E intanto
continuava
lazione genocida, che vide cadere forse ventimila, forse trentamila
uomini nellarea delle foibe.
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È di pochissimo tempo fa listituzione di una Giornata,
grazie alla quale si ricordano coloro i quali furono trucidati nelle
foibe, ai giorni della pulizia etnica scatenata dagli jugoslavi
contro i civili istriani, colpevoli soltanto di essere italiani.
Ignoto il numero esatto dei morti. In 350 mila furono costretti
ad abbandonare case e terre, luoghi della memoria e degli affetti.
E, giunti in Italia, si ebbero solo disprezzo, abbandono, esilio.
Fin solo a poco tempo fa: perché il tempo ha fatto giustizia
dei comportamenti ignobili di chi, in nome dellideologia,
fece scendere il silenzio sulla storia di un massacro etnico e sui
progetti di tradimento perpetrati ai danni dellItalia e in
favore dellespansionismo territoriale di Belgrado. Tornerò
fra poco sul tema.

Perché dimenticati, nel furore iconoclasta di certe parti
politiche italiane, non furono soltanto gli istriano-dalmati. E
stravolta non è stata solo la storia recentissima e recente,
ma anche quella di due secoli fa, la storia risorgimentale, svilita
non perché vista, ad esempio, da una prospettiva meridionale
lUnità che ne era conseguita aveva dato origine
ad una delle guerre civili che hanno insanguinato la Penisola, fatta
passare per lotta al brigantaggio, ma per fini demolitori portati
avanti da una cultura ingaggiata e servile.
Che cosa sta accadendo? È da tempo che i più illustri
commentatori e gli accademici di grido si sforzano di avvisare gli
italiani del complotto storiografico catto-papista che si sta sviluppando
nel nostro Paese, con il proposito di delegittimare lo Stato italiano
e nello stesso tempo di riabilitare il potere temporale dei Papi,
mettendo sotto accusa il Risorgimento, stratificando menzogne e
calunnie dogni tipo sui Padri della Patria, compreso Garibaldi,
del quale ricorre il bicentenario della nascita, celebrato con una
mostra di terzordine a Genova, e passato quasi del tutto sotto
silenzio nel resto dItalia, e sempre osservando una regola
singolare, quella di non fare mai un nome: soprattutto, mai il nome
di uno degli autori nei cui libri il complotto anti-italiano avrebbe
preso forma, e mai il titolo di uno di questi libri.
Scrive Ernesto Galli della Loggia: è facile capire perché
è necessario che su tutto questo cali il silenzio: perché
per alimentare lidea del complotto catto-papista, per sostenere
che ci troviamo di fronte a una pura operazione politica, che i
suoi autori sono mossi da puro odio ideologico e basta, e dunque
per continuare a mantener viva e feroce lastratta contrapposizione
a ruoli fissi tra laici e cattolici è
assolutamente indispensabile che non si entri mai nel merito, che
mai e poi mai si discuta di un fatto preciso, di un provvedimento
specificato, di una decisione chiaramente indicata. Occorre invece
che il tam tam della guerra cartacea faccia credere che dietro i
giudizi storici che non ci piacciono cè solo il nulla,
la cialtroneria, e naturalmente la più bieca strumentalizzazione.
In questo modo, diventa impossibile anche lovvia distinzione
tra nuovi documenti, scavi darchivio spesso significativi
e invece le conclusioni dei sunnominati lavori, spesso opinabili
o non del tutto condivisibili. O da leggere con rigorosa aporia,
per lo stesso sovraccarico di pregiudizio ideologico che una trentina
di anni fa animava, per esempio, la storiografia meridionalistica
di classe, anchessa nemica giurata e indiscriminante
del Risorgimento (basti ricordare i vari Zitara, Misefari, Carlo,
Capecelatro
) e carissima al movimento studentesco che ne sollecitò
(con successo) ladesione in decine di corsi universitari.
Chissà perché, però chiosa Galli della
Loggia gli attuali superpatrioti dellAccademia e del
Giornalismo allora non vedevano complotti anti-italiani, non lanciavano
pubbliche grida di allarme, soprattutto si guardavano dal firmare
appelli contro. Fino al momento in cui Alessandro Galante
Garrone intimò la conclusione della campagna denigratoria;
un gruppo di storici, tra i quali Massimo L. Salvatori e Nicola
Tranfaglia, invocò la riscossa dei laici per contrastare
loffensiva clericale; e Alberto Asor Rosa richiamò
addirittura la lezione di Rosario Romeo, ma evitando accuratamente
di menzionare il clima di ottuso ostracismo che la cultura marxiana
aveva decretato ai danni di uno studioso liberale che, voce solitaria
nel deserto, si interrogava sullindebolimento del sentimento
nazionale nellItalia repubblicana.

Provvidenzialmente è il caso di dire oggi
un giovane storico, Claudio Novelli, col suo lavoro Il Partito dAzione
e gli italiani ci consente di ricordare che negli anni Trenta e
nei primi anni Quaranta fu proprio nel cuore della cultura giellista
e azionista, i cui epigoni oggi sono in prima linea nella difesa
del mito di fondazione dellItalia unitaria, che riecheggiarono
gli strali più feroci e acuminati contro il Risorgimento.
In netta contrapposizione con il tarato carattere degli italiani,
non temprato da un qualche evento paragonabile alla Riforma protestante,
e in opposizione alla retorica fascista che amava rappresentarsi
come compimento del moto risorgimentale (motivo ripreso dallaltra
retorica, quella resistenziale), nella cultura di area azionista,
infatti, affiorarono i sintomi di una revisione più o meno
radicale della storia nazionale che intendeva risalire criticamente
alle vicende risorgimentali, nel solco tracciato dallanalisi
gramsciana dei Quaderni del carcere, che in realtà lautore
(che ammirava Ford) aveva intitolato Americanismo e Fordismo, e
dellinterpretazione gobettiana del Risorgimento senza eroi.
Da qui, il tono esasperato, veemente, contro unesperienza
realizzatasi sotto la guida della monarchia piemontese, che poi
si trasformò in una vera e propria conquista regia. E da
qui il giudizio di Andrea Caffi, che su Giustizia e libertà,
nel 1935, liquidò il Risorgimento come un residuo di vanità
nazionale da mandare in soffitta. Per non dimenticare: alla impostazione
revisionista, maggioritaria allinterno dellazionismo,
e che spesso assunse toni asperrimi, non aderì Adolfo Omodeo.
Messo in un cono dombra solo Garibaldi? Consegnata a un caliginoso
smemoramento o stravolta soltanto la guerra civile
post-unitaria? Esiliate esclusivamente le foibe? No. Quando il Piave
mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti, il 24 maggio
1915, i soldati del Regio Esercito sapevano bene quel che li aspettava.
Ovunque, in Europa, la Grande Guerra era scoppiata da dieci mesi,
e la portata dei massacri era sotto gli occhi di tutti. Sui fronti
occidentale e orientale si moriva giorno e notte, ininterrottamente,
in unorrenda poltiglia di terra e di carne, di fango e di
sangue. Il Vecchio Continente si stava suicidando tra il frastuono
degli obici, le esortazioni gridate dagli ufficiali, i lamenti dei
feriti e dei mutilati, gli slogan che i retori lanciavano dalle
retrovie. Nondimeno, quel 24 maggio i soldati italiani mossero disciplinati
verso le zone di guerra del Carso e delle Dolomiti. Avrebbero trovato
la morte in centinaia di migliaia.
È stata raccontata molte volte la storia dei nostri soldati-contadini,
artigiani, pescatori, paesani liguri abruzzesi lombardi
lucani sardi pugliesi, veneti, siciliani umbri, che diventarono
italiani nelle trincee, combattendo per città
come Trento e Trieste che non sapevano nemmeno collocare sulla carta
geografica. E giustamente si è insistito sulla tragedia di
una mobilitazione meccanica, sulla follia che portò politici,
intellettuali e industriali a trascinare al massacro una generazione
di giovani analfabeti in nome della guerra «sola igiene del
mondo».
Meno spesso, o quasi mai, si è raccontata laltra storia,
quella piccola ma istruttiva, dei giovani trentini e giuliani che
nessuno obbligò a combattere per lItalia, ma che scelsero
di farlo perché sentivano che era una cosa giusta: la storia
dei volontari irredenti, che anziché arruolarsi
tra le file dellesercito austro-ungarico, (come dovettero
fare decine di migliaia di coscritti del Trentino e della Venezia
Giulia, che combatterono sotto le insegne dellimperatore Francesco
Giuseppe), disertarono e attraversarono il fiume in senso inverso
ai fanti del 24 maggio, per indossare luniforme dei Savoia.
Furono un migliaio, o poco più, quelli che consapevolmente
compirono questa scelta.
A dire il vero, alcune vicende sono state raccontate, (quella di
Cesare Battisti e dei Martiri di Belfiore, quella di Nazario Sauro
).
Ma solo durante il Ventennio, e qualche anno dopo soltanto. Dopodiché,
credo per pregiudizio pacifista, volti e voci di questo migliaio
di italiani sono stati cancellati dalla nostra memoria
collettiva. Nel mezzo secolo e passa in cui si è additata
ad esempio la scelta della Patria di quanti combatterono nella Resistenza,
non è sembrato opportuno insistere nella vicenda di chi,
trentanni prima, aveva scelto per Patria lItalia di
Vittorio Emanuele III e del generale Cadorna e, in seguito, del
generale Diaz.
Solo da poco alcuni volti emergono dallombra, alcune voci
riecheggiano dallovattato silenzio: sono per lo più
volti di studenti, che ritroviamo impettiti nelle uniformi di soldati
o di sottufficiali, orgogliosi di fronte allobiettivo del
fotografo italiano; e sono voci di giovani per i quali landare
in guerra non ammetteva discussioni.
Nelle lettere scritte fra un assalto e laltro, dal fango di
una trincea o dalla corsia di un ospedale da campo, oggi scopriamo
parole che potrebbero appartenere a qualche kamikaze irakeno, palestinese
o afghano, per la determinazione a sacrificare la vita per una causa
riconosciuta giusta, necessaria, santa. Qualche esempio, dai documenti
esposti di recente in una mostra a Rovereto. «Sinora non ho
ammazzato nessun tedesco perché non ne ho avuto occasione.
Spero tra poco» : così, il 23 giugno 15, Mario
Angheben, studente universitario di Lettere, che non sarebbe arrivato
al Capodanno, ucciso sul Monte Baldo a ventidue anni. E se il suo
odio contro i teutoni poteva avere qualcosa di libresco, non si
rivelavano meno risoluti alcuni volontari di estrazione popolare:
un falegname, Luigi Bonvecchio, («Non potete immaginare la
soddisfazione che si prova a vedere questa gente umiliata fino alla
midolla delle ossa»); o un tipografo, Arnaldo Riccardi, («Noi
volontari la morte non ci fa paura»).
Lettere straordinarie sono dovute alla penna di Fausto Filzi, fratello
di quel Fabio, lui stesso volontario irredento, che
fu impiccato con Battisti nella Trento del 1916. I due erano figli
di un istriano che insegnava Lettere classiche nel liceo di Rovereto.
Solo Fausto aveva fama di gaudente. Senza finire gli studi, aveva
lasciato limpero nel 13, dopo aver ferito in duello
un ungherese. Fuggito in Argentina, aveva vissuto di espedienti.
Fino a quando, saputo della cattura e dellimpiccagione del
fratello, era tornato in Italia e aveva indossato la divisa del
Regio Esercito. Quel che rende impressionanti le lettere di Fausto,
scritte nellinverno del 16-17, prima di cadere
ucciso sullAltopiano di Asiago, è lassoluta,
spaventosa autocoscienza di chi le ha firmate: esattamente il contrario
del volontario reso cieco dalla causa, fanatico senza discernimento,
quale si è tentati di pensarlo. A un amico di gioventù,
lartigliere Filzi non nasconde il rimpianto di quel che aveva
lasciato al di là dellAtlantico: «Divine serie
di cosce cicciute e di poppe erette
». Ma a Emma de Chiusole,
che era stata fidanzata del fratello Fabio, raccontava lattrazione
per la prima linea: «Là avrò tutti i disagi,
sarò ferito, forse troverò la morte, forse resterò
mutilato; io ci penso a tutte queste cose, eppure son certo che
non resterò deluso delle mie idealità, che a te sembrano
esagerate
». Poi, il Fausto Filzi che, memore del fratello
ignominiosamente giustiziato, usa il corpo come unarma nelle
guerre dellodio: «Emma, credilo che quando penso che
mi sarà dato finalmente di poter essere vicino, vicinissimo
ai grugni austriaci, quando penso che una mia bombarda ne potrà
frantumare una decina, credilo, Emma, che non posso pensare né
alla mamma, né al papà, né a me, a nessuno
».
E in una delle ultime lettere: «Io non riesco a convincerti,
lo so, che faccio bene a far così, a voler io andare incontro
alla morte, e per una ragione molto semplice, perché son
convinto io stesso che faccio male. Perdonami almeno tu, se un giorno
non potrà perdonarmelo la mia mamma».
Più dimenticati degli altri, i sudditi austriaci di lingua
e di nome italiano: trentini, triestini, friulani, giuliani, dalmati,
i quali, nella Grande Guerra, morirono sui fronti orientali, in
Polonia, in Russia, nei Carpazi, (era lì che, per opportunità
militare e politica, venivano inviati i soldati delle zone di confine,
e, perciò, a rischio di familiarizzare col nemico), combattendo
per una patria che due, tre anni dopo non sarebbe più stata
la loro, in luoghi del tutto estranei, tra gente di cui non capivano
la lingua e non conoscevano né la storia né le tradizioni.
Per loro, niente monumenti, niente lapidi, niente memoriali. E niente
mostre o convegni, niente ricerche storiografiche: militi ignoti
per antonomasia, caduti per mano di nemici che probabilmente non
sapevano neppure di avere, in regioni lontane, delle quali forse
molti non avevano mai sentito parlare.
Fin dagli ultimi decenni del secolo precedente, la società
si era spaccata: da una parte, gli italianissimi, dallaltra
gli austriacanti. E, comè noto, i primi
si contavano soprattutto nella classe colta, informata, tra intellettuali
e professionisti, i quali si aspettavano grandi cose soprattutto
in campo economico dallannessione allItalia delle
loro province ampiamente trascurate dal governo centrale di Vienna.
E furono in particolare costoro che, nel 15, si unirono alle
truppe italiane. A volte anche abbandonando la divisa austriaca
per indossare laltra; a volte senza neanche il bisogno di
questo passaggio, dal momento che si erano preventivamente spostati
al Sud, oltre il confine, evitando larruolamento nellesercito
imperiale.
Gli altri, gli austriacanti, erano, con qualche rara eccezione,
per lo più contadini conservatori per antropologia
culturale e per esigenze di mestiere boscaioli, braccianti,
operai: insomma, la classe sociale sulla quale aveva forte presa
la Chiesa, notoriamente filo-austriaca e tutrice del sacro ordine
antico.
Partirono, questi giovani sudditi, spopolando le campagne e le valli,
non pochi di loro ben decisi, in risposta allappello dellimperatore
Francesco Giuseppe, Ai miei popoli, a difendere ad ogni
costo la cara Patria; mentre altri sicuramente i nuclei più
numerosi, i gruppi maggioritari avevano indossato le divise
dellEsercito Imperiale perché erano venute meno la
lungimiranza e laccortezza politica per capire levoluzione
dei tempi. Tutti quanti, molto più probabilmente, perché
obbedire è sempre meno complicato e pericoloso che ribellarsi.
Niente gloria, dunque, per tutti questi giovani coinvolti nellincendio
al calor bianco che annientò la potenza secolare dellEuropa.
E, purtroppo, assai poca o nessuna memoria visibile sui fronti,
al margine delle trincee, nelle città dorigine, in
un qualche sacrario dedicato, in Austria o in Ungheria. Condannati
alloblio che la Storia assegna come condanna senza appello
agli incolpevoli sconfitti.
Abbandonare casa, terra e piccola Patria per mantenere la propria
identità e per continuare a parlare la lingua degli avi;
oppure restare, ma cambiare tutto e forse, alla fine, dover lasciare
comunque ogni cosa per trasferirsi in unaltra parte dItalia
o addirittura in Africa: il dramma degli abitanti del Sud Tirolo/Alto
Adige subito dopo la fine della Grande Guerra e al momento dellintesa
Mussolini-Hitler è un fatto storico di cui si è sempre
scritto poco e che può essere capito solo lasciando parlare
i protagonisti. «Scorrono lacrime a torrenti, le notti vengono
passate insonni, abbattuti giriamo intorno, incerti dellesecuzione
di queste disposizioni
»: migliaia di lettere scritte,
intercettate dalla polizia italiana, tradotte e conservate nellarchivio
del ministero dellInterno, prima di essere pubblicate allinizio
del nuovo millennio (Le lettere aperte 1939-43: lAlto Adige
delle Opzioni). Lettere di italiani, documenti ufficiali, ma soprattutto
missive di altoatesini di lingua tedesca o ladina, identificati
allepoca come allogeni (di etnia diversa), e dunque
sospetti per definizione e sorvegliati dalla polizia militare, dalle
questure e dallOvra. Unopera ciclopica, dal momento
che venivano vagliate circa trentamila lettere al giorno.

Passati per trattato di pace dallImpero Absburgico allItalia
da pochi anni, traumatizzati dal regime fascista che voleva italianizzarli
ad ogni costo, gran parte degli altoatesini guardarono dapprima
con speranza alla politica hitleriana, allannessione dellAustria,
alloccupazione dei Sudati in Cecoslovacchia. Entusiasta, scriveva
frate Patrik dal convento dei cappuccini di Merano, il 19 gennaio
1939: «Si calcola con assoluta certezza
che alla fine
di febbraio, infallibilmente però alla fine di marzo, il
Sud Tirolo sarà redento!». E il 24 maggio tale Edda
comunicava a Trude Brigl, di Innsbruck: «Qualcuno racconta
che il 20 giugno saranno chiuse tutte le scuole per dar quartiere
alle truppe tedesche».
Ma Hitler aveva altre intenzioni, anche perché riteneva lItalia
unalleata indispensabile. LAlto Adige era solo una pedina
di scambio. Lannuncio che il confine del Brennero sarebbe
rimasto per sempre inviolabile diede il primo colpo alle attese
dei tedeschi della provincia di Bolzano. Poi giunse laccordo,
sottoscritto il 23 giugno 1939, al quartier generale delle SS, tra
Himmler e il prefetto di Bolzano, Mastromattei. I residenti che
avevano conservato la cittadinanza austriaca, e ora dopo
lannessione tedesca, (undicimila), se ne dovevano andare
subito. Gli allogeni (duecentomila, più diecimila ladini)
avrebbero avuto più tempo per scegliere. In realtà,
poi, i tempi si ridussero a poco più di due mesi, per via
dei contrasti insorti tra Italia e Germania.
Reazioni di sconforto: «Così dunque ha agito leroe
tedesco Hitler!», scriveva il 3 luglio il meranese Josef Maurer;
o di rabbia: «Hitler viene qui chiamato il più grande
bolscevico del mondo», sosteneva una lettera spedita da Lagundo
a Martino Macule, di Monaco.
Poi venne il tempo dei dubbi laceranti. Che fare? Scriveva la sorella
a Giuseppe Steinkellner, in Germania: «Saranno distribuiti
dei moduli per sottoscrivere se si vuole andare in Germania oppure
rimanere italiani». E Giuseppe Moling, ladino della Val Badia
che non optò, racconta: «Ci dicevano che se rimanevamo
dovevamo andare tutti in Sicilia».
Il Reich voleva un plebiscito: tutti in Germania, per dimostrare
che il Sud Tirolo era tedesco. Roma dapprima non reagì, poi
decise di mobilitarsi per trattenere la popolazione (e non dover
pagare gli indennizzi per lAlto Adige, «un pezzo di
Patria già pagato con il sangue»). Accavallandosi,
le voci creavano molta confusione: «Ci daranno masi identici
nel Tirolo del Nord»; «Chi resta andrà nelle
vecchie province meridionali del Regno, in Sicilia e perfino nella
Libia»; «Potremo scegliere tra Albania, Tripolitania
e Abissinia». Ben presto, però, la prospettiva per
gli optanti divenne meno rosea: «Ci è stato inibito
di stabilirci nel Nord Tirolo»; «Si parla della Polonia,
di Zakopane
Sorgeranno nuove Bolzano, Merano, Bressanone».
Poi, con il Blitzkrieg a Est, spuntarono destinazioni come lUcraina
e persino la Crimea.
La realtà fu più vicina allincubo. Dalla Germania
pervenivano notizie catastrofiche. E tutti gli altoatesini abili
finirono sul fronte orientale (i cimiteri lo testimoniano con le
lapidi dei caduti a Stalingrado, a Kursk, a Orjol
). «Qui
non siamo che schiavi, e guardati come scemi sudtirolesi»,
scriveva Luis Frenes, uno della Val Gardena. E Sebastian Arnold,
di Bressanone, aggiungeva: «Non siamo considerati e non veniamo
trattati come veri tedeschi». Per anni i civili (se ne andarono
in sessantamila) rimasero bloccati nei campi profughi, senza lavoro,
senza cibo. «Lemigrazione è il più grande
inganno che sia mai esistito», scriveva Toni Plattner, da
Innsbruck, alla madre rimasta a Bressanone. Unultima ubriacatura
di assurdo entusiasmo giunse a ridosso dell8 settembre 43:
«Questa mattina il Fuhrer è entrato nel Sud Tirolo
ed ora siamo finalmente liberati dalloppressione degli italiani»,
vergava Johann Staffler dalla Val dUltimo. Laccoglienza
per le truppe germaniche era stata entusiastica: «Le ragazze
di Appiano sono andate incontro ai soldati con fiori, frutta, pane,
liquori e leccornie». Immediatamente dopo, la stagione delloccupazione
tedesca si sarebbe rivelata tragica, con la caccia ai renitenti
alla leva fienile per fienile, baita per baita, e con le atrocità
commesse da un esercito sconfitto e senza speranza. Oggi i tedeschi
li hanno quasi del tutto dimenticati. Gli austriaci li ricordano
con nostalgie tenute a bada dai Trattati bilaterali e affievolite
dalla prospettiva della Patria europea.
Era accaduto agli italiani che, nel nome delle speranze di fratellanza,
di giustizia e di libertà dei popoli, avevano abbandonato
la terra natale per trasferirsi nella Grande Madre Russia (sovietica),
i più ideologizzati, o verso la contigua Jugoslavia coloro
i quali comunque intendevano vivere in un paradiso comunista.
Erano partiti con nel cuore lentusiasmo dei neofiti e in testa
limmagine di una vita felice finalmente raggiungibile. Si
trovarono, di lì a poco, isolati, ghettizzati, costretti
ai lavori forzati, chiusi in prigione, giustiziati senza processi
e senza colpe, tranne quella di aver creduto allavvenire di
democrazia compiuta che sarebbe stata la devastante illusione prospettata
dal totalitarismo stalinista.
(E per ritornare al tema del Tirolo-Alto Adige, attualmente, tra
Bolzano cioè lItalia e lAustria
è in corso una sfida di natura diversa. Dopo lo scippo
di Oetzi, la mummia di Similaun diventata una star, Vienna ha deciso
di correre ai ripari, rimisurando i confini lungo le Alpi Carniche,
nel Tirolo dellEst. «È da 35 anni che non facciamo
un controllo», sostengono gli austriaci, tutori di una terra,
lAlto Adige, appunto, che ha vinto già una volta il
contenzioso, per una questione di pochi metri. Era il settembre
1991. I coniugi Simon trovarono proprio sul crinale di confine la
mummia e diedero lallarme. Italiani e austriaci arrivarono
in un baleno, ma lalpinista Reinhold Messner fu bruciato sul
tempo dai tirolesi, che giunsero sul giogo di Tisa con un elicottero,
raccattarono Oetzi di volata e se lo portarono via. Si aprì
una contesa politico-geografica, con doccia gelida finale per Vienna:
la mummia si trovava in territorio italiano, perché le pietre
confinarie si erano spostate da sole, insieme al ghiaccio, di 70
lunghissimi metri: uno smacco, perpetuato negli anni dallaver
visto Oetzi diventare unattrazione turistica per centinaia
di migliaia di visitatori ogni anno.
Ma i confini italo-austriaci erano stati protagonisti di un altro
caso clamoroso, quello di Karola Unterkircher, la vivandiera degli
Schutzen implicata nelle bombe di Ein Tirol. Costei
fu attirata in trappola a Passo Rombo. Ricercata in Alto Adige per
gli attentati degli anni Ottanta, si era incontrata sul valico
ovviamente sul versante austriaco con un suo presunto amico,
che in realtà era al soldo dei carabinieri italiani del Ros.
Una passeggiatina ritenuta innocente, magari per parlare di Heimat
e di Tirolo unificato, ma fu così che Karola si ritrovò
improvvisamente a terra: le erano saltati addosso una mezza dozzina
di militari travestiti da turisti, dopo che lamico presunto
laveva trascinata in Italia. Anche allora, polemiche a non
finire. Poi, la verifica dei confini: arresto proditorio, ma regolare!).
I dimenticati che non dimenticano. Lo scenario è un altro.
È quello della fine della Seconda guerra mondiale, e il confine
da valicare è quello ad est dellIsonzo, oltre il quale
Caporetto adesso si chiama Kobarid, Capodistria è Kopar,
Pola è Pula, Fiume è Rijeka, e se si parla di Trieste
si dice Tvorak
Al di là dellAltopiano di Asiago,
terra disseminata di cimiteri della Grande Guerra, caduti dimenticati
al modo di quelli di Caporetto (che già allepoca vennero
quasi rinnegati come rei di una rotta che andava addebitata solo
ed esclusivamente allincapacità strategica e allignavia
dei generali italiani): siamo nellIstria riottosa e ribelle
che il presidente croato sorvola solo in elicottero, perché
percorrerla rasoterra pare gli procuri lorticaria. Così
racconta il sindaco (una donna) di Degnano, Vodnjan secondo la grafia
ex jugoslava, e ora croata, che, insieme ad alcuni altri personaggi
di origine italiana, ha impedito che venissero cancellate lingua,
storia e tradizioni che furono italiane, veneziane, romane, viste
come prodotto di un nemico che era nemico non solo perché
italiano, ma soprattutto perché istriano.
Ad osservarli attentamente, ci si accorge che molti uomini hanno
landatura capo-hornista, come dicono: nel senso che gli istriani
e i dalmati hanno fama di marinai doppiatori di Capo Horn, che non
è cosa da poco. È pane fatto in casa anche in quel
di Pola, che è la città di James Joyce, la cui casa
era allArco dei Sergi, un arco romano di epoca augustea, la
cui silhouette si trova nei disegni del Sangallo e di Michelangelo;
è il porto della Imperiale Marina austro-ungarica che vi
fece la sua base principale, e dellirredentista Nazario Sauro
che cercò di farla saltare in aria, prima di essere appeso
alla forca innalzata al Castello che domina la città; fu
lultima sosta delle migliaia di italiani cacciati, o fuggiti
precipitosamente per non finire morti ammazzati; ed è la
piccola patria di quelli rimasti italiani in un luogo dove nessuno
li ha voluti più, come gli ebrei di Hebron prima della nascita
di Israele.
Nelida Dilani, scrittrice, e Anna Maria Mori, giornalista, la prima
rimasta a Pola dopo lesodo, la seconda esodata
negli anni Cinquanta, hanno fatto un ritratto drammatico degli italiani
malati di italianità in Bora: non cè saggio
di storia o di antropologia culturale che renda così bene
la miseria del vivere italiano da queste parti dal 1940 al 1990.
Si capisce che le passioni spese non furono passioni spente. Sandro
Pertini, lultimo dei presidenti gnorri, volle credere il contrario:
visitò Trieste e non accennò per nulla allesistenza
degli esuli istriani. Figuriamoci se aveva intenzione di aprire
larmadio degli scheletri jugoslavi con la storia delle foibe
scritta dalla ferocia degli antichi amici, suoi e dei comunisti
italiani, i partigiani titoisti.
Ha scritto Enzo Bettiza che il Pci fu «complice attivo...
dellespansionismo jugoslavo sui confini orientali: basterà
ricordare leliminazione notturna dei partigiani non comunisti
a Porzus, la raccomandazione di Togliatti ai lavoratori triestini
di accogliere i soldati di Tito come liberatori, poi il prolungato
silenzio sul massacro di antifascisti italiani e sloveni in Istria,
infine il trattamento riservato alla massa degli esuli affamati
e assetati, ma tutti fascisti, ai quali i ferrovieri
comunisti di Bologna negavano perfino un bicchier dacqua.
Lomertà accordata a un certo comunismo imperialistico
jugoslavo si prolungherà, quindi, fino allepoca nazicomunista
di Milosevic». Quando si scoperchierà del tutto lorrore
delle foibe, ha chiosato Bettiza, si attribuirà lecatombe
«soltanto agli sloveni e ai croati, dimenticando che quasi
tutti i comandanti del famigerato IX Corpus titoista erano serbi
o montenegrini. Fu questo Corpus, pilotato da Belgrado, a confiscare
sul finire della guerra lIstria, Trieste, Gorizia, e furono
i suoi comandanti a ordinare ai comunisti italiani lo sterminio
dei partigiani italiani nel Friuli». Per quel che riguarda
i comunisti sloveni, nellagosto 44 rivendicarono una
larga fascia del litorale, comprese le città miste, avviando
la slovenizzazione di Lubiana, Gorizia, Trieste e Klagenfurt. E
intanto continuava lazione genocida, che vide cadere forse
ventimila, forse trentamila uomini (e almeno 80 preti) nellarea
delle foibe. Una ventina di queste sono state individuate tra Gorizia
e Pola, ma in territorio italiano oggi ci sono soltanto quella di
Monrupino e quella di Basovizza, nellentroterra triestino.
A Basovizza, si parla di «500 metri cubi di cadaveri»:
uomini e donne sfracellati, per i quali linferno iniziò
con lo scoppio della pace: tutti consegnati per decenni alla congiura
del silenzio decisa per omertà ideologiche e per complicità
annessionistiche. Memoria cancellata, senza mai un minimo segno
di rimorso.
Ancora oggi cè chi ha paura della reitalianizzazione
di quelle terre, come ci dicono a Buie, la vedetta dellIstria:
un paesino con i puri colori della campagna, marrone e verde, fatto
a cono come i piccoli centri delle Alpi o degli Appennini, con il
campanile in alto, con le memorie di Roma e di Venezia in ogni angolo
di strada. A Buie si incrociano le strade che portano in Slovenia,
in Dalmazia, ad oriente per andare in Bosnia, a occidente per Venezia.
In un cimitero vicino è sepolto Fulvio Tomizza, lo scrittore
che ambientò molti suoi romanzi nel villaggio di Materada,
ai fianchi dellaltura. Nel paese ci sono 500 italiani; gli
altri sono croati, bosniaci, montenegrini. Gli italiani parlano,
tra di loro, in istro-veneto, sono tutti dialettofoni, ma continuano
a pensare e a scrivere in italiano: come gli ebrei di Masnada
dicono quando furono circondati dalle legioni romane; fino
allultimo tennero fede ai loro riti e miti: «Ma noi,
a differenza loro, non ci siamo suicidati».
Appena quindici chilometri più in là, a Umago, capitale
del turismo istriano, litaliano va di moda. Dicono i neo-irredenti:
«Scrivere, soprattutto poesie, è stata lunica
via di sfogo per gli italiani. E per le italiane. Guarda quante
poetesse istriane! Altro non potevamo avere. Ma senza la lingua
non hai inconscio, né pensieri da esprimere. Semplicemente,
e tragicamente, non esisti».
Per una manciata di euro al mese, due giovani ragazze, un paio di
volte la settimana, attraversano la valle del fiume Quieto, che
punta al mare come una spada. I boschi della vallata hanno fornito
alla Serenissima il legname per le sue flotte. A metà valle
cè il colle di Montona, forse la più incantevole
cittadina dellIstria. In due chilometri quadrati cè
un concentrato di storia e di arte romana e veneziana. Intatta.
Ben curata. Silenziosa come un secolo fa. Rispettosa delle memorie
di tutti. Qui le aspettano gli alunni, una quarantina di ragazzi
dai sei ai trentanni, figli e nipoti di italiani, e qualche
croato curioso o qualche sloveno di passaggio. Ci sono meccanici,
cameriere, studenti. Il resto della popolazione li guarda con sufficienza.
Anche se Montona, e insieme Grisignana, una cittadina a dieci chilometri,
enorme atelier di pittori e di scultori, un giorno erano a maggioranza
italiana, la nostra lingua era scomparsa perché soppressa.
Che cosa importa a questi ragazzi dei verbi, dei nomi e pronomi,
degli aggettivi della lingua in cui il sì suona?
Montona e Grisignana sono fuori da ogni via commerciale. Per andarci,
bisogna conoscere la strada. E per imparare litaliano bisogna
crederci. Alcuni di quegli alunni sono valligiani, per raggiungere
la scuola devono levarsi di buon mattino, quando il Quieto fa nebbia
e rende lasfalto delle strade scivoloso. Eppure le iscrizioni
sono in aumento. «Ma che cosa vi muove?», chiedo. Le
ragazze, più numerose, vogliono imparare la lingua della
madre e della nonna, leggere e capire larte e la letteratura
dellItalia, aggiornarsi come tutti i ragazzi della penisola,
poter stabilire contatti con loro. I ragazzi non rispondono. Forse
perché hanno imparato a non fidarsi. I loro occhi, schivi
e fieri, si concentrano sui block notes.
I nostalgici ricordano Diocleziano, lImperatore romano che
era nato a Spalato, e Giustiniano, lImperatore dei bizantini,
che era nato nellillirica Scupi, oggi Iskub, e poi i grandi
comandanti veneziani, le ciurme bellicose delle piraterie mediterranee,
i capitani di lungo corso per lAustria-Ungheria, i grandi
viaggiatori come Marco Polo, e la Repubblica di Ragusa, città
che oggi si chiama Dubrovnik, e il magnifico duomo di Sebenico
Non dimenticano lo scultore e architetto Giorgio Orsini, la cui
attività viene relegata nellambito angusto dellarte
croata, sebbene abbia lavorato molto ad Ancona, inserendosi nel
filone del Rinascimento italiano; né i fratelli Laurana,
dalmati di Zara, che operarono a Napoli, a Urbino e a Mantova. E
i linguisti più colti rammentano che fu un biblista dalmata,
san Girolamo, autore della Vulgata, ad imporre il latino come lingua
universale della Chiesa, mentre Gianfrancesco Fortunio, anchegli
nativo di Zara, stampò nel 1516 ad Ancona la prima grammatica
italiana, e Niccolò Tommaseo, originario di Sebenico, fu
autore del celeberrimo Dizionario dei sinonimi italiani
Dalmazia, originariamente, significava Paese delle
montagne, mentre nel nostro immaginario si identifica piuttosto
con le sue aspre e incantevoli coste, con le isole e le città
marinare, e con un mare che il poeta Tonko Maroevic, nato a Lesina,
identifica con lo specchio adriatico che ha dato il
nome ad una delle sue ultime raccolte di versi. Dice Claudio Magris:
da sempre la Dalmazia è un crogiolo, ora armonioso ora conflittuale,
di culture, dai greci agli illiri e ai romani, e ad altri popoli
del passato, dalla plurisecolare indelebile impronta veneziana a
quella croata, stratificata, e dal breve dominio napoleonico a quello
absburgico, fino allultimo conflitto, che ha dissolto la Jugoslavia.
In questa terra slavo-latina, come lha definita
Enzo Bettiza, che ne ha dato nei suoi romanzi possenti rappresentazioni
poetiche, tutto si intreccia e confonde.
Ma la presenza italiana, così fondamentale per lIlliria-Dalmazia,
è andata via via assottigliandosi, fino al selvaggio bombardamento
inglese di Zara, al baratto terre italiane in cambio di neutralità
titina realizzato dagli americani, e allinenarrabile
esodo alla fine della Seconda guerra mondiale.
Oggi gli italiani dello Stivale ignorano il ruolo decisivo della
presenza veneta e italica e il suo grande e drammatico declino.
«Pregiudizi, violenze e rancori hanno lacerato quella terra
sanguinea, vitale ed eccessiva, e insanguinato il suo mare degli
dèi
», sostiene Magris. «Ognuno, nella storia
grande e straziata di questa terra, ha da chiedere perdono. Parce
mihi, Domine, quia dalmata sum, diceva liracondo san Gerolamo:
Perdonami, Signore, perché sono dalmata».
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