Settembre 2007

Le radici, la Storia

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Due Europe
Imre Kertész Premio Nobel per la Letteratura
 
 

 

 

 

 

Mai come oggi
è stato chiaro che esistono almeno due Europe, in cui tutta la storia
e l’esperienza
comune si
specchiano
in modi diversi.

 

Dopo le prove tremende del secolo scorso, siamo stati testimoni di un cambiamento pacifico e inaspettato: il crollo incruento dell’Impero sovietico. Crollata la fortezza d’argilla, si accesero fuochi di gioia, e in tutta Europa si festeggiò allegramente. Soltanto dopo l’affievolirsi della prima euforia si incominciò a riflettere sulla spaventosa eredità del gigante defunto, e improvvisamente, in un’atmosfera d’angoscia, sorse l’idea europea. O, per meglio dire, il piano di un’unione monetaria e doganale, perché di un’idea non si parlava. Per la verità, ci rallegrammo che il tempo funesto delle idee se ne fosse andato. Sembrò che la scomparsa dell’ultimo impero totalitario avrebbe dissolto anche l’ultima ideologia totalitaria. Per questo motivo si parlò prudentemente, ma con intelligenza e con lungimiranza, di un’unione doganale e monetaria.
Tuttavia, questo pragmatismo dominante nelle sale delle udienze in molti Paesi dell’Est Europa si rivelò una lingua compresa da pochi. In questi Paesi, ridivenuti da poco indipendenti, probabilmente non la capì nessuno. Essi rimasero abbandonati a se stessi, e sebbene ciò possa suonare strano, dopo la fragile sicurezza sotto il dominio straniero l’ansia e l’incertezza ebbero il sopravvento. Più che un moto di rinnovamento, si generò un vuoto ideologico.

Fu un momento importante, perché allora si è deciso il destino dell’Europa, il destino di tutti noi, che oggi ci troviamo di fronte a quella che sembra l’inaspettata rovina di tutte le intese, la radicalizzazione, la paura del terrore e l’impotenza.
Il genocidio jugoslavo ha dimostrato che l’Europa esita ad accettare la pesante eredità lasciata dietro di sé dal colosso sovietico. Per alcuni anni semplicemente non si è osato rendersi conto del fatto che ai confini sud-europei si sono spalancate le fauci di quell’apocalisse che oggi, circa due decenni dopo, minaccia di divorare il mondo intero.
Di questi tempi si parla molto di “vecchia Europa”, delle sue tradizioni, della cultura europea. Non c’è dubbio che la crisi, la spaccatura di cui ovunque in Europa troviamo testimonianza, è in gran parte di natura culturale. L’Europa si trova oggi di fronte a questioni fondamentali, come già accadde nel 1919 e nel 1938, e adesso come allora è ugualmente irresoluta.
Mai come oggi è stato chiaro che esistono almeno due Europe, in cui tutta la storia e l’esperienza comune si specchiano in modi diversi. Nell’Europa occidentale le democrazie sono cresciute in maniera organica, sul terreno di una cultura sociale, per necessità economiche, politiche, e in base a una specifica mentalità, con l’aiuto di rivoluzioni che hanno avuto successo o di grandi compromessi sociali.
Nell’Europa centrale e orientale, invece, è stato dapprima fondato l’ordine politico, e in seguito la società si è lentamente conformata ad esso con un faticoso e doloroso lavorio. Ma forse non è avvenuto lo stesso anche con il cosiddetto socialismo? In molte aree esso venne direttamente eretto sopra il sistema feudale e l’aspetto grottesco della cosa è che l’ideologia, divenuta una religione di Stato, si trovava in aperto contrasto con la prassi. Questa contrapposizione brutale si poté superare soltanto con il terrore, e le conseguenze di ciò sono tuttora percepibili ai giorni nostri.
Dovrebbe esserci chiaro che la vera novità del XX secolo sono stati il Totalitarismo e Auschwitz. La nostra epoca non è quella dell’antisemitismo, ma l’epoca di Auschwitz. L’antisemita dei nostri tempi non si oppone agli ebrei, bensì vuole Auschwitz, vuole l’Olocausto. Nessuno Stato o partito totalitario è possibile senza discriminazione, e la forma totale della discriminazione è necessariamente il massacro.

Un tempo l’uomo era la creatura di Dio, tragica e bisognosa di redenzione. Il totalitarismo ideologico ha fatto sparire tra la folla questa creatura solitaria, per poi rinchiuderla tra le mura di un ordine statale compatto e infine degradarla all’ingranaggio di un meccanismo. Non ha più bisogno di alcuna redenzione, perché non si assume più alcuna responsabilità. L’ideologia ha derubato l’uomo del suo cosmo, della sua solitudine e della dimensione tragica del destino umano. Lo ha costretto a un’esistenza prestabilita, in cui la sua provenienza, la sua appartenenza razziale o la sua classe ne hanno determinato il destino. Ed essendo stato privato del proprio destino, è stata tolta al singolo anche la propria realtà umana, il puro sentimento della vita.
Le popolazioni est-europee hanno raggiunto la libertà senza aver potuto fare molto per ottenerla. Certamente, vi sono state la sollevazione dei lavoratori a Berlino nel 1953, la rivoluzione ungherese nel 1956, la Primavera di Praga nel 1968, il movimento politico di Solidarnosc nel 1980: tutte scuole d’amarezza. Un avvenimento storico importante lo si riconosce dal fatto che ha una durata, come sappiamo dallo storico francese Fernand Braudel. Ma nessuno di questi avvenimenti fu caratterizzato da una prosecuzione organica. Ebbero soltanto delle conseguenze: repressione, disinganno, l’opprimente esperienza di essere abbandonati a se stessi.
Una considerevole parte di questa società avvertì la libertà piovuta improvvisamente dal cielo sostanzialmente come un collasso, proprio perché non fu essa a conquistare la propria libertà. Tutti i suoi valori, che erano soprattutto serviti come strategia di sopravvivenza individuale e nazionale, di colpo divennero inutilizzabili, o apparvero come una vergognosa collaborazione.
Quando i Paesi dell’Europa dell’Est allungarono le braccia in cerca di sostegno verso le democrazie dell’Europa occidentale, ottennero soltanto una veloce stretta di mano e una pacca sulle spalle come incoraggiamento. L’Europa occidentale non seppe decidersi da che parte cominciare con i suoi vicini orientali, e ciò venne percepito da questi come l’arroganza usata verso i parenti poveri. Nell’Europa dell’Est l’arrivo della libertà non creò uno spirito di rinnovamento, bensì sprigionò il ricordo di un cattivo passato, il risentimento, il riaprirsi di antiche ferite nazionali, in alcuni luoghi sotto forma di follia nazionalista che portò assassinio e genocidio, in altri come un trattenuto nazionalismo nascosto sotto la maschera della democrazia.
Non vi è alcun dubbio che all’inizio del XXI secolo dal punto di vista etico ci troviamo abbandonati a noi stessi. Una civiltà che non dichiara apertamente i propri valori, oppure li pianta in asso, procede verso il declino, verso il decadimento senile. Dobbiamo creare noi stessi i nostri valori, giorno dopo giorno, attraverso quell’operare tenace anche se invisibile capace di portare quei valori alla luce del sole e in grado di votarsi a una nuova cultura europea.
Quando penso alla futura Europa, la immagino forte, sicura di sé; immagino un’Europa sempre pronta a trattare, e mai opportunistica. Non dimentichiamo che dopotutto l’Europa è nata da una decisione eroica: la decisione di Atene di opporsi ai Persiani.

 

   
   
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