Papa Galeazzo
è lanonimo eroe
popolare che crede ancora in se stesso, che è comunque
capace di sognare
e ride soltanto
per nascondere nel profondo un pianto che dura dalla notte dei tempi.
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La stangata
Ora che tutti quanti stiamo facendo i conti di metà anno,
con tutte le scadenze che ci piovono addosso (la seconda ondata,
puntuale come la morte, a dicembre) emerge la verità: abbiamo
subìto una clamorosa stangata, più elevata rispetto
allaumento di circa due punti della pressione fiscale registrata
nel 2006.
Per una sintetica analisi: partiamo da quello che era già
contemplato nella Finanziaria (che pure era stata presentata come
una manovra zero a zero), e cioè limpennata
delle addizionali Irpef da parte dei Comuni. Un sindaco su tre (praticamente
tutti quelli delle grandi città, e una buona parte delle
medie) ha aumentato il prelievo con una crescita media del 118 per
cento che colpisce circa 22 milioni di contribuenti: una bella scoppola.
Per quel che riguarda lIci, resta del tutto isolata la voce
di coloro i quali ne chiedono labolizione sulla prima casa:
una tabellina spedita dal ministero dellEconomia sostiene
che un provvedimento del genere significherebbe la cancellazione
di 2,3 miliardi di euro di gettito locale: un buco insostenibile
per le finanze degli enti locali, specie di quelli nei quali impera
la finanza allegra e che ignorano gli appelli alla moderazione della
spesa pubblica e al ricorso soltanto in caso di evidente necessità
a costose consulenze, a futili spese di rappresentanza, a misteriose
elefantiasi del personale con altrettanto misteriose competenze
e funzioni.

La stangata si è poi abbattuta con virulenza sullarea
nella quale si anniderebbe la quota più alta dellevasione
fiscale: le dichiarazioni dei liberi professionisti. Il viceministro
dellEconomia ha fatto scattare unilateralmente la revisione
di ben 206 studi di settore. Gli aumenti medi viaggiano su percentuali
vicine al 30 per cento, e alcune categorie invitano i propri iscritti
a non adeguarsi ai nuovi parametri. Come dire: prove tecniche di
ribellione fiscale, che intrigano in modo particolare le regioni
settentrionali, dove lavorano 330 mila professionisti e circa tre
milioni di titolari di imprese.
Infine, alcuni dettagli, piccoli ma non meno odiosi: laumento
dei contributi per gli apprendisti, la minaccia di revisione degli
estimi catastali, lappesantimento delle documentazioni, il
ripristino della tassa di successione. Altro che sportello unico
per mettere su unazienda, o sfoltimento della burocrazia,
e quantaltro. Le tasse volano, e il contribuente-cittadino
fa i conti anche con laumento delle bollette e dei trasporti,
mentre il ministro dellEconomia ripete che «le tasse
diminuiranno». Già, ma quando? E per chi? Intanto,
girano cifre da vertigine per levasione (ma chi la persegue
concretamente?), e si riconosce che il cittadino onesto paga, per
questo, il 10 per cento almeno di tasse in più.
Forse pochi sanno che il 25 maggio lItalia ha subìto
lennesimo sorpasso: il Parlamento tedesco, con un lieve anticipo
sulla tabella di marcia promessa dal governo Merkel, ha approvato
il taglio delle aliquote sugli utili aziendali delle imprese, con
un ribasso dal 38,7 per cento attuale al 29,8 per cento, che dovrà
essere versato a partire dallesercizio 2008. Tutto come promesso:
il che, oltre le Alpi, non suscita alcuno stupore. Si pensi a quel
che accade in Estonia: oggi si paga il 21 per cento, ma è
già in calendario una riduzione progressiva fino al 19 per
cento in tre anni. Senza sorprese per nessuno, imprenditori e consumatori.
Insieme a questa decisione, vantaggiosa per le imprese, il Bundestag
ne ha presa unaltra, indirizzata ai privati: le aliquote sulle
rendite finanziarie vengono unificate al 25 per cento. Tutto come
previsto. Al contrario, in Italia la politica di armonizzazione
fiscale è stata messa precipitosamente nel cassetto, perché
ci voleva (pensate un po!) «una riflessione politica».
Nel senso: cerchiamo una soluzione che ci porti qualche voto, visto
che la barca fa acqua.
La novità che lItalia, dopo la riforma tedesca, oggi
detiene linfausto primato della tassazione più pesante
sui profitti dimpresa (in Irlanda si paga un terzo...) dovrebbe
meritare la prima pagina dei quotidiani. Ma non è così.
Il fatto è che i numeri fanno sorridere (cioè piangere)
gli imprenditori in lotta quotidiana con uno Stato che scarica i
propri costi vergognosi e le proprie contraddizioni sulle imprese
e sui cittadini onesti: lesatto opposto di quanto fanno gli
altri, i quali hanno capito da tempo che oggi i governi devono essere
un fattore essenziale per competere e creare ricchezza per tutti,
imprenditori e operai, professionisti e impiegati, lavoratori temporanei
e pensionati, attraendo capitali e lavoro.
E non parliamo dellassurdo balletto di disposizioni prima
approvate, subito dopo modificate oppure abolite, che ha accompagnato
lultima fase del 2006 e la primavera di questanno, rovente
sul piano fiscale, quella in cui si è accumulato il cosiddetto
Tesoretto, ultimo schiaffo allItalia che lavora.
È la prova del nove di un atteggiamento pinocchiesco: se
ci fosse leffettiva volontà di abbassare in futuro
le tasse, infatti, il governo dovrebbe destinare quel gruzzolo a
ridurre la manovra per il 2008, proclamando che non sarà
chiesto un solo euro in più ai contribuenti e promettendo
che, questa volta, i sacrifici si faranno solo sul versante delle
uscite, tagliando le spese. Invece i ministri e i partiti, specie
quelli nemici del mercato, della meritocrazia, della produttività,
si accapigliano fra di loro per buttar via quei soldi dalla finestra.
Eppure, ci dice lOcse, le maggiori entrate finiranno presto,
anche perché dipendono quasi esclusivamente dalla crescita
dellexport delle piccole e medie imprese: proprio quelle che,
con questa politica economica e fiscale, si rischia di strozzare.
luca ferrario
Impara larte
e
La disponibilità ad ospitare questa mostra
trae origine dalla nostra consolidata convinzione della complementarietà
tra architettura e arte, creando fin dalla fase progettuale i presupposti
di una proficua collaborazione tra i diversi soggetti impegnati
in un processo creativo. Abbiamo avuto la fortuna di poter verificare
questo spirito di collaborazione con molti artisti, tra cui alcuni
di chiara fama, come Giacomo Manzù, Armando Marrocco e Fernando
De Filippi, realizzando insieme ad essi opere di notevole rilievo.
La mostra perciò è un augurio e uno stimolo ai giovani
partecipanti perché la loro ricerca trovi come referenti
privilegiati gli architetti, creando così un rapporto tra
Arte e Architettura che nellattualità ricopra la capacità
di ristabilire un dialogo creativo così fecondo nel passato.
rosario scrimieri - maurizio caproni
Architetti

Ancora una volta lAccademia di Belle
Arti di Roma si trova a collaborare con istituzioni pubbliche e
strutture private che cercano di integrare lintervento artistico
con quello didattico. Loccasione è stata offerta dallo
Studio degli Architetti Scrimieri e Caproni, che insieme alla cattedra
di Scultura dei professori Donato Bianco e Oriana Impei ha organizzato
la mostra Impara larte e.... Gli allievi prescelti
si sono confrontati sul tema del rapporto Arte e Architettura, tema
sempre più presente nel dibattito artistico contemporaneo:
negli ultimi anni molteplici sono state le iniziative per mettere
a punto i confini e le potenzialità espressive di interventi
artistici allinterno di progetti architettonici in relazione
alla public art. Per gli allievi dellAccademia
di Belle Arti di Roma, quindi, è stata unoccasione
straordinaria proprio per riflettere su tematiche ancora esterne
alla programmazione didattica e suscettibili di ulteriori sviluppi.
gaetano castelli
Direttore Accademia BB.AA.
Sempre più affascinati e coinvolti dal concetto di
trasversalità, non fosse altro che per il moltiplicarsi della
comunicazione legata allarte nellevoluzione stessa di
quello spiazzamento così caro a Marcel Duchamp,
e convinti che molteplici siano i luoghi dellarte, ci piace
che gli architetti Scrimieri e Caproni abbiano offerto ai giovani
scultori dellAccademia di Belle Arti di Roma del corso di
Scultura dei docenti D. Bianco e O. Impei loccasione di situare
le loro opere allinterno dello Studio di Architettura, facendo
sì che le stesse possano interloquire fuori dalla dimensione
puramente estetica che individua e caratterizza la galleria o il
museo.
E ci chiediamo per quale strana alchimia ci ritorni alla mente quanto
scritto da Rudi Fuchs nel suo testo di presentazione di Standing
Sculpture, la mostra tenutasi nel Castello di Rivoli dal dicembre
1987 allaprile dellanno successivo con opere, tra gli
altri, di G. Baselitz, E. Chillida, L. Fontana, A. Masson, M. Pistoletto,
R. Serra, F. Melotti, e più precisamente quella frase che
afferma: «... e le sculture erano come gente in piedi in una
stanza», sollecitando riflessioni sul loro essere, sul loro
relazionarsi e sul loro interloquire.
Nellassoluto protagonismo dello spazio e in quel
suo essere architettura nellarchitettura, e arte nellarte,
fino a consentire allidea, in quanto tale, di concretarsi
superando ogni possibile limite e ogni imprevedibile confine. Riprovando
quella stessa sensazione avuta nel ritrovarsi nel ventre di una
delle Nanas di Niki o nel cuore del Fishdance di Frank
O. Gehry.
toti carpentieri
Critico darte
La natura come maestra di color che fanno: questa
fu convinzione diffusa tra gli architetti di tutte le epoche. Lo
hanno affermato Vitruvio, Leon Battista Alberti e Palladio, ma anche
Borromini, Laugier, Milizia, e, avvicinandoci al nostro tempo, Le
Corbusier, Wright, Renzo Piano, Emilio Ambasz e altri ancora. Mai
come oggi, del resto, la lezione della natura indica agli architetti,
ma anche ai designer e agli ingegneri, la strada da percorrere per
evitare sciagure, cataclismi, sprechi, devastazioni. Vitruvio, nello
splendido proemio al secondo libro del suo trattato, attribuisce
al contatto con la natura linvenzione umana della società,
del linguaggio e dellarchitettura, nati insieme come effetto
della scoperta del fuoco e del piacere provato dagli uomini primitivi
di stare insieme attorno al tepore della fiamma.
Alberti e Palladio pongono laccento sulla necessità
che nellarchitettura si seguano le armonie proporzionali del
corpo umano creato a somiglianza di Dio, come mezzo per introdurre
in ciò che luomo fabbrica per se stesso una scintilla
di divinità. Le Corbusier, rivolgendosi nel 1936 a un gruppo
di architetti di Johannesburg, si chiede come sia possibile arricchire
le proprie capacità creative, e dà alla domanda una
risposta di straordinaria attualità: «Non abbandonandosi
alle riviste di architettura, ma partendo dalla scoperta del dominio
insondabile delle ricchezze della natura: la grazia, anzitutto!
Sì, questa leggerezza, questa esattezza, questa indiscutibile
realtà delle combinazioni, delle generazioni armoniose di
cui la natura offre lo spettacolo in ogni cosa [...]. Vorrei che
gli architetti, non solo gli studenti, prendessero la loro matita
per disegnare una pianta, una foglia, per esprimere lo spirito di
un albero, larmonia di una conchiglia, la formazione delle
nuvole, il gioco così ricco delle onde che si estendono sulla
sabbia e per scoprire le espressioni cicliche di unintima
forza».
La natura come maestra di economia e di semplicità: raramente
studiando una forma vivente si individuano parti inutili, purché
si tenga conto del fatto che molti dei suoi aspetti hanno come ragion
dessere la necessità di comunicare, e di farlo obbedendo
allistinto della bellezza. Larchitetto, quindi, imparerà
dal perfetto dimensionamento delle parti di un albero o di una foglia
a quantificare la materia necessaria a sopportare una certa sollecitazione,
ma imparerà anche dalla forma dei fiori, dalla livrea degli
uccelli e dai profili del tronco e dei rami di un albero a comunicare
attraverso segni e simboli i significati che possono trovare risonanza
nellanima di coloro i quali osservano le sue opere. Eccolo,
dunque, il segreto aurorale: osservare i processi con cui la natura
raggiunge le sue forme così affascinanti e metterle in relazione
con immagini architettoniche. Non per nulla, come ha osservato Portoghesi,
«passeggiare in un bosco corrisponde per me a vedere negli
infiniti aspetti della vita altrettante possibili ipotesi di unarchitettura
che sia, nello stesso tempo, lode della creazione e premessa di
una città più vivibile».
***

La polvere
del Salento è ormai lontana
Anche lepoca in cui scrivere romanzi è
ormai lontana: tuttavia continuo a rivolgermi a coloro che non salutai
come avrei dovuto, quando sparii improvvisamente.
Questa volta, mi fermo dove sono, ovvero dove sto benissimo. Non
ho che da descrivere lambiente che mi circonda: fra gli oggetti
che più amo, la chiave di San Francisco. Me la donò
quel sindaco, che mi aveva invitato, vista la popolarità
di cui godevo, per aver scritto anni e anni articoli dedicati agli
italo-americani della California su un giornale che si chiamava
Italia, letto con passione dai nostri connazionali emigrati.
Detta chiave era in semplice legno compensato e, in inglese, vi
si poteva leggere: Per piacere ritorna. Per me il suo
valore era altissimo.
Nella cameretta tra il verde cera un altro oggetto prezioso:
una chiave dora africana assai pesante, detta Croce
di Agades. Questa volta, il ricordo prezioso era africano:
Agades è un villaggio della Mauritania sul quale risplende
a picco la Stella del Sud, con tutti i suoi prodigiosi significati.
Per questo, tralascio il verbo allimperfetto, e decido di
restare. Altri oggetti cari mi circondano. Grazie, Cristiana.
Per esempio, il manifesto-programma di unopera lirica, che
non era stata mai rappresentata in Africa e che feci conoscere,
chiamando gli artisti della Scala di Milano. Mi limito al semplice
elenco dei cimeli del passato, ormai nostalgicamente affissi alle
pareti del mio rifugio: il diploma di unonorificenza francese,
il diploma di unaltra italiana, il dipinto a olio di una Madonna
portata in Versilia dallindimenticabile Salento ormai lontano;
un mio articolo incorniciato su Perla, il fedelissimo Terranova
che dorme proprio con me, nella mia angusta camera, e una bella
targa di socio fondatore dellAssociazione Lucchesi nel Mondo,
con placca doro.
È incredibile, appunto, che in così poco spazio possa
stare tutta la lunga vicenda di una vita, spesa a caccia del nuovo,
del bello, del vero. Per questo, mai mi sentirò come un esule
prigioniero: prima di dormire, guardo le pareti intorno e viaggio
ancora...
Fuori, unerbetta selvaggia profuma il mio sonno. Cosaltro
potrei desiderare di più?
Per darmi limportanza dellinvalido, avevo inserito tra
queste pagine sincere una foto del sottoscritto in carrozzina a
rotelle. Ora, sono immerso da lettere di amici che non vogliono
vedermi in quel modo. Cosicché questa parte del mio strampalato
diario continuerà senza pagine illustrate.
La gente mitizza volentieri: lo sta dimostrando. Ma ciò che
non è mito (confesso) è il terribile mal di schiena,
forse dovuto agli altrettanto noti fori nei reni, che
mi costringe presto ad una pausa forzata.
Non crediate che io riposi: devo trovare sempre nuovi spunti narrativi,
e non è facile. Meno male che ho ricominciato a ricevere
posta e tutti voi sapete che da sempre vivo attendendo con ansia
lunico uomo che amo, il postino. Non esagero, mettetevi nei
miei panni e vedrete che aprire una busta, giunta da chissà
dove, è una grande soddisfazione.
Nel frattempo, tanto perché si sappia, fui ricoverato una
seconda volta in ospedale, per il lavaggio del catetere, in verità
trascurato assai. Quando si sono formati coaguli nel tempo, la pulizia
diviene una vera e propria dolorosissima operazione. Continuo così
ad alternare momenti di gioia e momenti di crudele sofferenza.
Del resto, la mia vita fu sempre unalternanza di fasi opposte
e, forse, questa dialettica dellessere produsse la mia vivacità
essistenziale, nemica dellinedia.
Con questa parte seconda, infatti,inizio la doverosa corrispondenza
preannunziata. Non so a chi scrivere, so che scriverò. Questo
basta a sentirmi ancora vivo e pensante. Al solito, non è
poco.
Non si tratta, però, di semplice corrispondenza in partenza,
ma anche in arrivo. Per esempio, laltro giorno, un vecchio
amico dei tempi in cui mi occupavo di politica cittadina mi ha scritto
testualmente: «È necessario un forte impegno anche
economico degli enti e del Comune. Per realizzare questo progetto,
sarà quindi utile partire da quei paesi e frazioni più
densamente abitati, come lOltreserchio». E ha concluso
senza complimenti: «Acqua e fognature per tutti i paesi di
Lucca». Il suddetto candidato sindaco aggiunge: «Parcheggi
gratis in periferia e posti-auto riservati a ogni famiglia del centro
storico».
La frase propagandista che più mi piacque rimane la seguente:
«I giovani sono il futuro: a Lucca li renderò protagonisti».
Vi chiederete perché ho inserito questi passi non certo a
carattere letterario in questo mio autobiografico sproloquio. Lho
fatto per dimostrare che sono concretamente rimpatriato. Cosicché,
riprendo a scrivere di cose personali con tutto il pentito entusiasmo
del figliol prodigo! Non è vero che vivo lontano dalla città
dove nacqui; anzi, la porto ancora nel vecchio cuore, allarmato
come sono dai suoi battiti, sempre più sporadicamente irregolari.
Il mio segreto si chiama resistenza.
Non doveva essere una lettera di saluti ritardati? Daccordo,
ma il ritardo, a mio avviso, rende più intenso il legame
sentimentale.
A proposito di ritardo e delle conseguenti emozioni che ne derivano,
nel fare ordine tra il mare di carte che vado accumulando, ho trovato
una commovente lettera di quella dolce Lydie, che io chiamavo Siou-Wan,
ovvero Piccola Nuvola, suo nome asiatico. È stata una grossa
botta alla mia capacità di non piangere. Direte che, come
al solito, inserisco pezzi non pertinenti al testo.
Invece lo faccio, traducendo dal francese il più fedelmente
possibile:
Voglio che tu conservi il ricordo del bel tempo che abbiamo
trascorso insieme. Continuo a pensare alla vita che vivemmo in Senegal,
in Kenya, in Indonesia e a Casamassella.
Ora, sto continuando a battermi, ma non sarà mai più
la stessa cosa...
Penso anche ai nostri cani, che abbandonammo al canile. Lidea
mi fa soffrire.
Addio, ti amo e ti amerò per sempre....
Mi fermo qui, è una citazione pericolosa e fa un male terribile.
Il prodigio è avvenuto, Lydie parla!
Dico soltanto che quel sentimento è perfettamente reciproco,
non aggiungo simmetrico.
Lydie, lho inserito perché voglio che, un giorno o
laltro, tu possa leggermi.
A questo punto, delle mie cose, del presente, rimane soltanto il
verde della selva che mi circonda. Credetemi.
Per finire, è uno stato danimo sufficiente, oltre che
immeritato; intendo spremerlo, per cacciare ogni amarezza.
Lydie, hai visto? Non volevo scrivere a te, poi... lentamente il
tuo improvviso ricordo (quella lettera) ha forzato la mia bussola
di vecchio. Si è fatto largo con un ultimo scossone. Perdonami
anche questa volta.
Guardo fuori. Le Apuane e il Tirreno sono ancora lì, a mia
disposizione; proprio come lindelebile immagine che io conservo
e conserverò di Piccola Nuvola.
La schiena mi fa un male terribile, perciò chiudo definitivamente.
florio santini
Quel pauroso
sentimento del tempo
Chiedo scusa al lettore e allautore se per queste
righe su Nel mistero del tempo, il libro poetico che Giovanni Bernardini
pubblica con Piero Manni, comincio citando la dedica personale che
dice: Sarà questa la mia ultima caccia?, con
un riferimento al mio piccolo romanzo sullultima caccia di
Federico II, dello stesso editore, ma soprattutto con unallusione
alla caccia del tempo sulluomo, delluomo sul tempo.
Ma il motivo della citazione consiste nel rilevare come al
di là dellumile riferimento la dimensione poetica
profonda e implicita di Bernardini sia la stessa di ogni grande
scrittore. Perché ogni grande scrittore e grande vuol
dire colui che crede nelle parole tanto quanto crede nella vita
dentro i giorni (o di più?) pensa sempre sospetta,
forse segretamente, che ogni libro (anzi: ogni pagina, ogni parola)
siano sempre lultimo libro, lultima pagina, lultima
parola, limiti definitivi, invalicabili, assoluti.
E allora ogni grande scrittore pensa che in ogni pagina, in ogni
parola, sia indispensabile, inevitabile, metterci tutta la vita,
tutta lesperienza, tutta la possibilità e limpossibilità
dellesistere, ogni felicità e ogni dolore, tutte le
illusioni e le delusioni, le stanchezze e i vigori, tutti i sogni
e le occasioni, le sconfitte e le vittorie, le conquiste e le rinunce,
le coerenze e le contraddizioni. Pensa che debba mettercele così,
nelle pagine, nelle parole, come sono venute, ordinate o confuse,
attese o improvvise. Così fa Giovanni Bernardini, in questo
libro. Fa come ogni grande scrittore, indipendentemente dalletà
che conta nel tempo in cui scrive.
Bernardini è della classe 23. È anche
per questo motivo che provo per lui un grande affetto. Come
provavo un grande affetto per Aldo De Jaco, che era del 23.
Mio padre era del 23.
In questo libro di Bernardini trovo una delle più belle poesie
che abbia mai letto (e qualcuna lho letta). Sintitola
Sulla soglia: una lettera al padre; un tentativo innocente
di cancellare la distanza tra i luoghi della precarietà e
i luoghi delleterno; un atto di consegna fiduciosa al mistero
delloltre, allenigma dellaltrove.
Poi trovo una poesia dedicata al grande amico Salvatore Toma, il
ricordo della neve di quel marzo dellottantasette.
Dice Giovanni Invitto, nella bella e affettuosa postfazione, che
questo libro è il canzoniere di una vita, «uno specchio
nel quale il poeta si guarda non per trarre consuntivi ma per interpretare
il mistero del tempo».
Ha fatto bene davvero Giovanni Bernardini ad affidare ad un filosofo
come Invitto linterpretazione del suo mistero del tempo: che
è nella memoria, nel sogno, nella ferita del giorno che passa
impietoso sul cuore, sulle ossa, sul volto; è nel rimpianto
di tutto quello che è andato perduto, degli amici che a un
certo punto hanno salutato; è nel disappunto di tutto quello
che si sarebbe potuto fare e non sè fatto, nella nostalgia
di quello che si è compiuto, nella speranza per quello che
resta da compiere.
«Si perde così / nel mistero del tempo / lumana
esistenza», scrive: versi che stringono le teorie di Agostino
e le ultime parole di Albert Einstein, il Qohèlet e le concrete
e brucianti filosofie di chiunque si soffermi un istante a pensare
a se stesso.
Poi, in fondo e dentro lumana esistenza, e forse anche dopo
(perché questa è linconfessata aspirazione di
chiunque si ostini a martoriare fogli), cè la scrittura:
a volte nella forma di una prosa, a volte nellandare frequentemente
a capo della poesia, anche se inevitabilmente restano
pagine bianche, anche se si affievolisce la volontà di costruire
ponti sulle parole per andare incontro agli altri (o solo a qualcuno),
anche se si rimane da soli con se stessi e il rumore del mondo diventa
nientaltro che uno sciabordio senza significato.
In fondo e dentro resta la scrittura, come resoconto e progetto,
come specchio e cruna dellago, come annotazione al margine
del tempo, come consolazione per se stesso, lascito di memoria,
intimo testamento, come vizio incallito, come sollievo e tormento.
Anche se la scrittura è solitudine deserta. Inutile rimedio
o medicamento per un malessere viscerale. Chiosa al testo del tempo
che genera soltanto taedium vitae, spossatezza, mentre cresce il
vento pestilente della vecchiaia.
La vecchiaia per Bernardini non è solo un segmento dellesistenza;
è soprattutto una ferita provocata dalla consapevolezza delle
assenze, delle perdite continue e irrimediabili, del vuoto che si
allarga e inghiotte ogni affetto, ogni antico e nuovo appassionamento.
È la somma delle perdite e delle assenze. È un ritrovarsi
tra la cenere di tutto.
Rimane la memoria, che però non riesce a consolare. Anzi,
costringendo a stabilire paragoni, esaspera la solitudine, la rende
disperata. Fa da risonanza, da pietra dentro il pozzo che coinvolge
in centri concentrici tutti gli spazi del vissuto.
La scrittura si fa sempre più netta, più decisa, più
lucida.
Ora per Bernardini la poesia è concretezza concettuale, che
sul piano del linguaggio si traduce in una forma e in un lessico
che rifiutano ogni ambiguità, ogni artificio, finanche qualsiasi
condizione di polisemia. Le parole hanno significati precisi, inequivocabili,
e la sintassi assume landamento di un monologo lirico, sì,
ma lineare e incalzante.
Daltra parte la solitudine non è né ambigua
né artificiale, per cui non possono esserlo le parole che
la esprimono. Se poi la poesia è tramata da simboli e metafore,
è proprio perché la solitudine è simbolo e
metafora. Della morte.
Questo, per Bernardini, è la scrittura, adesso; questo è
diventata con lo stratificarsi degli anni: un gesto naturale come
uno sguardo, un movimento delle mani, un battito di cuore, un soprassalto
del pensiero, un trasalimento improvviso, un confronto sereno, un
sonno quieto, lansia di uninsonnia, il bisbiglio di
una preghiera. Una fede umana. Troppo umana. E, per questo, fragile
e poderosa, innocente e assoluta.
antonio errico
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