Settembre 2007

Europei contraddittori

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Il successo negato
Melvyn Krauss Docente Università di Stanford
 
 

 

 

 

 

Mai come oggi
è stato chiaro che esistono almeno due Europe, in cui tutta la storia
e l’esperienza
comune si
specchiano
in modi diversi.

 

Tanto clamoroso è stato il successo del progetto europeo, che per il cinquantesimo anniversario della nascita della Unione europea ci si sarebbe aspettati di vedere la gente ballare per le strade. Invece, ahimè, è stato tutto un parlare di fallimenti: il fallimento dell’unione politica, il fallimento della Costituzione, l’incapacità di esercitare una leadership globale e di avere una visione globale, l’incapacità di mettere in pratica riforme economiche, e via proseguendo con la lista delle lamentele. «L’Unione europea va avanti per inerzia, è in una situazione di stallo, di profonda crisi», ha sostenuto Joschka Fischer, ex ministro degli Esteri tedesco, una delle voci più autorevoli in Europa.
Ma tutte queste ansie e preoccupazioni sembrano decisamente fuori luogo. Prendiamo il caso della Germania: alla fine della seconda guerra mondiale, era una nazione stremata e devastata, con un passato nazionalista dagli effetti catastrofici. Oggi, pienamente riabilitata, è europea e democratica al modo di qualsiasi altro Stato dell’Unione; anzi, in questi ultimi tempi si è guadagnata i galloni di Paese più importante del Vecchio Continente.
Gran parte del merito di questa trasformazione va attribuito all’Unione europea. Uno degli obiettivi primari dell’Unione, al momento della sua nascita, era stato quello di mettere la sordina al nazionalismo germanico, promuovendo il regionalismo: un’impresa coronata da successo, che è andata a beneficio di tutti gli europei. Perché i tedeschi e gli altri cittadini del Vecchio Continente non hanno celebrato questo importante traguardo, invece di impelagarsi in chiacchiere disfattiste su crisi e impasse?

E poi, dove sarebbe questa crisi, dove sarebbe questa impasse? Sul fronte economico, la zona euro se l’è cavata più che bene nel 2006, e quasi tutti gli esperti prevedono che nell’anno in corso l’Europa crescerà più degli Stati Uniti, nonostante il pesante incremento dell’Iva in Germania.
Ma c’è un fatto ancora più significativo: l’assenza di un’unione politica non ha frenato l’adozione dell’euro e della politica monetaria comune. Al contrario, a livello internazionale l’euro ha impiegato poco tempo a farsi accettare come una tra le principali valute mondiali, (ha contribuito a questo risultato la determinazione della Banca centrale europea nel tenere sotto controllo l’inflazione), e questo è un segnale che il progetto monetario procede senza ostacoli.
La valuta unica europea, attualmente, si sta rafforzando rispetto al dollaro perché in Asia e nel Medio Oriente le Banche centrali stanno aumentando la loro quota di riserve in euro: un chiaro voto di fiducia nei confronti della nuova moneta e della Bce. Il successo dell’euro e il buon funzionamento della politica monetaria comune sono la dimostrazione che è possibile realizzare progetti “europei” importanti anche senza i vantaggi di un’unione politica effettiva.
Se gli Stati membri si sono dimostrati capaci di mettere da parte le proprie divergenze quando si è trattato di creare una politica monetaria comune, più complesso si è rivelato mettere in piedi una politica estera comune. Su questioni come l’Iraq e i piani statunitensi per installare un sistema missilistico difensivo in Polonia e nella Repubblica Ceca, gli europei sembrano far fatica a parlare con una voce sola.
La ragione è evidente. Nel campo della difesa, l’Europa rimane eccessivamente dipendente dagli Stati Uniti. Nel caso di alcuni membri (la Germania e l’Italia) questa dipendenza è più accentuata che in altri (la Francia), e dunque è più probabile che le iniziative strategiche americane, in quelle capitali, incontrino un’accoglienza più favorevole. Fintanto che tali differenze persisteranno, resisteranno anche le divisioni politiche dell’Europa. Ma raggiungere l’indipendenza dagli americani per quel che riguarda la difesa comporterebbe dirottare verso la spesa militare ingenti risorse, oggi destinate a programmi sociali: una prospettiva, questa, a cui finora gli europei non si sono dimostrati interessati.

La diversità di voci non riflette, secondo l’interpretazione tradizionale, una mancanza di volontà politica di unirsi e parlare con una sola voce sulle questioni strategiche: è il risultato di una scelta implicita compiuta dagli europei. Molti di costoro hanno deciso che è meglio tenersi lo Stato sociale, rinunciando a una politica estera e di difesa comune, che richiederebbe cambiamenti radicali nello stile di vita dei cittadini del Vecchio Continente.
Con la scomparsa della minaccia comune rappresentata dalla vecchia Unione Sovietica, inoltre, i partiti di sinistra europei stanno assumendo tratti più marcatamente antiamericani. Un esempio è la Spagna, dove, con l’ascesa al potere dei socialisti di José Zapatero, la politica estera nazionale ha cambiato radicalmente rotta, sconfessando il sostegno accordato dal precedente Governo alla politica americana in Iraq, (è interessante osservare, però, come il cambio di Governo in Italia abbia avuto un impatto meno eclatante sulla politica estera nazionale, per via della più marcata dipendenza militare del Belpaese dagli Stati Uniti).
Ovviamente, con Paesi governati da partiti socialisti e socialdemocratici e Paesi governati da partiti conservatori è difficile che l’Europa possa parlare con una voce sola. Le cose potrebbero cambiare se dovesse emergere una nuova minaccia comune, oppure se i partiti conservatori diventassero antiamericani come quelli di sinistra. Considerando l’estrema impopolarità di George Bush in Europa, la nascita di una destra antiamericana non è più da considerarsi come una possibilità remota. Ma con una prosperità economica senza precedenti, frutto dello straordinario successo registrato dall’Unione europea nell’ultimo mezzo secolo, l’unificazione politica può tranquillamente aspettare. Non c’è motivo per angustiarsi, anzi è il caso di congratularsi.

 

   
   
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