Sopravvive
lItalia delle
Signorie e lazione calmieratrice del governo, anche quando
è voluta, non è incisiva,
resta monca
per deficit
di grammatica
e di sintassi.
|
|
Nel balletto delle ombre che ogni giorno manda in scena la nostra
classe politica si avverte un fruscio di ali. Tra le quinte, dove
più si logora laplomb del Palazzo, si agitano fantasmi
pensosi nel tentativo di accreditare una nuova interpretazione del
bipolarismo, con minore dipendenza dai detriti che lo rendono immaturo.
A sinistra, qualche anno fa Ds e Margherita avevano affidato ad
un Club di 12 saggi la stesura di un Manifesto, preludio al Partito
Unico, soggetto istituzionale ritenuto necessario per migliorare
la cultura di governo. Altra cosa è il passaggio successivo,
il rito dei Congressi di fine stagione, il collaudo della Casa comune,
la morfologia del nuovo apparato. Se il nuovo soggetto politico
porterà a sintesi il dialogo tra affinità difficili.
Se saprà dare valori nuovi alla ragione laica. Se incoraggerà
la crescita indicando rotte che non procurino turbolenze di mercato.
Se saprà costruire formule originali di venture capital sociale.
Tutti questi Se procurano trepidazione mista a pessimismo e fanno
arricciare il naso ai portatori di istanze per una modernità
governabile. Il Partito Democratico sarà evento di portata
storica se sarà portatore di una cultura politica innovativa,
se saprà assorbire e modellare il sentimento di clandestinità
di presenze senza interruzione di memoria.

Anche a destra si cerca di dare vita ad un nuovo soggetto politico
(Federazione o Partito Unico?). Anche qui lobiettivo è
giungere ad uno schema monolitico, con unica leadership e unica
regia. Se ne parla tra duelli neocon di nuova e vecchia fattura,
tra strappi sospesi e accelerazioni improvvise. Facendo uso di mondanità
salottiera, sorrisi al vetriolo, pensieri in cassaforte.
Stiamo arrivando ad una stazione di testa? Ad un finale wagneriano
celebrativo di personalismi impoveriti? Per ora nei logo si vedono
colori di Belzebù. Resta una fatica di Sisifo uscire dal
pantano immobilista, in cerca di soluzioni aderenti alle esigenze
di governance ora affidate al pendolo dei transfughi. Trame effimere
costruite sul voto marginale, affidate a libellule svolazzanti tra
i protettorati del corvo e del gufo. Per raccontare storie di sopravvissuti
con gambe rotte e ingessate. Cambia il contenitore ma restano le
ambizioni frastagliate della vecchia-nuova dirigenza. Di solito
gli imperi muoiono per implosione, difficilmente sopravvivono per
rifondazione. Ma quando grande è il disordine sotto il cielo,
quando linflazione della rappresentanza crea un oligopolio
politico che privilegia la società semi-chiusa, ogni refolo
di vento rinfresca latmosfera.
Cerchiamo di decriptare i messaggi.
La Magna Charta di sinistra non prefigura virtù magiche,
è il risultato di un onesto lavoro di laboratorio, il tentativo
di saldare lanima cattolica e lanima socialista, due
patrimoni illustri della nostra storia unitaria. Documento necessariamente
generico per la sua funzione-cornice, apprezzabile per alcune riflessioni
sullimpegno civile, sui rapporti con le religioni (apprezzato
il plurale in un momento di forte contrapposizione), sulla crescita
di democrazia ancorata allo sviluppo economico e culturale. Non
cè una teoria dello Stato o delle forme di governo,
si avvertono invece tanti stimoli per lapprofondimento di
istituti giuridici con cui ricucire i rapporti deteriorati tra diritto,
economia e società. «... Siamo convinti che lItalia
abbia bisogno di una cura straordinaria di concorrenza nei mercati
e di efficienza nel settore pubblico... Per promuovere un maggiore
riconoscimento del merito, una più forte mobilità
sociale, una più avanzata uguaglianza delle opportunità.
Più concorrenza anzitutto».
Sembrano messaggi per la società finlandese più che
per quella italiana. Formule buone per ogni stagione liberista,
difficilmente praticabili da noi per il dominio di un disfattismo
della ragione che nega ogni spazio alle necessità condivise.
È il nostro limite sulla via della stabilizzazione.
Il liberismo è costume e metodo, «un modo di ragionare
più che una dottrina economica» (parole del Governatore
Draghi). Oltre laneddotica non offre caratteri di modello,
talvolta acquista notorietà per essere al centro di dibattiti
politici come prova di dialogo senza comunicazione. Viviamo una
stagione di grandi e piccole mistificazioni. La voglia di liberismo
scompare quando si tenta di fare la cresta ai micropoteri. Lidea
della concorrenza non piace a nessuno, è unidea anti-Vip
che talvolta si traduce in papocchio legislativo.
Quella parte del sistema industriale che opera su base tariffaria
(luce, acqua, gas, trasporti) garantisce soddisfacenti prestazioni
per prezzi, costi, tecnologie e processi produttivi? La risposta
è negativa se si guarda alle denunce di cartello, alle continue
dispute tra gestori e Authorities. Sopravvive lItalia delle
Signorie e lazione calmieratrice del governo, anche quando
è voluta, non è incisiva. Resta monca per deficit
di grammatica e di sintassi.

Lapproccio allinternazionalizzazione avviene in ordine
sparso (una curiosità: perché le banche italiane si
ritirano dal Brasile mentre arrivano le banche spagnole?). Domina
una cultura levantina delleconomia, fatta di furbizie e di
privilegi, di finanza e di patrimonializzazione più che di
economia di scala e professionismo industriale. Quando pezzi pregiati
del nostro sistema industriale rischiano la via dellestero
politici e sindacalisti si preoccupano e si ricompattano perché
temono di dover giocare partite con regole diverse da quelle cui
sono abituati (trattative ad oltranza per cassa integrazione e prepensionamenti,
tavoli di concertazione senza fine per progetti di rilancio). Allombra
dellorgoglio nazionale i poteri si attivano e si danno sostegno
reciproco nel timore di essere spiazzati da operazioni destabilizzanti.
Avremmo bisogno di un mercato finanziario robusto e vitale per dare
impulsi di crescita alla grande impresa (con lindotto della
formazione, della ricerca, dellinnovazione). Invece abbiamo
un mercato finanziario asfittico, governato quasi in solitudine
dalle Fondazioni bancarie. Mancano i grandi investitori istituzionali
non legati alle banche per cui linteresse allo sviluppo non
riesce a sottrarsi ad inevitabili condizionamenti di monopolio e
oligopolio. Tra realismo e magia spuntano sempre ragioni di opportunità
che generano Club ristretti. Linteresse collettivo resta residuale,
come dimostra il tema spinoso della tutela delle minoranze delle
aziende quotate. Nelle situazioni di crisi abbiamo suggerito più
volte il ricorso alla public company (lo abbiamo detto per Fiat
e ripetuto per Alitalia e Telecom), ma ci rendiamo conto che questa
ipotesi di lavoro può essere vagliata solo a seguito di una
rivoluzione copernicana. Nellera tolemaica in cui ci è
dato vivere cresce la conflittualità tra le istituzioni,
si rafforza in economia la logica dei blocchi azionari di controllo
in cui la componente finanziaria prevale sul progetto industriale.
Crescono i diritti affievoliti prodotti dalla cultura del perdonismo
(presenza di zone franche non solo nelle banlieues, ampliamento
dei comportamenti delittuosi e omertosi al punto di valorizzare
le tendenze autarchiche del fai da te). Si fa fatica a non avvertire
nostalgia per lo sviluppo del dopoguerra, quando i rapporti Stato-Paese
erano fortemente dialettici ma sempre socialmente costruttivi.
A fronte di una realtà cristallizzata abbiamo una crescita
pallida, attestata attorno al 2%. Se scomponiamo questo dato troviamo
una crescita di minoranza (con vitalità di settori
a basso valore aggiunto) e una base imprenditoriale largamente inerte
(si perdono quote di mercato a vantaggio di India e Cina). Dunque
crescita di élite, non crescita di popolo. Manca leffetto
trainante, il contagio del rischio e dellavventura che dalla
nicchia si espanda producendo storie di accanimento terapeutico.
Manca ciò che Gianni Agnelli, ragionando di capitalismo,
definiva know-how di sistema.
Se il lessico descrittivo non coincide con il lessico prescrittivo
e questo non coincide con le pratiche operative, il sistema si inceppa.
Con preoccupanti conseguenze sociali, poiché le classi imborghesite
si sono nuovamente sfilacciate raggruppandosi attorno a tre status
di nuovo conio: gli intoccabili, gli immobili e i precari. La polarizzazione
dei redditi, con effetto schiacciamento per le classi medie, non
può valorizzare il merito, i doveri della professionalità
e della responsabilità. Cè bisogno di più
vitalità e meno vitalizi, di un modello sociale flessibile
per ridurre le paure della globalizzazione, rafforzando la capacità
competitiva. Invece tra pratiche provinciali o voglia di mondializzazione
viviamo una crisi strutturale innervata nella società. Siamo
nel bel mezzo di un dilemma. In un mondo di gobbi o cerchi un sarto
che ti faccia il vestito con la gobba o cerchi un chirurgo che corregga
la gobba. Le riforme che servono a togliere le gibbosità
del sistema devono maturare nella società, devono costituire
unoccasione di emancipazione della coscienza individuale,
fino a creare rigetto per i mille rivoli di sovranità limitata
che popolano linvolucro statual-nazionale.
In linea con le nuove categorie globali ispirate da unetica
antropocentrica hanno bisogno del conforto convinto della pubblica
opinione, non solo del consenso governativo risicato, sindacalmente
contrattato. Si leggano gli studi sulla crescita di Robert Solow.
Dovrebbero diventare la Bibbia di coloro che in Italia si occupano
di economia e di politica. Rispetto agli economisti, i politici
hanno in più il problema del consenso. Ma sulle riforme non
si può conquistare consenso sociale con sentimenti borderline
presenti in ogni trasloco di Palazzo. Ai No delle lobbies e degli
apparati economici pubblici si aggiungono i No di pezzi di società
ostili al cambiamento (Tav, rigassificatori, nucleare). Tanti No
infilati nel tritacarne della politica per speculare sul consenso
sospeso tra Progresso, Ambiente e Mercato.
Mentre il tempo della politica corre tra stagioni congressuali e
tornate elettorali, diventa sempre più difficile contrastare
il dissenso frondista che produce freakonomics, economie eccentriche
ed estemporanee che ritardano limpostazione generale delle
politiche di sviluppo (spese produttive e investimenti infrastrutturali).
In un tessuto sociale sfilacciato puntellare il bipolarismo rinverdendo
semplicemente le alleanze di potere sa più di tattica che
di strategia. Abbiamo voluto una moneta forte ma non abbiamo la
cultura di una moneta forte, che si identifica con una scacchiera
composita di sinergie tra volontà collettive e volontà
istituzionali. Coltivando tenacemente lagio effimero dellimmobilismo
il Paese resta diviso tra due subculture in conflitto, quella del
perfettino-integralista e quella del riformista-casual chic. Abbiamo
in vetrina un futuro ignoto e un passato dalle tracce indelebili
che produce spinte inerziali.
«Non oscuratemi il sole», griderebbe il poeta croato
Andelko Vuletic. Abbiamo numeri ancora gestibili, ma non abbiamo
la rotta per uno sviluppo di sistema. Per uscire dal labirinto delle
contraddizioni tra realtà e rappresentazione, tra spirito
nazionale e patriottismo economico, tra risiko politico e governo
del Paese reale.
Chi ritiene che il consolidamento della competizione bipolare possa
servire a trovare la rotta deve fare i conti con un tasso di frazionismo
in crescita esponenziale (nonostante il rinnovato slancio per i
sogni unitari), con una cultura maggioritaria inesistente, con riforme
della Costituzione sospese, con un Paese ripiegato su una fitta
rete di poteri autoreferenziali. Cresce linquietudine del
contribuente-consumatore mentre Mr. Brontolo resta parcheggiato
a metà strada, tra una suite dellAncien Régime
e un pensionato della modernità liberale. Naturalmente si
giudicano i fatti, non le recite e le buone intenzioni. Bisogna
capire quale sarà leffetto sistema del nuovo corso
politico. Noi ci limitiamo a suggerire lattenzione per un
antico adagio cinese: Se si vive nellanno della Tigre,
non si può consumare il cibo dellanno del Coniglio.
|