Cè persino chi si
è preso la briga
di contarli, i 2.347 cipressi dello
stradone che da San Guido
conduce al borgo medioevale di
Bolgheri: quattro chilometri di
Maremma pura.
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Comincia con la Toscana ad ovest e con le Marche ad est, e per
convenzione si chiama Italia centrale. Ma dove finisce? Tradizionalmente,
include anche lUmbria e il Lazio, il più delle volte
larea a nord della capitale, con Roma che fa parte a sé:
il Tevere e Tronto, insomma, dovrebbero coincidere con i confini
meridionali di questa grande area territoriale; che tuttavia sono
spostati ormai sempre più frequentemente verso sud, includendo
sensatamente la Ciociaria, da un lato, e, più elettivamente,
lAbruzzo dallaltro: territorio, questultimo, che
a lungo fu gemello di quello molisano, e dunque porta del
Sud a tutti gli effetti, e come tale in punto di geografia
e di diritto incluso tra le regioni che ebbero, elusa dai Palazzi
di Torino, di Firenze e infine di Roma capitali, una questione
che dopo fervidi decenni di letteratura storica, civile, politica,
sociale, è rimasta soffocata nel limbo delle speranze senza
nome. Sarà ancora Sud, qui, la terra più aspra e schiva
della Penisola continentale, e nella poesia che canta il Sud sarà
inclusa, senza dubbi o pentimenti.
Varchiamo dunque il confine. Per ricordare che dire Marche è
dire Recanati. Cioè Leopardi e la sua immensa poesia. Ed
è dire immagini sublimate di un mondo microscopico: del borgo
natio che assurge a emblema della spicciola vita quotidiana (la
donzelletta che fa ritorno dalla campagna, la casa di Silvia, la
bottega del falegname che di notte saffretta e sadopra
)
e del dolore universale. Col vertice segreto disvelato in un monte
(il Tabor) che è appena un ermo colle, con la siepe che da
tanta parte / dellultimo orizzonte il guardo esclude. / Ma
sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e
sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi
fingo; ove per poco / il cor non si spaura
; e con lo smarrimento
che incanta con i suoi colori smaglianti (Primavera dintorno
/ brilla nellaria, e per li campi esulta, / sì cha
mirarla intenerisce il core
), o con latmosfera cristallizzata
per sempre nella statica visione della notte, (Dolce e chiara è
la notte e senza vento, / e queta sovra i tetti in mezzo agli orti
/ posa la luna, e di lontan rivela / serena ogni montagna
).
Dirà nello Zibaldone, linfelice Giacomo,
che ciascuno di questi suoi paesaggi è un «respiro
dellanima»: la distesa, incantevole visione del paesaggio
esterno, in contrappasso con i maceranti percorsi interiori, radice
di pensieri amari e di sempre più frequenti abbandoni ad
un pessimismo senza riscatto e senza speranza.

Straordinario il sentimento della solitudine che identifica molta
poesia degli autori marchigiani. In Pesaro scrive Alfredo
Giuliani: Laggiù sulle ville tramonta e grigie radure / saccendono,
il fiume rabbuia, soffia / un vento che non devasta né punge.
/ I lumi rossi vegliano ai cantoni del castello
E poi la malinconica
musa di Giammario Sgattoni, in bilico sullantico confine,
Le foci del Tronto: Non raccontarmi più favole
lunghe / di lucerne, demòni e ripostigli / dentro stanze
annerite da millenni: / quando il giorno sarà precipitato
/ tra quei colli e le frange dei ciliegi, / rapido guaderò,
senza bagnarmi, / le foci del Tronto già gonfie di
nevi).
Sullaltro versante, la Toscana, che dalla Scuola Siciliana
e dalla Corte meridionale del sovrano Puer Apuliae, lo svevo Federico,
si ebbe la scintilla della poesia in un nobile volgare, che trasformò
in matrice di lingua e in identità peninsulare. E allaltro
capo di questa vicenda evolutiva, il poeta nazionale, oggi messo
in scacco dalla retorica sociologico-politica di una poesia che
per tanta parte fra poco potrebbe risultare datata, Giosuè
Carducci: Dolce paese, onde portai conforme / labito fiero
e lo sdegnoso canto / e il petto ovodio e amor mai non saddorme
Reale, e non interiore, il paesaggio descritto invece da Vincenzo
Cardarelli in Toscana: Ecco la sera e spiove / sul toscano
Appennino. / Con lo scender che fan le nubi a valle / prese a lembi
qua e là / come ragne fra gli alberi intricate, / si colorano
i monti di viola
E lacqua e gli alberi, oltre ai profili
rudi dei monti, a far da sfondo: con Roberto Roversi, (Volano fiumi
in terra di Toscana. / Steso è il cavo di ferro. Un giocoliere
/ lieve umana armonica parvenza / brucia in uno splendido braciere,
ombra sullasfalto della città); con Ardengo Soffici,
(La Toscana è luce e terra
); con Benedetto Varchi,
in Arno (Ninfe, che nude il petto e sparsi i biondi
/ crin fino ai piè di latte e nghirlandate / di mille
bei color, scherzando andate / con Arno sempre ne più
alti fondi); con Biagia Marniti, in Vecchio Arno, (Fiume
che amo più del mare / e scuoti il dorso corrucciato / la
lunga arteria del tuo cuore, / solo la sponda ti rimane
);
o con Eugenio Montale, in Arno a Rovezzano, (I grandi
fiumi sono limmagine del tempo, / crudele e impersonale. Osservati
da un ponte / dichiarano la loro nullità inesorabile. / Solo
lansa esitante di qualche paludoso / giunchetto, qualche specchio
/ che riluca tra folte sterpaglie e borraccina / può svelare
che lacqua come noi pensa a se stessa / prima di farsi vortice
e rapina
); e con Francesco Pastonchi, e il suo estatico Lungarno
(Domenica
Le serve dai balconi / a guardar lArno
E quelle case ferme / su fondo oro, nel giorno che si perde
).
Firenze e le sue Signorie, intanto, con le contraddizioni che segnarono
i contrapposti versanti umani, quali li vede con leggera ironia
Corrado Pavolini, (
I grandi palazzi coi loro solchi diritti
come campo arato / qui parlano degli antichi Signori / che tennero
reggia e fattoria, / che furono artisti e mercanti e rompiscatole
geniali. / Di popolino e artigianato, di minuti commerci, / le casucce
parlano gonfie di piogge e di geli, / dallintonaco che si
screpola e in soffocate frane / sfarinandosi cade sul silenzio delle
tegole / e sullindifferenza dei gatti solitari / immobili
nellattesa, come i fiorentini, di trippa dai cieli), e con
occhi più disincantati Franco Fortini, (
A Santa Croce,
dove dai cortili / gridano donne senza seni lunghi guai, / e nei
testi di basilico / non cè che fil di ferro e i fili
/ di ferro dei campanelli lontani sottili / che dagli anditi assassini
e i corridoi / non smettono mai
).

Riecheggiano le tremule correnti del Sorga, in Valchiusa, che avvolgevano
Madonna Laura e ispiravano perdutamente innamorato
Francesco Petrarca: Chiare, fresche, e dolci acque, / ove le belle
membra / pose colei che sola a me par donna, / (con sospir mi rimembra)
/ a lei di fare al bel fianco colonna, / erba e fior, che la gonna
/ leggiadra ricoperse / co langelico seno; / aere sacro, sereno,
/ ove Amor co begli occhi il cor maperse; / date udienza
insieme / a le dolenti mie parole estreme
E poi quelle di
un altro corso dacqua, caro a Giovanni Pascoli: Su la riva
del Serchio, a Selvapiana, / di qua dal Ponte a cui si ferma a bere
/ il barrocciaio della Garfagnana, // da Castelvecchio menano, le
sere / del dì di festa, il lor piccolo armento / molte ragazze
dalle treccie nere. // Siedono là sul margine, col mento
/ sopra una mano, riguardando i pioppi / bianchi del fiume
Gli alberi, poi. E dunque torna il Carducci. Cè persino
chi si è preso la briga di contarli, i 2.347 cipressi dello
stradone (allora in terra battuta) che da San Guido conduce al borgo
medioevale di Bolgheri: quattro chilometri di Maremma pura, fluttuante
nel sole, in cui risuonarono per quasi un decennio gli strilli e
le sassate del poeta ancora bambino: I cipressi che a Bolgheri alti
e schietti / van da San Guido in duplice filar
// A le querce
ed a noi qui puoi contare / lumana tua tristezza e il vostro
duol. / Vedi come pacato e azzurro è il mare, / come ridente
a lui discende il sol! // E come questo occaso è pien di
voli, / comè allegro de passeri il garrire! /
A notte canteranno i rusignoli: / rimanti, e i rei fantasmi oh non
seguire
Dalla breve attesa carducciana ai bordi dellAurelia, alla
Sera di Versilia, cantata da Alfonso Gatto: Come il
mare deserto stacca il molo / nel cielo puro del tramonto, solo
/ resta sul tetto di lamiera un fioco / riverbero del giorno. A
poco a poco / appassisce nellaria anche il clamore / monotono
dun grido e nellodore / largo del vento e della sera
stagna / la pineta già dombra, la campagna / deserta
neri suoi pascoli, nel raro / lume dacque. Ora il silenzio
è chiaro
; e alla languida sera che DAnnunzio
vive in quel di Fiesole:
Dolci le mie parole ne la sera /
ti sien come la pioggia che bruiva / tepida e fuggitiva, / commiato
lacrimoso de la primavera, / su i gelsi e su gli olmi e su le viti
/ e su i pini dai novelli rosei diti / che giocano con laura
che si perde, / e su il grano che non è biondo ancora / e
non è verde, / e su l fieno che già patì
la falce / e trascolora / e su gli olivi, su i fratelli olivi /
che fan di santità pallidi i clivi / e sorridenti
;
e infine allelegia del monte viareggino, a Gàbberi,
cima delle ultime Alpi Apuane, cantato da Elpidio Jenco: ...I tuoi
silenzi di macigno / precipitoso, i tuoi dirupi ardenti, / i covi
duri allospite, le forre / come nere varate pei pendii, /
verso le gole dove il tuon dagosto / deco in eco svanì
nel temporale / con lululo dun affamato lupo!...
E poteva Firenze non ispirare, nel bene e nel male, un gran numero
daltri poeti? A cominciare dallo sprezzante Pietro dei Faitinelli,
detto Mugnone: Lassate far la guerra a perugini / e voi vintramettete
della lana / e di goder a raunar fiorini. // Voi solevate soggiogar
Toscana, / or non valete in arme tre fiorini / se non a ben ferir
per la quintana
(Ma, oltre allironia afosa, allinvettiva
diede voce, fra gli altri, o più degli altri, Dante, da quella
notissima nei confronti della serva Italia, a quella con cui colpì
diritto al cuore alcune città, e Pisa fra queste: Ahi Pisa,
vituperio de le genti / del bel paese là dove l sì
suona, / poi che i vicini a te punir son lenti, // muovasi la Capraia
e la Gorgona, / e faccian siepe ad Arno in su la foce, / sì
chelli anneghi in te ogni persona!).
Altra Firenze nei bei versi di Giuseppe Manni, (O dolce piano, ove
col bellArno in riva / siede la mia Firenze e sincorona,
/ ti salvi Iddio!); in quelli di Giovanni Marradi, (Un limpido sorriso
il mattutino / aere in azzurra e umida di guazza / si rianima al
dì col suo divino / popol di statue, la divina piazza. //
Sui dolci poggi là del Casentino / sfumano accese al vento
che le spazza / nuvole doro
); in quelli stupendi
per le immagini darcobaleno che svelano di Dino Campana,
(Entro dei ponti tuoi multicolori / lArno presago quietamente
arena / e in riflessi tranquilli frange appena / archi severi tra
sfiorir di fiori); in quelli plastici di Ardengo Soffici,
(
La collina di San Miniato / sciacqua nellArno i suoi
ori di Bisanzio, / i suoi cipressi, / e le ville; / il Ponte vecchio
incrostato di gemme, / i campanili, / i tea rooms, / collacqua
verde / partono fra due argini felici di sole. // Non si può
vivere in questa pace / dazzurri viali / dove non cè
che un tranvai
); o, infine, in quelli di un giovanissimo poeta,
Pierluigi Mele, (Pittori ambulanti ritraggono lidea / che
affreschi e palazzi hanno di loro. / Geometrie nudità portali
/ busti ovali la città / vive sopra un cavalletto
/ da cui mostrarsi e guardare).
Dicevamo di Pisa. Che Giovanni Giudici rammenta alacre e silenziosa,
nelle ore delle guazze albali, (Stazione di Pisa, il buio brivido
/ che allalba ti destava era il segnale / convulso del diretto.
// I frenatori, / con gli occhi chiari madidi di nebbia, / accorrevano
neri tra i binari: / rispondevano al grido del fuochista). E DAnnunzio
vede nelle immagini romantiche espresse dal suo consueto codice
linguistico, (O marina di Pisa, quando folgora / il solleone! /
Le lodolette cantan su le pratora / di San Rossore / e le cicale
cantano su i platani / dArno a tenzone
/ LArno
porta il silenzio alla sua foce / come lEstate porta loro
in bocca. / Stormi daugelli varcano la foce
). Mentre
l allobrogo ribelle, Vittorio Alfieri, torna al
gioco della descrizione di unatmosfera fastidiosa, e quasi
ostile, non per nulla è un trageda! con una
Piazza dei Miracoli incapace di fare il solo miracolo di emergere
dal grigiore caliginoso della stagione invernale: Mezzo dormendo
ancor domando: Piove? / Tutta la intera notte
egli è piovuto. / Sia maledetta Pisa! Ognor ripiove;
/ anzi, a dir meglio, e non è mai spiovuto.

Mentre Lucca ha nel girovago Piero Bigongiari un suo pacato cantore:
Ho vissuto / nelle città più dolci della terra / come
una rondine passeggera. / Lucca era / un nido difficile tra le vigne
/ impolverate in fondo a bianche strade. Che per Livorno è
Giorgio Caproni, il quale dapprima scrive: Lora era di mattina
/ presto, ancora albina. / Ma come silluminava / la strada
dove lei passava!..., e poi torna sul solo tema della città:
Livorno, come aggiorna, / col vento una torma / popola di
ragazze / aperte come le sue piazze. // Ragazze grandi e vive /
ma, attenta!, così sensitive / di reni (ragazze che hanno,
/ si dice, una dolcezza / tale nel petto, e tale / energia nella
stretta) / che, se dovessi arrivare / col bianco vento che fanno,
/ so bene che andrebbe a finire / che ti lasceresti rapire
E se Empoli dà voce al Carducci, che con profonda, dolcissima
nostalgia esalta la Val dArno, (
Toscani colli, / colli
toscani ove il mio canto nacque / sotto i limpidi soli e tra le
molli / ombre de lauri a mormorii de lacque
),
è infine la marinara La Spezia ad ispirare un medico-narratore
che con il suo memorabile romanzo Le libere donne di Magliano
aveva rinvigorito il filone della narrativa dinchiesta e di
denuncia, Mario Tobino, poeta come dire? in libera
uscita, con questi versi dedicati alla città:
A Vezzano
la domenica si sentono chiari i rumori, / tra le bianche ghiaie
scorre la Magra, / i soliti vecchi seduti / nella piazza folta di
case / raschiano qualche parola / e battono sulle pietre il bastone,
/ e i treni fumano laggiù nella valle / snodandosi verso
Viareggio / che al mare occhieggia colore di perla. / Niente è
cambiato dacché sei morta, / soltanto nella chiesa / tra
i neri scialli delle popolane / non brillano più / i tuoi
capelli bianchi
Città e porto cantati poi da un poeta
di gran levatura, ma da critici e antologisti messo in un canto
per incomprensibile esclusione, Ettore Serra, (Da una stradina in
ombra / vedo una lama / di verde mare. / Un vapore che salpa, /
gente che va
// Macchia laria serena / di fumo un velo
/ Golfi assopiti ascoltano / lurlo della sirena; / insorge,
e muove leco / lontane calme / fin che dilegua e muore
).
Fu spesso religiosa, invece, gran parte della poesia che ha ispirato
lUmbria, quella, per antonomasia Santa, di Francesco
e dei suoi fraticelli, del lupo e di Gubbio, dei monasteri e degli
eremi immersi nelle solitudini verdi e tra le vergini acque sorgive,
stillanti dalle fessure delle rocce. Centro del mondo di francescani
e clarisse, Assisi, che Siro Angeli così descrive: Contro
laereo spalto / come onda che muore / alla sponda lassalto
/ si infrangeva delle ore: / bianca Assisi durava / dentro il tuo
batticuore, / e dal cerchio incantato / delle mura con tese / braccia
giù per declivi / incontro a noi si avviava, / verso distese
di prato / e silvestre frescura / nellalto si avventurava
La natura ha un ruolo fondamentale, con i suoi colori, con le voci,
con gli echi che scendono per le valli dalle cime selvose dellAppennino,
regno incontrastato dei lupi e degli uccelli. Canta Libero Bigiaretti:
Ancora vi dipingono i miei occhi / belle luci di cieli serenati,
/ di massiccio turchino ondosi monti, / seminati distesi nel tranquillo
/ ordine del disegno. La tua voce, / pace della mia terra, lungamente
/ in me dura se ancora mi rammento / amoroso richiamo della tortora
/ tra i quercioli del poggio; nel lunare / silenzio, amico abbaiare
del cane: / calmi muggiti dalle greppie, stridulo / gemere della
secchia al fresco pozzo
E visione idilliaca della natura ci
suggeriscono i versi di una poetessa vedutista, Gianna
Sallustio Amato: Erbe sottili schiudono / morbidi spazi di verde
/ agli ulivi sereni, ai fiori, ai pini, / a noi: nude / vacillano
nel nuovo giorno / al peso della rugiada, / brillano. / Riddano
lievi i petali nellaria
Come non ricordare gli affreschi intensi che emergono dalla carducciana
Alle fonti del Clitumno? Scrive il poeta versiliese:
Ancor dal monte, che di foschi ondeggia / frassini al vento mormoranti
e lunge / per laure odora fresco di silvestri / salvie e di
timi, // scendon nel vespero umido, o Clitumno, / a te le greggi
// Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte / nume Clitumno! Sento
in cuor lantica / patria e aleggiarmi su laccesa fronte
/ glitali iddii
//
Ride sepolta a limo una
foresta / breve, e rameggia immobile: il diaspro / par che si mischi
in flessuosi amori / con lametista. // E di zaffiro i fior
paiono, ed hanno / de ladamante rigido i riflessi, / e splendon
freddi e chiamano a i silenzi / del verde fondo. // A piè
de i monti e de le querce a lombra / co fiumi, o Italia,
è de tuoi carmi il fonte
Perugia capoluogo è fondale per la pudica biografia delleccelso
Sandro Penna: Quando su la città, beata, antica, / il dolce
e rumoroso crepuscolo cantava, / i lenti carrozzoni portavano lontano
/ le sudice divise dei giovani operai. // A tutti sconosciuto (e
quanto poi a se stesso!) / fra le odorose e sudice divise amavan
dare / alla dolce deriva delle periferie / un angelo.
(E credete: non quello che oggi scrive); e per le oblique disillusioni
che gli anni e gli affanni svelano, senza rimedio: Non è
la città dove la sera / ebbro cantavo, fra le sparse luci
/ sopra la dolce umidità del fiume. / Adesso un biondo sole
sulla nera / bottega di mio padre par che bruci / la nostra assenza.
E non ritrovo il fiume
È memoria lacerata, ed è
spleen. Lo stesso, forse, che ricrea le immagini, e nello spazio
dun mattino le consuma, nei versi che Paolo Volponi dedica
alle Mura di Urbino:
Lasciare questo vento collinare
/ che piega il grano e loliva, / che porta sbuffi di mare
/ tra larenaria viva. // Lasciare questa luna tardiva / sul
diamante degli edifici, / questa bianca saliva / su tutte le terrazze
// Lasciare il caldo respiro / del sole sulle mura, / la lunga tortura
delle case, / lo stesso temporale / che ritorna da anni
Mentre Biagia Marniti scorre con occhi innamorati i paesaggi di
Monteluco (Fra gli antichi lecci, nellumida quiete, / volteggiano
gli arruffati pensieri. / Ma nuova e antica / qui è ancora
la sera) e di Spoleto (In pieno crepuscolo si desta / uno zirlio
continuo basso costante, / voce della campagna destate
).

Terni industriale, sfida al futuro, infine, in una delle poesie
sperimentali di Roberto Roversi: Di notte Terni brucia, gli altiforni
/ scagliano lapilli nelle nubi di neve, / bianca neve scendere senza
venti, / spilli infuocati ruotano nelle grotte / dei monti reatini;
/ la strada periferica, annientando la vita, odora. / Guardo ora
la terra intorno a me, erta / e difficile, sciabolata da lame /
di un raffinato sole, fra quiete valli / gli ulivi hanno germi teneri
e castelli / tondi scudi di rame / volano sopra i rami nudi
Sono pochi versi, quasi una lapide scritta con gli occhi umidi:
Un anno, e in questi giorni ero a Roma. / Avevo Roma e la felicità.
/ Una godevo apertamente e laltra / tacevo per scaramanzia:
il triestino Umberto Saba, poeta grande ma oggi un po messo
in disparte, alla fine della guerra giunse nella Capitale, proveniente
dalla «spaventosa, arida Firenze», in cerca di amicizia
e di affetto. In quellalba di ritrovata libertà, Roma
accolse questo «figlio del vento», come lo definì
un suo giovanissimo critico, al modo di «un brillante che
manda luce da tutte le parti». E tra il poeta e la Città
Eterna fu subito un idillio destinato a durare il tempo dun
sogno.
E a fronte della Roma di Carducci, dominatrice del mondo secondo
la profezia virgiliana (Tu regere imperio populos
) e dea-madre
per i giorni presenti e i tempi a venire, (Salve, dea Roma! Chinato
a i ruderi / del Foro, io seguo con dolci lacrime / e adoro i tuoi
sparsi vestigi, / patria, diva, santa genitrice
), sta una
città in parte ancora intrisa di echi classici, come nei
versi di Giuseppe Manni: Corrusco scende nel suo disco doro
/ dietro al frondoso Monte Mario il sole: / tutta un fulgore è
Roma; oro e viole / dintorno, in fino ai monti ed oltre loro.
// Sta sul Colle degli Orti e sta sul Foro, / come sullerma
vaticana mole, / laurea pace: dumil parole / dalle cupole
ai cieli ascende un coro
Mentre trasognata e felice, riumanizzata,
è lUrbe di Giorgio Vigolo:
Tanto mite scendeva
/ a specchio dei selciati / la dolce ora di sera fra le brune /
case, e anche le persone ferme / nel vano buio delle porte avevano
/ non so quale perlata ombra sui volti. / Via Monserrato, via del
Pellegrino, / Campo de Fiori mi si aprì di gialli /
meloni acceso e cocomeri rossi / nel grigio della sera senza lumi;
/ fin quando prese a cadere / una pioggia tiepida, lieve, / e le
strade si fecero nere
Con immagini di fulmineo haiku la città di Giovanni
Francesco Romano: Lastricato deserto
/ Sullo sciroccale umidore
/ anime derelitte di lampioni. Mentre offre visioni di puro idillio
quella di Arturo Onofri: Marzo, fanciullo dal lungo sbadiglio /
i tuoi capricci incantevoli / come risa dopo le lacrime / sono trastulli
di nuvole e sole
Leggera e trasparente negli scorci affamiliati
la città di Nelo Risi: Su queste scale / tarmate nei marmi
/ usate come suole / dove è appena spiovuto / e ancora deserte,
stamane / al primo sole sto così bene / che respiro a fondo
con la mente
In progress (non accettate) le mutazioni urbane
che indispettiscono Elio Filippo Accrocca al cospetto del monte
Testaccio: Mutato ponte e più mutate cose / dellinesausto
vivere / negli afoni mattini. Si fa monte / il ricordo degli anni
quando ancora / intatta era limmagine dei pini / densi di
fumo e lisola / di verde maccoglieva / ogni giorno al
passaggio contemplato / dei treni amici e delle amiche grida
LUrbe come unimmensa e caotica città-contenitore
nella poesia dellimmigrato salentino Aldo De Jaco:
Gli
anni / della tua ospitalità / per me e, forse, per due o
tre / milioni di travet // come me, accampati / legione dAgramante
/ sotto il tuo portone / avviliti servi senza / padrone,
larve / di persone // incasellate per stanze / in ogni casermone
/ di cemento nelle bare che / han seppellito i cento / giardini
del / tuo passato
E le vie e le piazze della città, presente e memoria che
luminosamente trascorrono nei versi di Paolo Volponi: Come le donne
/ in vicolo del Lupo / si chiamano con nomi di città / hanno
piazze / e sguardi di fontane. / Portano bende / daceto sulla
fronte, / questi antichi guerrieri / amputati sui banchi dosteria.
// A Mario dei Fiori, / capellute, / cingono collane doro;
/ il seno e la cintura / dolci come ginestre. / Luomo è
un fante di gioco / con la coppa sulla spalla, / il volto nascosto.
// Un cavaliere bussa / alla Fontanella Borghese / ma la sua muta
di cani / disperde le giovani / tutte di vene celesti. // Le meretrici
di via Fontanella / giacciono come sponde / e sulla loro sabbia
/ saccovaccia / lanatra colorata. // Tristi canzoni
/ a Capo le Case / hanno le spose dei marinai / con le terrazze
del Sud / e gli spari dei finanzieri. // A via del Pellegrino /
materne / allattano i figli dietro le porte / e chiedono ai carrettieri
/ notizie dei paesi. // Quante gli storni / a Torre Argentina, /
in via dei Giubbonari / e via de Coronari / ricche di denti,
/ portano luomo in barca ma con le mani / toccano la sponda
fresca del fiume / e con gli occhi / seguono gli alberi / vestiti
da soldati. // Agli Avignonesi / hanno viso di tabacco / e ventre
di marengo; / cantano canzoni / mai udite per le strade / scendendo
dalla scala / col tacco doro. Via dei Fori Imperiali, invece,
così è ritratta dal pugliese (allora giovanissimo)
Marco De Santis: Sempre qui la notte è fragorosa / le auto
pattini guizzanti sulle strade / mi bagno al nebbioso lucore dei
lampioni / coni di luce nel buio si congelano spruzzando cupole
/ colonne sono immote candele smoccolate / statue e cariatidi falene
sbigottite dal freddo / il Vittoriano su di me sincurva e
stende le ali del Tempo / si gonfia ai colpi del mantice cardiaco
Ma tanto di più deve Roma a Leonardo Sinisgalli e a Pier
Paolo Pasolini, due immensi poeti immigrati dal Sud, il primo, e
dal Nord laltro, e in questa città rimasti per tutta
la vita. Rudemente elegiaco (duna spigolosità dolce,
tuttavia, e sempre ricercata) il lucano:
Chi conosce le tue
estati, Roma, / sa di aver toccato la luce / fino allosso,
ricorda i capestri, / i catafalchi, le camere di tortura, / lodore
di strame che colpisce / il pellegrino alle tue porte. / Tra questi
quartieri io fui / ragazzo pieno di sonno e di appetito. / Fui un
giovane letargico / che si nascose a leggere nei tuoi giardini /
in compagnia delle statue. / Cercai le funebri siepi del Celio /
per pascere il mio tedio / di mussulmano avido di odori. / Chi avrebbe
potuto battezzarmi / alla tua fede, frustare i miei panni, / quale
Vergine poteva carezzarmi i capelli, / quale Benedetto, quale Pio,
/ avrebbe accettato il dono dei galli / chio portai nel paniere?
// Ho ignorato per anni le tue cattedrali
/ Oggi cammino più
lesto sui tuoi ponti / in compagnia di Raffaello. / So quando fioriscono
al Pincio / le mimose, quando gelano i carrubi, / conosco la forma
delle tue rose, / delle tue nubi. Ho visto i cavalli / scintillanti
guardare il cielo / sui terrazzi, i santi sui parapetti, / le donne
dai petti mostruosi, le rondini, / i ragazzi sulle rive dellAniene.
/ Conosco il bene di tanta bellezza. / Sono questi i mirti / che
scrollano polvere se li tocco, / sono queste le pietre della giovinezza.
Poesia come tregua, ma simultaneamente come preludio a quella dellimpegno,
anche in Pasolini: Dove vai per le strade di Roma, / sui filobus
o i tram in cui la gente / ritorna?... / È il primo dopocena,
quando il vento / sa di calde miserie familiari / perse nelle mille
cucine, nelle / lunghe strade illuminate, / su cui più chiare
spiano le stelle. Perché sono già in qualche modo
corrivi i versi di Correvo nel crepuscolo fangoso:
Intorno
ai grattacieli / popolari, già vecchi, i marci orti / e le
fabbriche irte di gru ferme / stagnavano in un febbrile silenzio;
/ ma un po fuori dal centro rischiarato, / al fianco di quel
silenzio, una strada / blu dasfalto pareva tutta immersa /
in una vita immemore ed intensa / quanto antica. Benché radi,
brillavano / i fanali duna stridula luce, / e le finestre
ancora aperte erano / bianche di panni stesi, palpitanti / di voci
interne. Alle soglie sedute / stavano le vecchie donne, e limpidi
/ nelle tute o nei calzoncini quasi / di festa, scherzavano i ragazzi,
/ ma abbracciati fra loro, con compagne / di loro più precoci.
// Tutto era umano, / in quella strada, e gli uomini vi stavano
/ aggrappati, dai vani al marciapiede, / coi loro stracci, le loro
luci
E decisamente città in decadenza, nelle sue persino storiche
periferie, è quella descritta in Le ceneri di Gramsci,
forse uno dei momenti più alti della poesia pasoliniana:
Non è di maggio questa impura aria / che il buio giardino
straniero / fa ancora più buio, o labbaglia // con
cieche schiarite
Questo cielo / di bava sopra gli attici giallini
/ che in semicerchi immensi fanno velo // alle curve del Tevere,
ai turchini / monti del Lazio
// E, sbiadito, / solo ti giunge
qualche colpo dincudine / dalle officine di Testaccio, sopito
// nel vespro: tra misere tettoie, nudi / mucchi di latta, ferrivecchi,
dove / cantando vizioso un garzone già chiude // la sua giornata,
mentre intorno spiove
// Già si accendono i lumi, costellando
/
lintero / Testaccio, disadorno tra il suo grande //
lurido monte, i lungoteveri, il nero / fondale, oltre il fiume,
che Monteverde / ammassa o sfuma invisibile sul cielo. // Diademi
di lumi che si perdono, / smaglianti, e freddi di tristezza / quasi
marina
Il fiume di Roma, a questo punto. Che Domenico Gnoli ricorda (In
riva al Tevere, scorre / lampio deserto de piani, /
fissa gli orizzonti lontani / allombra duna vecchia
torre
), prima di darci unimmagine stupenda di Veio,
letrusca, nobile, acerrima nemica di Roma, (Canta letrusca
fontana, / la fontana a cui la donna / di Vejo, succinta la gonna,
/ nel fondo dunetà lontana, // scendeva a empire
la brocca
). E lì intorno, fra i boschi e le piane di
sabbia, il piccolo fiume che gorgoglia e poi due volte precipita,
in un perfetto scenografico anfiteatro dapprima, in uno sprofondo
poi, come ricorda Biagia Marniti: Strana ellissi si rivela / la
conca verde presso il Crèmere
/ Lortica e il
muschio / scivolano sul prato / come gli amori di un incontro solo
/ e a cunicoli di morte Veio sapre
Più in là, in direzione del mare, dopo lalta
Ceri, la Vecchia Ceri: la grande Necropoli di Cerveteri. E anche
qui le immagini sono di donne etrusche, ritratte dalla penna di
Luigi Bartolini: Soavi donne di Caere / belle donne intorno alla
Necropoli! / alla fiorita Necropoli etrusca, / alla fiorita di rose
stupende / (aperte e bianche quali ali di colomba, / altre chiuse,
a bocciuoli, rosse e nere / il cui profumo a pieno respirai!). /
Oh Cerveteri etrusca, / venni, da Roma, molte volte a ritrovarti!
/ (I tuoi lauri immensi, le tue mimose chiomatissime, / le ghirlande
di edera, / intorno alle nere occhiaie dei loculi vuoti). // Fiori
fragranti / crescono agli orli delle tombe convesse; / a cupole
vaste come i cieli
E ancora etrusca è la regione che chiude come in un alto
scrigno le acque del lago di Bolsena, vulcanico e iracondo come
tutti gli specchi dacqua interni del Lazio: qui sorge Viterbo,
che ha poco a nord le rovine di Ferentium, in direzione del Tirreno
la superba Necropoli di Tarquinia, e verso linterno Bomarzo,
con la villa orsiniana che recinge il Parco dei Mostri, il giardino
rinascimentale più incredibile dItalia, con le sue
sculture monumentali fantastiche e bizzarre. Da questo capoluogo
caro a molti pontefici passò Alfonso Gatto, che in Una
sera dottobre a Viterbo scrisse: Una fontana povera
nel largo / serale delle case e intorno il verde / degli alberi
è più solo, uno spazzino / aiuta il vento delle foglie
morte. / Oltre le mura vidi nella polvere / un piazzale deserto,
il cielo rosa / con il fumo celeste della sera
Capitale dei
Sabini, più a settentrione, Rieti ha in Sergio Solmi il poeta
delezione, (
Da tanti anni sopito, oggi lanima
/ lodor tuo grave derbe / riarse, mi ferisce / a un
nuovo incontro. / Mi riaffido al gioco di tue nuvole. / Limmagine
mia errante / benevolo lo specchio / del tuo cielo riflette. / Sul
chiaro paesaggio / mi ridistinguo in fila coi tuoi alberi
E qui già si profila la sky-line del Terminillo, di cui ha
scritto Fausto Maria Martini: Vieni: la neve non è più
sui monti: / appena, forse, imbianca Terminillo, / ma nè
libero il timo ed il serpillo, / ma gonfie dacqua son tutte
le fonti
Mentre per la Ciociaria che dà nome a una
sorta di falsa Maremma, o ad una Maremma minore, torva nei monti
e preludio allosso appenninico del Sud, è Carlo Betocchi
a cantare la volsca Frosinone, con i suoi versi di sobria e sicura
liricità:
Se non avessi / lanima, e non fossi
quasi un uccello / che batte lali fuor di palude, tu, tempo,
/ minganneresti. E tu, antica abside // che questi di Frosinone
han lasciata / piena di crepe, o come nella tua polvere, / colpa,
mavvolgeresti. Ma la mia anima / prega sugli orizzonti senza
suono, // di là dai lidi sabbiosi
(2 - continua)
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