Settembre 2007

Schizofrenie di fine stagione

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Secessionisti
per amore di peculio
Aldo Bello  
 
 

Si frega le mani, Siben, che potrebbe portare con sé le 21 mila anime stanche di stare nel Veneto e vogliose di spostarsi più in su o più in là, dove l’erba è più verde e gli zecchini crescono sugli alberi...

 

Una risata omerica echeggiò dalla Puglia per tutto il Mediterraneo il giorno in cui un improvvido sindaco delle Tremiti chiese il distacco dell’arcipelago adriatico dall’Italia e l’annessione alla Repubblica della Jamahiriya, cioè alla Libia di Gheddafi. «La Puglia ci trascura», piagnucolò quel primo cittadino, ignaro d’esser diventato l’antesignano dei contestatori dello status quo geografico peninsulare e uno spirito anticipatore dell’idealismo lazzarone che porta con sé una temibile deriva istituzionale.

«Il Veneto ci trascura», riecheggia infatti oggi, a tanti anni di distanza, la città di Asiago, che insieme con altri sette Comuni dell’Altopiano, per la cui “redenzione” poco meno di un secolo fa morirono mio nonno materno e due miei giovanissimi zii, (468 chilometri quadrati di montagne, boschi, prati, pascoli e masi sparsi, con 21 mila abitanti in tutto), chiede di essere aggregata al Trentino-Alto Adige, al modo di altri centri che intendono traghettare in Trentino o in Friuli; o al modo di Cortina, nota località di diseredati, abitualmente frequentata da accattoni provenienti da mezzo mondo, che vuol trasferirsi in Alto Adige: in ciò incoraggiata dal presidente della Provincia autonoma altoatesina, che spalanca le porte alla “perla delle Dolomiti” colpita da improvviso morbo secessionista. «Sarebbe un ritorno a casa», ha sostenuto il filoaustriaco bolzanino Durnwalder, «visto che per quattrocento anni Cortina è stata nel Sud Tirolo».
Il signor presidente ignora sistematicamente che il Sud Tirolo, bilingue, si chiama anche Alto Adige. Ma portiamo pazienza. E registriamo che le unioni ladine si appellano (documenti alla mano) alla motivazione legata a una questione storica: Cortina, fino al 1923, faceva parte del Tirolo (si chiamava Anpezo), poi proprio quell’anno venne assegnata alla provincia di Belluno. Durante il primo conflitto mondiale si era schierata a fianco dell’Austria-Ungheria. Dopo, si era rapidamente e robustamente arricchita.

Le ragioni storiche. Solide, per i secessionisti. Comiche, per chi avversa le derive. E consisterebbero nel fatto che «la gente dell’Altopiano è di origine germanica», perché subito dopo l’anno Mille raggiunse quei luoghi, guidata da frati benedettini: si trattava di alcune famiglie di coloni bavaresi in cerca di terre da coltivare. Da questi personaggi, che per secoli hanno parlato la lingua cimbra, misteriosamente sopravvissuta, anche se ormai parlata da pochi, discenderebbero gli attuali abitanti, che ancora oggi usano parole di assonanza tedesca, come “rach” (muschio), “loch” (buca), “tal” (valle), “tanna” (abete). Tesi confermata nientemeno che da Papa Ratzinger, il quale, quando era ancora cardinale, una decina di anni fa, aveva scritto all’Istituto di cultura cimbra di Roana per incoraggiare «questa tradizione culturale che unisce la Baviera ai Sette Comuni», e che «non mi sembra sia un lavoro folkloristico, ma un contributo di cultura europea, di grande importanza spirituale, cristiana, umana».

«È una cosa priva di senso», sbotta lo scrittore Mario Rigoni Stern. Storicamente – chiarisce – non ci sono motivi: «C’erano i confini con Trento, una volta, ed erano confini veri, esiste ancora un posto che si chiama “Osteria del confine”, e i nostri vicini non erano mica tanto tranquilli: usurpavano i nostri pascoli e boschi, e spesso abbiamo avuto anche degli scontri». Già nel 1496 l’ambasciatore della Serenissima presso la Corte dell’imperatore Massimiliano parlava di «scaramucce frequenti e talora asprissime» tra i montanari dell’Altopiano e quelli trentini, oltre che di «sistematiche ruberie e soprusi». Storia a parte – precisa Rigoni Stern – gli interessi della gente dell’Altopiano sono stati sempre rivolti verso la pianura: «Basti pensare che il Tribunale è a Bassano, la Corte d’Assise a Padova, gli uffici delle imposte a Tiene, quelli delle ipoteche a Schio. Con Trento non c’è alcun legame». Incalza Ermanno Olmi: «Mi sembra che tutto questo fiorire di amor patrio, tutto questo anelito verso il Trentino, in realtà non sia altro che un sentimento molto interessato. Tanto che a questo punto, forse, varrebbe la pena di chiedere direttamente l’annessione alla Svizzera».

È stato ironicamente scritto che se la ride Siben, il piccolo gnomo di Slaghe, (vecchio nome di Asiago), sotto la barba e il cappello a punta. Ride, certo che tra non molto potrebbe far ritorno a casa, nella terra dell’antico popolo dei Cimbri, quelli che con i Teutoni furono sconfitti dalle legioni romane di Mario. Si frega le mani, Siben, che come un pifferaio magico potrebbe portare con sé le 21 mila anime stanche di stare nel Veneto e vogliose di spostarsi più in su o più in là, tracciando una semplice linea di demarcazione sulla carta geografica, includendosi in un’altra Regione, dove l’erba è più verde e gli zecchini crescono sugli alberi.
Altri gnomi esultano altrove, ma sempre in quelle aree da Terzo e Quarto Mondo straccione e affamato che è notoriamente il Norditalia. Così, se Lamon, Asiago, Cortina, Enego, Conca, Lusitana, Gallo, Rotzo, Foza, Roana e le province di Rovigo, Treviso e Belluno brigano per passare al Trentino-Alto Adige; se Cinto Caomaggiore, Pramaggiore, Gruaro e Teglio Veneto optano invece per il Friuli-Venezia Giulia; se Nasca, Ronco, Valprato e Ribordone reclamano il transito alla volta della Val d’Aosta; se Castel Deci, Maiolo, Novafeltria, Pennabilli e Sant’Agata Feltria invocano il trasferimento nell’Emilia-Romagna, nel contesto di una geografia mobile, provvisoria, interscambiabile come i pezzi di vetro di uno specchio andato in frantumi, è certamente perché un malessere profondo deve aver minato alle radici questo nostro schizofrenico Paese: ed è un malessere originato dalla caduta verticale dei valori primari sui quali si era fondata, insieme con la nostra composita cultura, anche la nostra non vile civiltà.

Oggi, il voto trasversale delle forze politiche – dall’estrema destra alla sinistra radicale – intende legittimare tutte le transumanze possibili. E un motivo contingente c’è: è nel portafogli. Vogliamo provare a indovinare? L’Iva prelevata in Trentino – tanto per fare un esempio – resta tutta a casa; circa il 90 per cento del prelievo sulle persone fisiche e sulle società è destinato agli enti locali; le province di Trento e Bolzano (Bozen, pardon!) offrono contributi a fondo perduto al 70 per cento delle imprese… Si chiama federalismo fiscale, certo, e il principio non fa scandalo. Quel che scandalizza è che il Paese dei campanili si trasforma nel callido Paese dei referendum secessionisti a catena, che sintomaticamente portano il cuore dove più intenso e ubriacante è l’odore della pecunia. Ed è proprio al gioco della carambola che bisogna stare attenti, perché se – tanto per fare un altro esempio – un politico simpatico come Mastella si ricorda del grido di dolore del sindaco delle Tremiti, oppure della disponibilità alpin-valligiana ad accogliere transfughi erratici da tutte le latitudini, finisce che chiederà l’annessione di Ceppaloni alla Val d’Aosta, perché lì anche la benzina, per gli indigeni, è quasi gratis, e se per caso o per avventura uno si ferisce la falangetta del mignolo non si reca in ospedale a piedi o a bordo dell’utilitaria di un amico: chiama l’elicottero della Sanità regionale, che così – fra l’altro – non rimane inoccupato. L’unico difetto è che gli aostani non possono fare i croupier. Ma siamo pur sempre nel Belpaese, e chissà, una leggina ad hoc…

Perché il nostro è diventato un Paese a geografia variabile? Pensiamo al caso delle Province. Nel 1980 erano 95, e quelli erano tempi in cui un largo schieramento politico proponeva di abolirle. Oggi, a poco meno di trent’anni di distanza, sono diventate 110: quindici in più, (Biella, Verbano-Cusio-Ossola, Lecco, Monza-Brianza, Lodi, Prato, Rimini, Fermo, Olbia-Tempio, Ogliastra, Medio Campidano, Carbonia-Iglesias, Barletta-Andria-Trani, Crotone e Vibo Valentia). E sebbene la riforma (federalista) del Titolo V della Costituzione abbia previsto il loro ridimensionamento a favore delle aree metropolitane, le proposte di leggi miranti a costituirne altre sono numerose: in Parlamento se ne contano almeno 21, sparse in tutta la Penisola. Se approvate, il loro numero sarebbe superiore a 130, con richieste di nuovi poteri, assimilabili a quelli di Trento e di Bolzano, come prevede un progetto messo in campo dai leghisti di Vicenza. Niente male, per enti destinati appena qualche anno fa ad essere soppressi!

In questo contesto si inserisce il movimento dei Comuni da una Provincia ad un’altra, purché confinante, come prevede la riforma costituzionale del 2001. Con situazioni paradossali, come quelle dei paesi della romagnola Valmarecchia, suggestiva terra del celeberrimo formaggio di fossa (un pecorino da mangiare col miele, e che l’Unione europea cercò di far fuori “per motivi igienici” inventati di sana pianta, ma suggeriti dai concorrenti sleali di Francia, Germania e Olanda) e dello scrittore Tonino Guerra, i quali hanno deciso di non essere più periferia delle nobili contrade di Pesaro-Urbino, ma sempre periferia, alternativa, della consumistica Rimini.
Dunque, non si tratta di spinte suggerite da presumibili identità e tradizioni territoriali, ma da interessi economici e da logiche politiche. Le nuove Province sono caratterizzate spesso da maggioranze elettorali che, nei contesti di provenienza, sono minoritarie; riproducono pressioni economiche, partitiche, personali; si attuano a conclusione di un fitto gioco di scambi fra partiti, a livello nazionale, con carattere “bipartisan”. Ne consegue, in ogni caso, una crescita cospicua e generalizzata dei costi. Perché ogni nuova Provincia prevede nuove sedi, nuovo personale, nuove spese di bilancio; e nuovi amministratori, nuove commissioni, nuovi consulenti… Altro che alti ideali astratti! Le transumanze sono suggerite da benefici e privilegi tangibili, quali quelli delle Regioni autonome, a statuto speciale, che possono controllare le entrate locali, senza dover rinunciare ai trasferimenti statali.

E c’è un risvolto drammatico, in tutto questo “tourbillon” di terre mobili: esso rappresenta con mesta efficacia l’incapacità di portare a termine le riforme avviate negli ultimi quindici anni; di regolare in modo adeguato e coerente i rapporti fra centro e periferia; di chiarire, in ultima analisi, quale Stato vogliamo diventare.
Risultato? Un decennio e mezzo di leggi e leggine che hanno accentuato, in modo disordinato, le competenze locali, senza indebolire il potere centrale; forme di federalismo fiscale incomplete e arruffone; conflitti diffusi fra Roma e le capitali regionali, fra Stato e Regioni, e fra Comuni, Province e Regioni, ciascuno per sé e contro tutti gli altri; diffusione di idee di riforma generale del sistema, senza un progetto politico complessivo e chiaramente delineato; moltiplicazione abnorme di capoluoghi; transiti non per “vocazione” o in nome di un’autentica “identità territoriale”, come si ostina a predicare Franco Rocchetta, fondatore della Liga Veneta (“la madre di tutte le leghe”), ma inseguendo i criteri della massima convenienza e dell’egoismo cinico, che portano a smottamenti verso le Italie del Nord-Ovest e del Nord-Est, fino a disegnare un monstrum bicefalo con capitali Trento e Bolzano, oppure Aosta e Trieste: un’irriconoscibile landa che culmina, ovviamente, con l’ex Granducato di Toscana e con le prime propaggini del fu Stato Pontificio: tutto il resto dello Stivale, come non mancano di ricordarci un giorno sì e l’altro pure gli spiriti magni gravati dall’insopportabile peso dell’opulenza, altro non essendo che vera e propria “Affrica”.

 

   
   
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