Questa Collezione va oltre, ponendosi sulla strada
delle identità
da rispettare,
delle memorie
necessarie e
irrinunciabili,
di una nuova etica insomma del
territorio.
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Il giorno in cui morì, tradito dal cuore e dal dolore tra
gli alberi di ulivo, Adolfo Colosso non ebbe forse il tempo di guardare
indietro a tutto il corso della sua vita. Breve, ma straordinaria,
se a sessantuno anni, prima di «rendere la sua bella anima
a Dio» come scrissero i giornali dellepoca
era già un personaggio di spicco, e uneccezione, sotto
il cielo meridionale.
Era nato e cresciuto su terre baronali, dove aveva imparato da piccolo
a misurare con lo sguardo i campi e la fatica dei contadini e dei
braccianti, quellultima infima classe che nei decenni precedenti
e nelle statistiche murattiane era la variabile derelitta di un
sistema feudale che Giuseppe Maria Galanti aveva senza mezzi termini
definito «orribile e singolare». La prima scuola fu
la campagna, con la semina, il ciclo ordinato delle stagioni, il
fischio oscuro del nachiro, il fiato dei cavalli, dei tori e dei
vitelli nelle scuderie e nelle stalle. Gli studi universitari alla
Reale Scuola Superiore di Agricoltura di Portici gli avrebbero fornito
poi un formidabile apparato di cognizioni e di nozioni, e quella
cultura di tipo scientifico che aveva trovato nel riformismo napoletano
e nellalessanese Oronzo Gabriele Costa la sua più alta
e convinta espressione. Erano gli anni del Catechismo agrario,
delle denunce del latifondo e degli incolmabili ritardi tecnologici
in agricoltura («mentre lInghilterra abbonda di ordegni
per lagricoltura, ne ha meno la Francia, noi ne abbiamo pochi»),
degli «antichi metodi e cattivi strumenti» applicati
per inerzia al sistema assenteista e parassitario della
proprietà privata.

Adolfo Colosso ritornò a casa e allazienda familiare
con una laurea in agraria e con tutto lentusiasmo che gli
potevano dare le scienze esatte. E con idee originali,
al limite della provocazione, che agli occhi dei fittuari e dei
mezzadri, e del severo padre, dovettero sembrare fantasie ingenue
se non proprio stramberie da neo-dottore. Collaudò un aratro
razionale (e per primo lo soggiogò a una coppia di
buoi, sotto lo sguardo implacabile e ottuso dei fattori); impose
quindi luso di erpici, falciatrici, trebbiatrici, pressafieno
e mietitrici, e quantaltro di meccanico servisse ad alleviare
il lavoro massacrante nei campi; introdusse su vasta scala limpiego
dei fertilizzanti (sulle piantine un cartello che doveva suonare
come una sfida in terre fecondate dallo stallatico: W il concime
chimico) e dellalga marina per ammendare i terreni inariditi
dalle argille; utilizzò con successo la sansa di ulive e
lalga stessa come alimento e come lettiera per il bestiame.
Idee innovative, ma eversive nel grande latifondo, destinate ad
urtare contro il muro dei pregiudizi, degli usi e delle terre date
temporaneamente in affitto, e a morire tra un raccolto e laltro.
Condurre in prima persona la proprietà, libero di agire e
decidere, fu la provocazione estrema, intollerabile per gli altri
e per lui vincente. Seguirono anni di studio, di ricerca e di intenso
lavoro: modificò la rotazione agraria, con maggiore uso di
piante foraggere, si dedicò allenologia di alta qualità,
isolando i migliori vitigni e ottenendo vini pluripremiati, selezionò
e incrociò animali, introdusse nellallevamento equino
i trottatori russi e americani, fornendo per anni i migliori purosangue
allEsercito, bonificò a sue spese le paludi che cingevano
con ondulate dune dal mare la sua Ugento (le Mammalìe,
che a dispetto del nome erano malsane e, come ricorda il De Giorgi,
«terribilmente miasmatiche»); costruì uno dei
primi grandi opifici salentini per la raccolta e la trasformazione
dei prodotti agricoli, che presentò con una sorprendente
brochure pubblicitaria allEsposizione di Parigi.
Era il 1900, e una sua geniale invenzione per raffreddare i tini
e mantenere a temperatura costante la fermentazione del mosto fece
il giro delle capitali europee. Lo stesso i suoi prodotti agricoli,
dallolio al vino, che riceveranno primi premi ed encomi in
tutte le principali piazze dItalia, fino a Bruxelles, a Saint
Louis, negli Stati Uniti, e a Buenos Aires. Famosa tra gli studiosi
(e più volte menzionata dal De Giorgi nei suoi Bozzetti),
infine, la sua collezione di tele, di quadri e di anticaglie
in un museo «più che familiare, cittadino nella sua
Ugento, nellantichissima Uzentum», come scriverà
Francesco Ribezzo in una lettera del 1916, svelando nellimprenditore
agrario anche larcheologo conservatore: «Egli non aspettava
che loggetto darte o il monumento epigrafico gli venisse
in casa, gli andava incontro».

Modello di efficienza e di funzionalità, le sue aziende
sono organizzate secondo i moderni princìpi della meccanizzazione
e della distribuzione del lavoro (sconosciuto ancora Taylor, almeno
a sud del Tronto), dispongono di energia elettrica lenopolio,
loleificio e il mulino (da pochi anni il vescovo Giuseppe
Candido, leccese, aveva applicato lelettricità ad un
orologio pubblico sincrono, primo in Italia e nel Salento), hanno
il cinematografo «a beneficio dei suoi operai e concittadini
che di altro diletto non disponevano».
Speculari, e di prestigio, gli incarichi pubblici: per quasi trentanni
rappresentante del Mandamento di Ugento e vice presidente poi del
consiglio provinciale, membro autorevole e di larghe vedute di una
miriade di comitati e commissioni provinciali, per sei anni rappresentante
della Provincia nel consiglio di amministrazione del Consorzio per
lAcquedotto Pugliese e protagonista delle prime dispute sullacqua
da destinare allestrema sete meridionale. Infine, e quasi
inevitabilmente, a furor di popolo eletto alla più alta carica
del consesso comunale. E come sindaco di un «laberinto di
chiassuoli stretti, sudici, tortuosi, che rivelano subito il sito
dellantica Terra», darà limpronta definitiva
alla sua città, sottraendola al degrado, ammodernandola e
dotandola di nuove piazze, di strade più ampie e sicure,
di svincoli e incroci, di un mercato coperto per le attività
del libero scambio, di una torre dellorologio, completa di
un ufficio per le guardie municipali, i cui lavori, per sopravvenuta
penuria delle casse erariali, il sindaco finanzierà personalmente,
di tasca propria.
«Adolfo Colosso è nemico delle ciance», scriveranno
efficacemente sulla Gazzetta delle Puglie, a riassunto di un decisionismo
concreto e di unattività frenetica a favore della gente
e della res publica che appartengono, disperatamente
e malinconicamente, ad un altro tempo, il tempo che gli si fermò
in gola quel pomeriggio di novembre del 1915, con lItalia
interventista nella Grande Guerra.
La provincia è unisola, ha scritto Gesualdo Bufalino,
dove «irriducibili sono le complicità di sangue».
Ecco, è questa la provincia di Adolfo, il nonno, e di un
altro Adolfo, il nipote, anche lui uomo misurato e gentile, che
ha portato ora a termine, un secolo dopo e con una definitiva catalogazione,
la Collezione Archeologica Colosso, presentata a fine giugno al
pubblico nella città di Ugento. E il lungo preambolo a questaltra
storia racchiude tutta limportanza della Collezione: che non
è solo la quarta raccolta privata dEuropa, con poco
meno di ottocento reperti rinvenuti in loco che si inquadrano complessivamente
tra il VI secolo a.C. e letà altomedievale; non è
solo ricca di testimonianze del repertorio ceramico ugentino (trozzelle,
lekanai, piatti in vernice bruno-rossiccia), ma anche di ceramica
attica dimportazione (lekythoi), mentre tra i reperti della
fase ellenistica spiccano alcuni riconducibili alla ceramica di
Gnathia (un grande skyphos, una pelike e due oinochoai) e altri
della classe ceramica a vernice nera (skyphoi, tazze monoansate
e biansate, brocche e coppette), nonché lucerne e realizzazioni
coroplastiche (terrecotte femminili, tintinnabula) e reperti scultorei
che confermano Ugento già ricca dello Zeus stilita
splendida tra le città della Messapia; non è
solo una metafora del collezionismo illuminato dellOttocento,
contrapposto al saccheggio dei tombaroli e dei mercanti darte,
e teso a preservare le testimonianze del passato dalla vanga e dallaratro;
non è solo un valido esempio di un protocollo dintesa
tra pubblico e privato, tra archeologia e istituzioni, che funziona
e porta alla luce e rende visibile (e fruibile) un bene
di inestimabile valore.

Questa collezione va oltre, ponendosi sulla strada delle identità
da rispettare, delle memorie necessarie e irrinunciabili, di una
nuova etica, insomma, del territorio e della sua salvaguardia. Non
a caso, questa lezione magistrale viene da un uomo che, prima di
tutto, era mosso da una profondissima curiosità e dallansia
del nuovo, che sono tipici degli spiriti inquieti e anticipatori.
Scriveva ancora il Ribezzo, in quella lettera aperta che vale come
testamento di unintera generazione: «Innanzi al mondo
ha civiltà da esportare solo chi comincia dal conservar bene
la propria, la sua storia, i suoi monumenti». E il pensiero
correva al vecchio «sacerdote del progresso agrario»,
alluomo mite che aveva stupito la sua gente e la sua terra,
che aveva scommesso sul futuro, raccogliendo i segni di un grandioso
passato, splendido e irripetibile intermezzo tra le stagioni dellimpegno
generoso e quelle, a noi più vicine, del disincanto.
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