta a concludere: t’èn’ glicèa tùsi nifta ce ti pràman òrio to calocèri!
Tutto questo offre Vito agli amici e questo è il suo modo di battersi tùoso grico na mi ppài mbejammèno; e sa che gli siamo vicino, sa che con lui noi ci ritroviamo in semplicità, sa che, dopo esserci salutati, comunque torneremo da lui, nomèni na vresùmesta mapàle ‘s tutta méri. E la calinìfta con cui ci saluta e si congeda è, ogni volta, augurio, speranza, amicizia, che itremmèni plèo pìri chìje llumère.

antonio porzano

 

Dal musicista alla Pinacoteca

Ne avevamo parlato qui alcuni anni fa, quando quasi per caso venimmo a sapere dell’esistenza di un musicista matinese, Luigi Romano, emigrato in America, e oltre Atlantico rimasto ventisette anni, prima che la nostalgia della madre e della terra natia, ma anche – come traspare da alcune frasi in una sua lettera – alcuni rovesci economici (investimenti e risparmi divorati dalla grande crisi del ‘29?) e condizioni di vita diventate pesanti (fu forse vittima di ottuse persecuzioni maccartiste?) lo costringessero a imbarcarsi per l’Italia e a far ritorno a Matino.
Ora un volume, Luigi Romano. Un ponte di musica tra Matino e New York, promosso dall’assessorato ai Beni Culturali (retto da Antonio Costantino), e sollecitato da Serafino Giannelli, medico e figlio di Giulio, indimenticato podestà e per gran tempo medico condotto di Matino, ci propone un’antologia delle opere del musicista, reperite in tre anni di ricerche in archivi pubblici e privati, presso la Discoteca di Stato del Museo Audiovisivo di Roma (direttrice, Livia Borghetti), presso la Rai, e a New York.
In America gode dell’amicizia di Thomas Edison, che per un quarto di secolo lo coinvolgerà nel lavoro alla “Edison Phonograph Laboratories”, oltre che di Giacomo Puccini e di Tito Schipa. Ma attestati di amicizia e di ammirazione ebbe, come ricorda nel denso saggio biografico, musicologico e di sistemazione filologica degli spartiti Elsa Martinelli, docente al Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce, dai maggiori esponenti della cultura e della scienza dell’epoca, da Leoncavallo a Caruso, da Roberto Bracco al barone Fianchetti, ad Antonio Massari, a Ermete Novelli, a Mascagni, a Pratella, a Richard Strauss, a Toscanini...

Per quel che riguarda l’attività artistica del Romano, scrive Elsa Martinelli: «Stando alle fonti materiali dirette e indirette finora pervenute, l’attività di Luigi Romano, in qualità di compositore, spaziò in più di un genere musicale, avendo egli variamente composto pezzi per canto e pianoforte, pagine d’album e romanze da salotto (prediligendo in genere il registro un’opera lirica), spartiti per pianoforte solo, per mandolino e pianoforte, pezzi sinfonici, partiture per banda... Lavori... [che] rientrano decisamente nel gusto musicale dell’epoca».
Uno spirito creativo eclettico, dunque, con forti espressioni identitarie. Le sue musiche, sottolinea Martinelli, «affrontano nell’insieme temi riconducibili alla formula “Dio, Patria, Famiglia”, restando talora connotate da procedimenti di elaborazione di natura descrittiva, in particolare quando esplicitamente concepite in riferimento ad eventi ed episodi di grande risonanza della storia del primo Novecento, rimasti celebri e particolarmente vividi ancora oggi nell’immaginario e nella memoria collettiva, quali il terremoto di Messina del 1908, la guerra italo-turca (1911-12) conclusasi con l’occupazione di Tripoli, o la tragedia dell’affondamento del Titanic nelle gelide acque dell’Oceano Atlantico nel 1912. Denotano uno spirito attento ai fatti della cronaca e dell’attualità e una spiccata sensibile compartecipazione ai dolori e alle tragedie dell’uomo nel mondo».
Dal canto suo, nei prolegomeni, Francesco Libetta, celebre pianista e curatore delle musiche in antologia, in aperta polemica con chi, «all’ombra di un fenomeno sociale recentemente mercificato come tipico del Salento (eppure fenomeno comune a tutto il Meridione d’Italia; anzi, anche in Spagna se ne conservano tracce), [...] rischia di dimenticare quale ricchezza di fenomeni culturali sia la nostra musica». Il che significa una condanna senza, o con scarsissime attenuanti, per il consumismo musicale contemporaneo, in virtù del quale «il rapporto del pubblico con il palcoscenico / podio è quello che Brecht aborriva. Una inalazione passiva di divertimento e informazioni, insomma».
Questo volume antologico come sfida all’opinione pubblica, dunque: perché ci si rammenti dei giorni in cui «l’Arte era un mondo ammirato», e comunque guardato con rispetto da tutti, potenti e common people, «attraverso un Maestro di Musica che dagli Stati Uniti ritornò in Salento con un raro bagaglio di ricordi e testimonianze, come un commovente ponte musicale tra New York e Matino».
Sulla stessa lunghezza d’onda, Serafino Giannelli, il quale sostiene che è sempre necessario «ricercare per ritrovare noi stessi, per ricostruire la vita del passato che è pur sempre la stessa vita, il nostro modo di vivere, anche se il tempo e l’evoluzione della tecnologia portano a variare il nostro costume. Questa è per me l’autentica cultura che si sottrae ad ogni strumentalizzazione, che porta alla vera conoscenza del passato, che rifiuta e rifugge ogni sopraffazione».
Concludendo la sua presentazione al volume, Costantino ricorda l’altro evento, quello delle donazioni di opere d’arte, come preludio a un’iniziativa di prim’ordine, vale a dire la realizzazione di una “Pinacoteca” intitolata al pittore Gabrieli, che a Matino visse e operò, dedicandosi alla direzione dell’Istituto d’Arte di Parabita, per la sua attività pubblica, e alla creazione di splendide tele, per quella privata, quanto mai appartata e quasi volontariamente isolata.
Scrive Costantino: «… Si coglie l’occasione per rendere nota la recentissima acquisizione […] di opere di Giovanni Corallo, Salvatore Fanciano, Bruno Leo, Antonio Massari, Enzo Miglietta, Francesco Pasca e Beppe Piano...». Queste opere si sommano a quelle – numerosissime – che fanno parte della donazione Gabrieli. Non solo. Un cospicuo volume-catalogo, curato da Salvatore Luperto, ci dà infine ampie informazioni sull’ultima, generosa donazione, quella di Vittorio Balsebre, artista approdato a Lecce dopo le esperienze a Roma, dove fu a contatto con i maggiori pittori del Novecento, e a Matera, ai tempi splendidi dell’attività culturale promossa dal circolo “La Scaletta”.

Dalle presentazioni e dai brevi saggi in apertura, ricordiamo il D.G. della Banca Popolare Pugliese, Vito Primiceri, patrocinatore dell’edizione, il quale fra l’altro scrive: «…il compianto Antonio Verri […] dopo avere osservato che “abbiamo un quadro completo di quelli che sono stati i nostri maggiori creatori, ma soprattutto gli innovatori che hanno favorito lo stato di grazia della recentissima creatività artistico-poetica salentina, ovvero un microcosmo che non ha niente da temere nel confronto con altre stagioni creative nazionali […]”, non mancava di citare, fra tanti giovani e promettenti artisti e scrittori (da Toma a Errico, da Tolledi a Coluccia, da Dodaro a Massari e a tanti altri), anche il non più giovane, almeno anagraficamente, Vittorio Balsebre... In continuità con lo scritto di Verri, anche Balsebre […] non mancò di osservare qualche tempo dopo che “disgraziatamente qui nel Salento si commemorano solo i defunti. Non si suole fare festa ai vivi. È difficile che qualcuno si accorga della ‘cultura creativa’ nel momento in cui si va facendo e gli eventi dell’arte si verificano”. Che dire? […]. Faremo festa alla presenza di questo figlio vivo, autorevole e illustre non solo del Salento...».
«Gli eventi più importanti degli anni Settanta», scrive Salvatore Luperto, sono la formazione del gruppo Gramma e del gruppo Ghen. Il primo gruppo, sorto nel 1970 ad opera di Giovanni Corallo, Salvatore Fanciano e Bruno Leo, gli stessi operatori che nel 1965 con Toti Carpentieri avevano fondato il Prismagruppo. Il secondo gruppo di arte genetica, creato nel 1976 da Francesco Saverio Dodaro, in collaborazione con molti operatori salentini, tra cui Franco Gelli, Toti Carpentieri, Ilderosa Laudisa, Antonio Massari, Carlo Alberto Augieri, Armando Marrocco, Giovanni Valentini e tanti altri… Balsebre collabora con il gruppo Gramma... e aderisce (al gruppo Ghen, N.d.R.) e collabora con la poesia visiva...».
Da parte sua, Toti Carpentieri ricorda che «le inquietudini e le accelerazioni che caratterizzavano i primi anni Sessanta e che avrebbero portato a breve al fenomeno del ‘68, condussero ben presto all’eclisse del Prismagruppo ‘64, fors’anche per alcuni motivi contingenti, non ultimo quello di una diffusa e necessaria (per vari motivi) emigrazione verso il Nord d’Italia, tipica di quegli anni. Ma non ne soffocarono la forza innovatrice e quell’insita capacità all’aggregazione che nel Salento avrebbe portato, a breve, alla nascita di numerosi gruppi, quali il Centro Ricerche Estetiche, il Laboratorio di Poesia, l’Oistros, il Laboratorio per lo Spettacolo, il Canzoniere Grecanico Salentino, il Collettivo Musicale di Terra d’Otranto, il Laboratorio per un Teatro».
Così, i tre elementi rimasti a Lecce, stretti attorno alla rivista Gramma (la prima in Puglia, coordinata da Enzo Panareo, ad utilizzare l’autogestione, con interventi diretti operati dagli artisti), diedero vita al Centrogramma, che ebbe il merito di stringere rapporti e sollecitare collaborazioni internazionali. Dopo questa breve esperienza, nacque il Movimento Arte Genetica, con l’ipotesi che l’arte potesse essere «una lotta tra l’istanza genetica e la spinta dell’io alla ricerca della propria identità, storicizzando i suoni come fatti essenziali, e recuperando gli archetipi e la realtà artigianale». Promotore e volano dell’idea, Francesco Saverio Dodaro. Aderì una fitta schiera di artisti, scrittori e uomini di cultura.
Gli anni ‘70 del Novecento, scrive infine Antonio Lucio Giannone, «sono caratterizzati da una forte esigenza di rinnovamento che investe la società italiana… La contestazione studentesca e degli intellettuali, il movimento operaio e quello femminista non potevano non lasciare tracce profonde su ogni aspetto della vita sociale e culturale del Paese. Anche in campo letterario e artistico si rifiutano forme e contenuti del passato e nascono o si affermano definitivamente nuove tendenze che si oppongono a quelle precedenti, come lo sperimentalismo e la neoavanguardia, da un lato, e l’arte concettuale e quella povera, dall’altro. Carattere comune di queste correnti è la caduta delle barriere tra i vari generi, per cui ogni arte tende ad invadere i confini di quella ad essa contigua, in un continuo e generale rimescolamento dei codici espressivi».

Il Salento non rimane estraneo a tutto questo. Al contrario, si rivela – come spesso era accaduto nel passato – aperto alle novità, riaffermando in questo modo la sua predisposizione alla creatività. «Come aveva recepito prontamente altri movimenti, anche ardui ed elitari, come il futurismo, il Novecento pittorico, l’ermetismo, il neorealismo, così ora accoglie le tendenze artistiche più innovative degli anni ‘70, distinguendosi ancora una volta in tutto il Meridione. Nel corso del decennio, infatti, si formano gruppi e gruppetti d’avanguardia ed escono alcune riviste che si collocano nell’area della più avanzata sperimentazione».
Completano il testo le note bibliografiche, di Anna Panareo, una sommaria antologia critica sull’opera di Balsebre, vari documenti sui gruppi Gramma e Ghen, una sintetica bibliografia.

sergio bello

 

Spirito eroe

Senso vuoto
Tu puoi vedere la notte e la sua luce,
si infrange verso di me e divento vittima.
Fai quello che vuoi, respira in ipoventilazione
ma lasciami morire prima del passato.

Minuto eterno
Infrango il tuo sorriso con una parola d’oro,
lo stupore si affaccia dentro di te e non ne esce più,
mentre lacrime di gioia inondano i nostri pensieri.
Il futuro minaccia l’unione dei sensi ma siamo invincibili.
Scorda la paura come io ho bruciato il mio passato,
le frasi vuote ma felici che escono dal tuo cuore fanno da cornice
all’orologio fermo in mezzo al mondo. Amami amore mio, e fallo per sempre.

Movente senza crimine
Ho tanta paura di perdere ciò che amo,
solo la musica morde le mie labbra e
riesce a scoprire segni nascosti in me.
Tengo in mano ogni tuo piccolo respiro,
oscillando l’inganno in un mare colmo di silenzio
bacia il vuoto nonostante sia amore puro
e trasformi tutto in una moda.
Paura, mi rimane solo la paura,
vedo gente con gli occhi chiusi,
se aperti scorgono in me la strega da fuggire.
Mi farei prendere solo da te,
incombe la risata persa nel buio,
non ho ucciso nessuno
ma devo fare i conti con me stesso.

73 parole lontane
L’aria. È immensa. Afferrala e togli il profondo dal cuore,
e sono solo, aiutato dal cerchio e dal silenzio.
Lontano da me, posto in cui, veritiero, la luna
gioca senza essere lì, e fingere fa perdere.
Salutami. Mi piace. Occhi che ridono di te.
Stelle nel ricordo, comporre forme vicino la luce
mascherata. Mi annodano la gola, forse questo mi dispiace.
Mi salva il soffio di una bianca cascata. Perdonami ma ti amo.

Stanchezza
Lasciami morire. Lasciami affogare nel mio livido.
Voglio morire. Non è vita questa.
Sotto la paura di un’ala e fogli che valgono come vite.
Non è vita questa. Lasciami morire. Ora.

Orizzonte Viola
Guarda l’orizzonte stasera, è come se volesse dirmi che la calma
piange solitudine per colpa mia.
Mi sento spento e di premere il rosso non mi va;
chissà se magari mi andrà un altro giorno!
Gli animali assaggiano gli atomi della morte,
uccidere gli amici mi fa venire il vomito!
Basta inghiottire polvere e sangue, mi sono stufato,
ma dentro mi sento vuoto, l’anello si è spezzato e mi torna
la nausea.
Ma al di là dell’orizzonte la luce Viola mi ha preso con sé,
mi coccola e mi fa sentire diverso, importante, e ora
le lacrime escono solo grazie al sorriso.
Adoro il Viola! Mi sento un po’ miele e un po’ bambino.

Musica
Musica.
Catturami e portami via da qui, da questa terra che non sento mia,
e che forse mai sentirò.
Fammi volare sulle tue note finché l’incubo della vita non mi sveglierà,
fammi restare nel vero sogno, nel tuo sogno, e ti prego, lasciami solo.
Cambiare lo sfondo ondeggiando sulle righe, ridere e volare perso nel buio più luminoso.

Spirito eroe
Spirito. Lacera le mie ossa ed esci da qui,
mieti il mio dolore, così che io possa andar via.
La pioggia brucia i miei sensi, la nube oscura il mondo.
È arrivato?
Pezzi di muro su lastre argentate, come vecchi ricordi
di un passato che torna e divora con la gola nera.
Uccidi tu, che hai ancora la voglia di farlo,
la stanchezza non la senti e il tempo ti ha girato le spalle.
Mi fissi da lassù, ma le spine non sono mie.
Rose titubanti escono dal percorso e petali grigi
scorrono nelle vene.
Posso solo ridere del mio e del tuo dolore,
l’unica libertà concessa è questa.

Morte di una farfalla
Solo ventiquattr’ore di vita,
la trasformazione dura di più,
è come vivere nel cambiamento e alla fine sparire.
Meglio non perdere tempo allora,
e vivere tutto il tempo che resta al massimo.
Gli splendidi colori e le porpore si perdono sotto un albero,
tra l’indifferenza dei passanti e la magia del mistero.

Diversità di pensiero
Tra due quadrati ho imparato a respirare sott’acqua,
se questo vuol dire soffrire non importa,
se vuol dire credere in qualcosa, ha perso la sua importanza.
Mi ritrovo attore in un film di cui non ho accettato la parte,
non è questione di soldi o di testa,
ma di morire proprio non mi va.
Cinque o più anime che girano creando dolore. Ma perché?
Una trasfusione di pensiero incompatibile,
ma la colpa non è nostra, il potere trasforma le persone e crea soggetti vittime del boia.
Ma la colpa non è nostra. Non ora almeno.

 

   
   
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